Caro amico, ti scrivo


 

 


Io di te non posso scrivere se non raccontando una "cronaca minore", quella che non ha nulla di spettacolare né finirà mai sui giornali: rimane indelebile nella memoria del cuore. È un raccontare il mio, senza pretese di definire. Così come ci si racconta tra amici. Tu raccontavi, Padre Davide: quante sere, fino a notte fonda, a raccontare!

La cronaca minore - la mia - ha inizio in giorni in cui mi era sconosciuto il tuo volto. Ero un liceale e nei Seminari leggere Montale, Ungaretti, Turoldo era guardato non dico con sospetto, ma quasi fosse una stranezza. E io affascinato dai tuoi versi, asciutti, ma abitati dallo stupore: "Io non ho... mani che mi accarezzino il volto...". Cominciavo così a seguirti, come da lontano, quasi furtivamente. Erano i tempi di una frequentazione e di un'amicizia inespresse.

Poi mi fu dato conoscerti da vicino: conoscere i tuoi occhi, la aia voce, le tue mani. Erano gli anni in cui le strade si infiammavano di immaginazione e, a volte, purtroppo anche di violenza; gli anni del vento per la chiesa: e non era solo vento di tempesta, come usavano dire i profeti di sventura, ma anche e soprattutto vento di Pentecoste, vento del Concilio.
Ricordo ancora: eri venuto a Busto Arsizio, a commentare una parabola - tu ci hai sempre commentato le parabole, quelle di Dio e quelle dell'uomo -. Quella sera, il commento era sulla parabola del samaritano. Sono passati più di vent'anni: "Un uomo" - leggevi - "scendeva da Gerusalemme a Gerico...": e la tua voce a sottolineare: "un uomo, capite, senza aggettivi, senza qualifiche o appartenenze. Un uomo! Ti basta che sia un uomo, perché tu ti senta chiamato a fermarti". E poi ancora, nel tuo commento, l'accenno a tuo padre, che si ribellò il giorno in cui qualcuno si azzardò a dire che tu eri la sua immagine: radunò gli altri otto figli con te, e disse: "No. Tutti insieme e solo insieme fanno la mia immagine". Così - commentavi - noi tutti, ma insieme, siamo l'immagine di Dio. La parabola di Dio e la parabola dell'uomo. Ti accompagnammo a S. Egidio nella notte. Era buio, ma il cuore ardeva, come ai pellegrini di Emmaus.

E vorrei raccontare anche del tavolo. Sì, Davide, mi è rimasto negli occhi quel lungo tavolo, intorno al quale si conveniva da ogni dove, il sabato sera. Erano i primi mesi del mio ministero a Lecco: mi riuscì per qualche mese - ma la fortuna durò poco - di tenere libero da impegni il sabato sera. Venivamo con amici alla tua lectio. Ricordo il tavolo, il grande tavolo; e le tue mani, le grandi tue mani e la Bibbia, il grande Libro. Senza quel Libro, senza la Parola, sarebbe inspiegabile, senza cifra, ogni angolo della tua vita.

Il tavolo e la strada. Ti ho visto per le strade, sulle piazze, anche nei teatri. E non eri, un tribuno, un arringatore di folle, non cavalcavi le ideologie: così ti potrebbero descrivere solo quelli che non vanno oltre la crosta delle cose, non hanno occhi per l'invisibile. Eri un servitore della Parola, del popolo e della Parola insieme. Ti ho visto sulle strade, le strade di tutti, a camminare con tutti, al di là delle appartenenze - la chiesa appartiene solo al suo Dio! - : quelle appartenenze che poco o tanto sequestrano e velano l'universalità dei cammini. Non fu un luogo facile la strada: c'è rumore, c'è polvere, c'è fatica, c'è passione. È luogo di fraintendimenti la strada. E anche di incomprensioni: quelle che tu hai patito da parte di coloro che sono soliti giudicare tutto e tutti dall'alto della loro illibatezza". E come avrebbero potuto, dall'alto della loro separatezza, leggere la sete di Dio e la passione del Vangelo dietro le vesti impolverate e strappate di chi aveva scelto di stare sulla strada degli uomini?

