la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella terza Domenica dopo il martirio di San Giovanni
secondo il rito ambrosiano


18 settembre 2016



 

 

Is 32,15-20
Sal 50
Rm 5,5b-11
Gv 3,1-13

Succede - e non raramente - che la liturgia proponga parole di Gesù fuori del loro contesto. Succede anche con questo brano di Giovanni che nel testo è introdotto da queste parole: "Gesù quindi rispose e diceva loro…". Le parole di Gesù sono dunque una riposta. A chi? E a che cosa? Gesù aveva guarito un paralitico alla porta delle pecore. Grande scandalo! L'aveva fatto di sabato.

La notizia arriva nel tempio. Dove si scatena la reazione. Anche dura. Scrive Giovanni: "Per questo i Giudei perseguitavano Gesù perché faceva le cose di sabato". E poi aggiunge: "Cercavano ancor più di ucciderlo perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre facendosi uguale a Dio". Adesso capiamo perché in questo discorso di Gesù ritorni così spesso la parola "padre": "il Padre mio". Chiamava Dio "suo padre".

L'aveva chiamato tale dicendo, a proposito della guarigione del paralitico, che lui non poteva fare diversamente: lui faceva le cose che fa il Padre suo, Dio. Tutto il brano è giocato, vorrei dire, su uno specchiamento: Il figlio che si specchia nel padre e il padre che si specchia nel figlio. Il figlio che si specchia nel Padre: a Gesù non interessa la sua gloria.

Al contrario dei suoi oppositori: a loro sì, a loro, uomini della religione, interessava semplicemente la loro gloria. Tant'è che pur avendo mandato uomini dal Battista per ascoltare la sua testimonianza, se ne erano lasciati illuminare solo per poco, poi aveva prevalso la sete della loro gloria, il culto della loro immagine. Non era quello che muoveva Gesù.

A guidarlo, la sua relazione con il Padre: era in dialogo con lui, lui il suo riferimento. E questo ci pone - voi lo intuite - una domanda: le mie scelte da chi, da che cosa sono dettate? Dall'amore, dalla ricerca inquieta, della mia gloria? A chi guardo, di chi ascolto la voce, quando devo fare delle scelte? Gesù ascoltava una voce dentro, dove gli parlava il Padre.

Non dovrei anch'io frequentare più assiduamente questo spazio interiore, questa relazione con un Dio che è Padre? Sono frequentatore o no della coscienza? Ma il guardare di Gesù a Dio non era un guardare indistinto, generico, Dio per lui non era un nome pallido, sbiadito, scolorito. Il suo Padre, Gesù l'aveva visto operare. E voi sapete che è attraverso le opere e non nelle chiacchiere, fossero pure religiose, che si fa conoscenza vera dell'altro.

E proprio attraverso l'operare di suo Padre Gesù aveva fatto esperienza di un Dio molto lontano dall'immagine ingessata che veniva proposta nel tempio. Un Dio ingessato nei precetti e nelle tradizioni. Giorni fa un amico mi mandava un testo del Card. Martini, che risuona come un invito a rovesciare l'immagine di Dio, a rovesciarla proprio a partire dalla croce.

Scrive il cardinale: "Se pensiamo Dio soltanto con i nostri concetti umani, se lo immaginiamo come colui che detiene al massimo grado tutta la potenza, tutto l'onore, tutta la gloria, tutto il diritto, come colui che potrebbe rivendicare la signoria di tutta la terra, siamo come la gente comune e i capi di cui ci narra I'Evangelo, i quali dicono: "Dio non può rivelarsi nella morte di croce". Invece, Dio amore, bontà, misericordia, si rivela proprio nel linguaggio della croce.

La vera onnipotenza è quella capace di annullarsi per amore, di accettare la morte per amore". Pensate la grazia che ci è stata fatta: per farci un'immagine non contraffatta, ma autentica di Dio, noi ora abbiamo un luogo - perdonate se lo chiamo così - un luogo, una persona. Specchio di Dio, con la sua vita e la sua morte, con le sue scelte, con le sue opere, è per noi Gesù di Nazaret. Che - diciamolo - ha dato evidenza assoluta alla passione che Dio ha per l'umanità.

Passione che già ci era stata raccontata nelle pagine dell'Antico Testamento: storia di un Dio che avrebbe tutti i titoli per stancarsi di noi umani, come oggi ci ricordava il brano di Isaia. Il brano sembra dirci che la ribellione non è un fatto isolato, ha in sé qualcosa di universale: attraversa tutto l'arco del tempo e contagia anche le persone così dette qualificate, quelle che si arrogano la pretesa di essere intermediari di Dio: "Il tuo primo padre peccò" è scritto "i tuoi intermediari mi furono ribelli".

Ebbene, a fronte della ribellione, ecco che cosa fa Dio: "Io, io, cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso e non ricordo più i tuoi peccati". E, ancora, "verserò acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido. Verserò il mio spirito sulla tua discendenza, la mia benedizione sui tuoi posteri".

Ebbene specchio di questa immagine promettente di Dio è Gesù, che fa camminare il paralitico, che mangia con pubblicani e peccatori. Cosa che faceva inorridire gli uomini del tempio. Era il vero racconto di Dio. Dio è da raccontare. Perdonate se, concludendo, riprendo questo verbo "raccontare" che mi sembra dica molto del verbo "testimoniare", che abbiamo più volte incontrato oggi nel brano di Giovanni.

Testimoniare non è fare esposizioni apologetiche o dissertazioni teologiche, che lasciano il tempo che trovano, soprattutto nelle donne e negli uomini d'oggi. C'è un abisso - e voi mi capite - tra proclamare e raccontare. La proclamazione ha molto dell'impersonale, dall'alto in basso. Nel racconto ci sei tu, c'è qualcosa da cui tu sei stato affascinato, ti si infiammano gli occhi. Non è una fredda esposizione, il racconto ha un calore. E forse è questo che è venuto a mancare, molte prediche e poco racconto. Il racconto non ha bisogno di luoghi sacri. Anzi sembra privilegiare quelli comuni. La casa, per esempio.

Come suggerisce il salmo 78, di racconto in racconto: "Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi" (78, 3-7).

Raccontare. Sono gli occhi che raccontano.

 

 


 
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