la parola della domenica
Anno
liturgico C |
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Sam 5,1-3 Vorrei - se me lo permettete - iniziare con una domanda, questa: che cosa evoca nel nostro immaginario questa festa? Evoca distanza o vicinanza la regalità di Cristo? Forse, in qualche misura, ancora distanza e soggezione. Ma se così fosse, saremmo lontani, lontanissimi dal messaggio dei testi biblici che oggi abbiamo ascoltato. Suggestivo è il piccolo brano tratto dal secondo libro di Samuele, che sembra dire: leggi la regalità di Cristo come le tribù di Israele leggevano la regalità di Davide. Come la leggono? Come lontananza o come vicinanza? Sentite: "In quel giorno vennero tutte le tribù di Israele da Davide in Ebron e gli dissero - sono parole da dire a un re? -: "Ecco, noi ci consideriamo come tue ossa e come tua carne". Bellissimo: tue ossa e tua carne! Che cosa abbiamo di più vicino delle nostre ossa e della nostra carne? Così noi ci consideriamo: "Tue ossa e tua carne". E il pensiero corre ad Adamo che, incantato davanti alla dolcezza del volto di Eva, condotta a lui nel sonno, esce in quella entusiasta esclamazione: Essa è ossa delle mie ossa, carne della mia carne! Questa è la regalità di Cristo. E questo è stupefacente: è una autorità alla quale possiamo rivolgere - e non succede spesso, ma succede sempre - le parole dell'amore, le parole della mutua appartenenza, dell'intimo appartenersi, le parole dell'amore che usi con la creatura che ami. Ma perché ciò è possibile? Perché
l'autorità, la regalità di Davide prima ancora d'essere
un titolo, più che un'autorità giuridica, è una autorità
morale. Era il loro re prima ancora di esserlo, era il loro punto di riferimento
già da prima, quando re,re sulla carta,re del titolo,era Saul:
le tribù dicono a Davide: "Già prima, quando regnava
Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele". Succede anche oggi, può succedere anche a noi di esibire titoli - il titolo di padre, di madre, di parroco, di insegnante - e accorgerci - almeno ci accorgessimo - che per coloro per i quali esibiamo la nostra autorità - per loro - il punto di riferimento è un altro: ad altri possono dire: noi ci consideriamo tue ossa e tua carne. Ecco, Gesù è questo. È questo perché già da prima S. Paolo dice - pensate - "già da tutta l'eternità" ci ha condotti e ricondotti. Una
regalità - quella di Cristo - che evoca non soggezione, non distanza,
ma vicinanza. Il vocabolo greco: "qewri,a"(theoria) - significa infatti "spettacolo", significa "sacra rappresentazione" e "qewrein" (theoreîn), il verbo usato per la folla, "stavano a vedere" - indica il vedere con interesse,con partecipazione. Questa regalità - voi mi capite - e non altra, questa regalità della croce - la donazione e non l'esibizione - è lo spettacolo dei cristiani, il loro vero spettacolo. E invece ci incantiamo davanti alle esibizioni. E poco o tanto ci scandalizziamo anche noi davanti allo spettacolo della croce. Si scandalizzano gli uomini religiosi: "Si dice Figlio di Dio" ma che razza di Padre è questo Dio che lo lascia morire sulla croce? Si scandalizzano gli uomini del potere, quelli che credono nella forza: "Se tu sei il re dei Giudei salva te stesso! Usa la forza!". E in effetti è uno spettacolo contro corrente: "Salva, salva, salva te stesso". E Cristo non salva se stesso, salva gli altri. Questo lo spettacolo: un Dio - come noterà il buon ladrone - un Dio nella nostra stessa pena! Quale vicinanza! Su una croce come la nostra. Pensate come è urgente per noi - quotidianamente nella tentazione di essere sedotti da altro spettacolo: dallo spettacolo dell'esibizione di sé, dal salvare se stesso - contemplare assiduamente lo spettacolo vero. E fissare il Crocifisso. Oggi lo si vuole togliere dalle pareti e non entro in merito a questa disputa: so però che il volto di Gandhi non offenderebbe la fede di un cristiano, così come forse il volto di Gesù la non fede di un non credente. Ma la cosa che invece mi inquieta -mi inquieta come credente- è un'altra: come è stato possibile - questo sì mi inquieta - che il crocifisso che da secoli ha dominato dalle nostre pareti sia rimasto per colpa nostra muto, e sotto di lui nella società abbia messo radici, e sia cresciuta, e abbia occupato tanto spazio questa cultura dell'esibizione, questo culto ossessivo dell'io, così lontano - diciamocelo - dallo spettacolo, quello vero, della Croce. |
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