la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella quarta Domenica di Avvento
secondo il rito ambrosiano


6 dicembre 2015



 

 

Is 4,2-5
Sal 23
Eb 2,5-15
Lc 19,28-38

E' come un'icona. Da stampare. Da stampare negli occhi più che nei libri. Una icona a cui guardare, di sovente, in cui riconoscerci come credenti. Quasi dicessimo: il nostro Dio, e noi con lui, siamo riconosciuti in questo e per questo. Questo ci appartiene: un Messia a dorso di puledro, sulla soma di un asino. Ecco l'icona!

Forse va collocata nel contesto: "Il Signore Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme". Erano, quelli, giorni di salita, di grande salita. Perché, di lì a poco, sarebbe stata Pasqua per gli ebrei. Ed era un convenire di gente, e non solo dalla Palestina, da vicino e da lontano, un formicolare per le strade, un fervore di preparativi. E Gesù sale, anche lui sale, per la Pasqua, cammina davanti a tutti.

Mi colpisce il particolare "davanti a tutti", come se in qualche misura volesse trascinare gli altri in quella salita, quasi a dare l'orientamento e la spinta. Dico "la spinta", perché più d'uno dei suoi discepoli non era così entusiasta di quella salita alla città santa, c'erano esitazioni da superare. Ormai avevano constatato che la prospettiva del regno, che il loro Maestro andava annunciando, trovava resistenze, opposizioni dure, in particolare da parte del potere; e Gerusalemme era la città del potere, il centro del potere. Sarebbe stato come gettare un tizzone di fuoco nella paglia.

Ma lui, saliva, camminando davanti a tutti. Determinato. Saliva certo per aggregarsi alla grande celebrazione di quei giorni, ma saliva anche per la grande rivelazione: avrebbe svelato se stesso e la natura di quel regno che, instancabile, per strade e villaggi aveva annunciato. L'avrebbe svelato nella grande città, meta del pellegrinaggio. Ultimo svelamento sulla croce.

Ma si cominciava da lì, da quel giorno per le strade. Chi era lui e che cosa fosse il regno lo voleva dire a chiare lettere fin da quell'ingresso, discesa e salita: dal monte degli ulivi sarebbe disceso nella valle e poi risalito alla grande città. A dorso d'asino. Abbiamo tutti notato come Gesù quel giorno volle entrare fin nei dettagli a precisare come doveva essere quel suo ingresso. Che non fu niente di trionfale, come ci succede a volte di dire. Tutto si giocava intorno a un puledro, a un asino: dettagli e dettagli per la ricerca del puledro. Ne andava della sua icona.

Icona doveva essere: lui in groppa a un puledro. Slegato! Con quanta cura nel racconto si parla della slegatura dell'asino. Sullo sfondo ci sembra di scorgere un Messia che slega, venuto a slegarci, a scioglierci dalle mille codificazioni, per farci respirare, per permetterci di vivere, dentro stagioni finalmente di libertà. A partire dalla libertà dello spirito. Ebbene l'ingresso del profeta di Nazaret, ingresso su un puledro, a dorso d'asino, aveva sapore di profezia: quella modalità diceva molto.

Diceva molto - più di molte parole - del regno cui Gesù aveva dato inizio per le strade. Aveva sapore inconfondibile di contestazione, contestazione radicale degli altri ingressi, quelli del potere, noiosamente sempre uguali a se stessi: ingressi trionfali. Questi sì, a fine di occupazione, ingressi in groppa a possenti cavalli, nel segno del dominio. L'ingresso umile del profeta di Nazaret era portatore in sé di una critica dirompente, motivo per cui Gesù diventava - e non poteva non diventarlo - un sorvegliato speciale.

Un atto, questo, che, accompagnato a quello della cacciata dei mercanti dal tempio, avrebbe fatto precipitare la situazione sino a una decisione di morte. Noi guardiamo quella piccola folla di poveri e straccioni, che stende mantelli per le strade e, lontana dai centri di potere, lontana dalle arroganze di coloro che contano, in netta controtendenza, acclama un venire umile e mite.

E nel venire umile e mite riconosce la visita di Dio: "Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore". E' il venire di Dio - avvento -. E' questo il venire di Dio e del suo messia, in cui crediamo. E' questa l'icona. Che parla di Dio, parla della strada di Dio. E lasciatemi dire parla anche dell'uomo, della vera strada dell'uomo, quella sulla quale Gesù ci ha preceduti, ci precede e sempre ci precederà. Una strada che parla - potremmo forse dire - di un nuovo umanesimo. Che non è una pensata, che so io, intellettuale, per la quale ci dilettiamo a sciorinare paroloni e a inanellare astrattezze.

Papa Francesco parlando di umanesimo alla chiesa italiana a Firenze, disse che l'umano è Gesù e ne indicò tre aspetti che ci è facile ritrovare nell'icona del suo ingresso a dorso d'asino nella grande città. Eccoli: l'umiltà, il disinteresse, la beatitudine. Gli ingressi dei poteri forti legano l'umano, sono segno di prepotenza, di interessi, generano timori. L'ingresso umile, l'ingresso dell'umile, slega l'umano, perché cerca la felicità dell'altro, genera festa, anche per le strade.

Sono i tratti di Gesù, devono essere i tratti anche della sua chiesa. "Questi tratti" così si è espresso Francesco a Firenze "ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal "potere", anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all'immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all'altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente. Una Chiesa che presenta questi tre tratti - umiltà, disinteresse, beatitudine - è una Chiesa che sa riconoscere l'azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L'ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti".

Parlano i gesti. Parlano più di molte parole. Parla l'ingresso di Gesù a dorso d'asino, come parla l'ingresso di Francesco su una utilitaria, o il suo salire l'aereo con una semplice borsa di pelle nera da viaggio, parla la sua immersione senza protezioni tra la folla. Siamo sulla stessa lunghezza d'onda di Gesù.

Siamo chiamati tutti a metterci, come credenti ma anche come umani, su questa lunghezza d'onda, è la lunghezza d'onda del vangelo, quella che può rigenerare sulla terra un nuovo umanesimo, un modo più umano, più nobilmente umano, di vivere, di stare al mondo...

 

 


 
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