interventi


Angelo Casati , il 26/6/2001, su "Riforma"



CREDENTI E NON CREDENTI, LA SFIDA DEL DIALOGO

(per rivista Riforma)

È una condizione inedita. E tutti siamo -chi più chi meno- coinvolti. Solo pochi decenni fa il confronto "credenti" e "non credenti" era occasione rara, confinata a dibattiti su libri e riviste: qualcuno di noi ricorda titoli che facevano notizia.
Oggi il confronto non è più così raro né così lontano, non è riservato alle cattedre accademiche. Il "non credente" -scrivo la parola con un incerto disagio, perché sarebbe ingenuo rattrappirne la figura nella categoria dell'ateo- il "non credente" siede a tavola con noi, occupa la scrivania accanto, è nella cerchia dei nostri amici, quelli più cari, a volte è uno dei partner nella coppia.
Non ho -lo confesso- competenze accademiche per discuterne. Posso solo interrogarmi a partire dal vissuto quotidiano, là dove si incrociano i cammini. Testardamente e forse ingenuamente persisto a credere che se una condizione ci è data, non può essere elusa, può diventare anzi un'opportunità, oserei dire una grazia.

Se l'incontro credenti e non credenti può essere evocato come una terra di grazia e di mistero, non ci appartiene, non può appartenerci come cristiani l'atteggiamento, purtroppo ancora diffuso, forse prevalente, di chi sentenzia e condanna. Sentenze e condanne tanto più radicali e perentorie quanto meno si è interrogato e ascoltato l'altro.
Il mistero di Dio nel cuore dell'altro impone rispetto, chiede silenzio e empatia, chiede di sostare senza invasioni sulla soglia, evoca l'apertura di cuore, quella di Gesù, che aveva fama -noi purtroppo l'abbiamo perduta per strada- di essere amico dei pubblicani e dei peccatori, cioè della gente "distante", quelli che, sovvertendo criteri inveterati, chiamava "vicini", più vicini dei cosiddetti vicini.

L'osservatorio del quotidiano, quello che mi è più familiare come parroco, mi insegna che la realtà dei non credenti è spesso più articolata e variegata di quanto si pensi. Spesso dietro un volto c'è un cammino, una storia da ascoltare. Tante storie quanti sono i volti.
I volti dei non credenti non sono per lo più quelli altezzosi e cinici che tanta letteratura e tanta predicazione cattolica ha contrabbandato.
In una sua riflessione su una rivista uscita in questi giorni Massimo Marcocchi invita al discernimento e scrive:
"C'è il laicismo becero, c'è il laicismo pensoso di uno scrittore e di un filosofo che ammiro molto: Claudio Magris e Norberto Bobbio. Chi sono i laici? Sono i non credenti? Forse questa definizione è spicciativa. Il laico è l'uomo del dubbio, è l'uomo della tolleranza, è l'uomo di una verità che si va continuamente facendo, che non è radicata in visioni generali del mondo, che è sostanzialmente antidogmatica" (La rivista del clero italiano, 6/2001, pag. 441).

Tra credenti e non credenti c'è, a mio avviso, una fiducia da riconquistare. E nessuna fiducia, nessuna, può essere attesa lungo i sentieri del dogmatismo e delle immobili "verità".
Se io ho tutto e l'altro niente, anche in fatto di verità, cade ogni possibilità di dialogo, può essere ipotizzato solo un monologo. Al massimo posso concedermi la benevola "degnazione" di ascoltare, ma con la convinzione che l'altro non ha nulla da dirmi, nulla che io non sappia.
E se l'altro, il non credente, fosse invece uno presso il quale lo Spirito, in cui diciamo di credere, ci ha già preceduti? Nei suoi "racconti dello Spirito Santo" il Card. C. M. Martini afferma che lo Spirito arriva presso gli altri molto prima di noi, semina prima di noi, opera cose ben più grandi di quelle che noi possiamo fare e immaginare.

Ci accomuna, credenti e non credenti, il dono di pensare e di interrogarci a partire dalle nostre provvisorie limitate conquiste. Ci appartiene la condizione di essere tutti, credenti e non credenti, della razza dei nomadi, fuori dalle secche degli immobilismi:
Incontenibile andare
di monte in monte
inquieti dietro un mistero
che sempre ti seduce
da un'altra valle.

Perché se è vero, come crediamo, che Cristo è la via, la verità e la vita, è anche vero che il suo mistero avrà sempre terre inesplorate, per grazia, da attraversare.
Il prologo del vangelo di Giovanni sembra allargare la visione quando del Verbo di Dio, della Parola luminosa delle origini dice: "Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
Insensato e miope dunque il tentativo di ridurre Cristo a un luogo o a una religione.
"Niente senza di lui": come a dire -mi si perdoni la parola- che è "impastato" in ogni cosa, è finito in ogni cosa: il canale ha portato acqua dappertutto.
E quindi, voi mi capite, siamo chiamati a essere, oltre che della razza dei nomadi, anche della razza degli scopritori, uomini e donne delle miniere, che sanno scavare e scovare.
Fuori dalle ingenuità del passato, quando ti volevano far credere che l'oro fosse solo nella tua miniera. Giovanni dice che tutto il mondo è una miniera. Va a scavare. Va a scovare. Va a far brillare l'oro. Portalo alla luce.