E venne un Vescovo a Milano. La città rimase colpita - anche noi, Davide, ricordi? - per quel suo ingresso in Diocesi così inusuale. Non era processione, era cammino. Entrava camminando con il suo popolo, confuso tra la gente. Non c'erano protezioni, non separatezze. Era spoglio di tutto! Portava in mano la Bibbia: lo stesso libro nelle sue mani e nelle tue, Padre Davide.

Non poteva finire che in un abbraccio. Quando mi succede di legare nella memoria il tuo ricordo a quello del Cardinale Martini, l'immagine che più mi ritorna al cuore è quella dell'abbraccio. Ricordo quando ti abbracciò forte nella chiesa di S. Carlo. Era il lontano 1983 e si dava una tua rappresentazione sacra, "La morte ha paura", in occasione del Congresso Eucaristico. Ricordo il suo ultimo abbraccio alla Rotonda dei Pellegrini, nel consegnarti il premio "Lazzati". E tu respiravi, nell'abbraccio, finalmente l'aria di casa: il Vescovo - ricordi? - ti sfiorava dolcemente, quasi avesse paura di farti male - già ti era stato fatto troppo male -: sfiorava il tuo corpo smagrito, esile, fragile, eppure trasparente. Ti abbracciavano le mani. Ma già ti avevano abbracciato le sue parole: riconoscevano la profezia, riconoscevano incomprensioni dolorose del passato. "Oltre l'apprezzamento per ciò che sei, vogliamo fare atto di riparazione, vogliamo evitare di edificare soltanto sepolcri ai profeti, e dirti che se in passato non c'è sempre stato riconoscimento per la tua opera è perché abbiamo sbagliato".

Hai passato una vita con gli ultimi, con le loro speranze e con le loro disperazioni. Degli ultimi infaticabile voce, fino a condividere, nell'ultimo male, la loro sorte. E gli ultimi, che sempre si erano riconosciuti nelle tue parole, alla fine si riconobbero nel tuo Venerdì Santo, perché "credere a Pasqua, non è giusta fede". Fede vera è al Venerdì Santo "quando non una eco risponde al tuo alto grido". Nel salutarti il Cardinale Martini, volle dirti: "Tu, Padre David, hai sentito il silenzio di Dio, l'abbandono dell'uomo, l'urlo della disperazione presente in ciascuno di noi: e ci hai condotto per queste foreste oscure, con mano amica, tremante, perché tu stesso tremavi e temevi, ma con una fede incrollabile, che non sempre abbiamo saputo capire e valutare". Forse ci sfuggirebbe qualcosa di te, se non ricamassimo, Padre Davide, il tuo amore per le nostre case: il tuo volto è legato alle nostre case. Ti sentivi a tuo agio nella casa. Non nei salotti: anzi i salotti, quando arrivavi tu, ridiventavano casa, non luoghi della chiacchiera vuota, ma finestra spalancata sul mondo, sulla grande casa dell'umanità.

Le nostre case, come segno dell'amicizia che per te fu sacra. E gli amici erano tribù, "la grande tribù di Davide", direbbe Luigi Santucci. Possente la tua voce, come di tuono, ma tenerissimo il cuore. Una casa dunque dove potesse riposare il cuore, come succedeva a Gesù nella casa di Betania. Riposare nel volto degli amici: sì, certo, la casa è anche il profumo della mensa, è l'odore buono del pane, è il sapore forte del vino e tu ne eri grato; ma per te la cosa importante era raccontare e ascoltare.

E l'amicizia, il raccontarsi, prendeva tutta la notte. Ci manchi, Padre David. Ma sappiamo che oltre la soglia arde il fuoco e ci sono "mani che ti accarezzano il volto *".

don Angelo Casati

* Verso di Turoldo da la poesia Io non ho mani.


Angelo Casati, in David Maria Turoldo. La sfida della Pace. Ed. Bellavite. Missaglia (Lc) 2003, pp. 271-273

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