Giorni fa, Eugenio Scalfari, ex-direttore di "Repubblica", neoilluminista, a conclusione di un suo editoriale scriveva: "Molto si giocherà sulla cultura. Vorrei anche dire che tutto si giocherà sulla cultura. Ricordatelo, voi che pensate che il denaro e la sua conquista, il potere e la sua conquista, la felicità materiale e la sua conquista siano tutto. Denaro, potere, felicità materiale non si conquistano senza cultura ma soprattutto non sono tutto: ci sono spazi di fantasia, realizzazione di sé e donazione di sé che stanno oltre la linea del semplice benessere. Questo fa la differenza".
Leggendo queste parole mi sono sentito interpretato. Ma, come credente, mi sono sentito attraversare da un'emozione al pensiero che un laico, non credente, citasse, forse senza saperlo, le tre tentazioni di Gesù nel deserto e ce ne mettesse in guardia, ora che non sempre le voci ecclesiastiche dall'alto ce ne segnalano il pericolo.
Altre volte è il non credente a portare alla luce la "parte di non credente" -così la chiama il Card. Martini- che dimora dentro di noi, là dove fede e non fede convivono.
E, dunque, benedetto, benedetto il non credente, che ricorda a noi credenti la preghiera del padre dell'ossesso del vangelo: "Credo, Signore, ma tu vieni in aiuto alla mia incredulità".

E benedetti noi, benedetti noi credenti, se, più che certezze-prigione, sapremo seminare con fiducia domande.
Anche la fede, nell'immaginario del passato -forse anche del presente?- era declinata presuntuosamente come una risposta a tutto.
Poi nacque la domanda: dov'è? dov'è Dio nell'orrore, nell'inferno della Shoah? La domanda del secolo che ci lasciamo alle spalle, la domanda che ci fa curve le spalle.
È nata la domanda. O forse la domanda è da sempre nel silenzio più segreto del cuore. Domanda rimossa, o perché soffocata dal frastuono del nulla o perché censurata dagli imbonitori delle coscienze, quelli che vendono a buon mercato le risposte e non hanno esitazioni. Loro sanno tutto!
Il biblista don Bruno Maggioni, in un suo editoriale illuminante ricorda la problematicità e l'apertura di molte pagine della Bibbia e così scrive:
"Colpisce il fatto che all'interno della Bibbia la domanda dell'uomo non scompare, come se venisse annullata dalla rivelazione. Bensì riemerge doppiamente.
L'esperienza del dolore innocente, dell'ingiustizia trionfante, della delusione, pare contraddire la bontà e la fedeltà di Dio e questo spinge l'uomo biblico -pur credente- a chiedersi se veramente Dio è fedele, se davvero la sua promessa è solida. L'uomo biblico si imbatte continuamente nel mistero di Dio. E così la sua domanda si fa doppia. Non soltanto chi è l'uomo, ma anche chi è Dio.
Per alcuni il fatto che nella Bibbia la domanda si riproponga costituisce una delusione. Personalmente ne provo entusiasmo. È un segno che la Bibbia è un libro sincero, non un libro edificante nel quale i conti tornano sempre. Far tornare i conti è desiderio dell'uomo, non il vero modo di manifestarsi di Dio".
Credenti e non credenti, compagni nella domanda che apre.

Nelle prime pagine di un suo piccolo libro "Perché no?", Moni Ovadia, uomo di teatro, saltimbanco, come ama definirsi, "ebreo corrosivo", ricorda che seconda la gemahtria cabbalistica ebraica, la parola Adam, essere umano, corrisponde numericamente alla particella interrogativa "che cosa?".
"Da questa identità numerica" -scrive Moni Ovadia- "i nostri maestri deducono che essere umano è colui che sa porre domande. Non chi dà risposte, ma chi sa porre domande. Perché chi pone domande apre alla produzione di senso, apre al futuro, dà alle generazioni avvenire la possibilità di intervenire, di esistere. Perché la domanda è quella che apre la questione, sollecita una risposta anche su questioni già apparentemente chiuse: si trova sempre una nuova domanda" (Perché no?, Bompiani, 1996, pag. 10).
"La domanda" -fa eco Martin Cunz- "ci costringe a guardare negli abissi di noi stessi, delle persone con cui abbiamo a che fare, negli abissi della nostra epoca, ma anche negli abissi di Dio".

26 giugno 2001

don Angelo Casati

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