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Angelo Casati , il 22/10/2008, Crema



GIUSTIZIA E UMANITÀ

Sono le prime due parole tra quelle che cercheremo di esplorare insieme in questi mesi. Scavare in queste parole non è facile. E' un'arte che non appartiene alla mia sola misura, misura confessatamene piccola e povera: è un compito che mi eccede. Per questo vorrei avervi compagni di ricerca in questi mesi. Il mio non è un trattato, confesso la parzialità. E' una parte, aspetta altre parti, portate da voi. Un po' tutti noi dunque, voi e io, alla ricerca dell'oro, se così si può dire. L' oro di Dio, nella miniera del mondo. Della razza voi tutti dei cercatori e degli scopritori dell'oro. Va, scava. E scova l'oro, portalo alla luce, fallo brillare. Tutti, con il dono dell'intelligenza dello Spirito che ci abita.

Giustizia

Mi sono chiesto che cosa sia "giustizia", secondo la parola di Dio. Ci troviamo infatti ad ascoltare discorsi in cui la parola giustizia ha spesso anche un suono ambiguo, o addirittura falso, perché è una giustizia che vede il mio diritto, isolato, sconnesso da quello degli altri. O vede una norma, un codice, ma non vede la persona, non vede i volti. E' la mia giustizia, è la rivendicazione e la difesa di ciò che è giusto secondo me e per me. O secondo una norma codificata e non secondo una situazione di vita...

Mi sono detto che forse avrei dovuto chiedermi che cosa è giustizia secondo la parola di Dio. Mi sono anche detto che sarei dovuto uscire dalla parola astratta e chiedermi invece che cosa significa essere giusto, quando sono giusto e quando non lo sono. E subito mi sono accorto che la parola va a indagare i rapporti: ho rapporti giusti, agisco secondo giustizia con l'altro, a cominciare da Dio, con gli altri, con le comunità cui appartengo: la famiglia, la società, i popoli altri, la terra cui appartengo? Ho rapporti giusti? Me lo chiedo aprendo dunque lo sguardo a un tessuto di vite e di storie in cui io vivo. Io sono un ramo, un ramo che riceve linfa e dà linfa.

Che cosa dicono al riguardo le Scritture? Vorrei partire da alcune considerazioni, che mi avevano colpito anni fa, era il lontano 1994, leggendo un intervento che Enzo Bianchi aveva tenuto a un Convegno di Biblia a Milano.

1. La Bibbia parla di giustizia come sofferenza e indignazione. Si è giusti quando si soffre, per una donna o per un uomo il cui diritto viene violato e conculcato. E quale diritto, se non primariamente il diritto di essere uomo, il diritto di un uomo di essere uomo, di una donna di essere donna, il diritto di entrambi di avere una vita che sia umana semplicemente perchè sono degli umani? E non perché hanno una cittadinanza o non l'hanno, o perché hanno una religione o ne hanno un'altra, o perché hanno una cultura e ne hanno un'altra. Semplicemente per il fatto di essere uomini e di essere donne.
Giustizia è sofferenza per il diritto violato. E, di conseguenza, indignazione.

Potremmo dunque dire che la giustizia inizia con l'indignazione. La giustizia inizia con lo sdegno. Indignazione sacra, sdegno sacro. Perchè sacri? Perché appartengono a Dio: gli appartengono indignazione e sdegno.

Come reagisce infatti Dio? Penso che tutti voi ricordiate alcune parole infiammate del Dio della Bibbia, parole contro coloro che commettono ingiustizia, parole che sembrano a volte sconfinare nella collera e nell'ira: "Ogni giorno" è scritto nel salmo "ogni giorno si accende il suo sdegno". Un'ira, una collera che certo hanno come intenzionalità ultima il ravvedimento dell'uomo dalle sue ingiustizie. Ma che stanno a significare a tutti noi la passione di Dio per i suoi figli. Lui si accende per i diritti violati e conculcati. Non è un Dio spento, pallido al punto di diventare evanescente. E' un Dio sanguigno. " L'ira di Dio" scrive Enzo Bianchi "non rinvia al capriccio di Dio, non è un "difetto di giustizia" di Dio, ma espressione del pathos di Dio ferito dal male perpetrato".

Una indignazione che percorre le pagine dei profeti. Tutti le ricorderete. Cito Amos, il pecoraio:
"Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria. Canterellano al suono dell'arpa, si pareggiano a Davide negli strumenti musicali, bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perché andranno in esilio davanti ai deportati e cesserà l'orgia dei bontemponi" (Amos 6,1.4-7).

Mi chiedo: abbiamo il pathos di Dio o non è forse vero che il pericolo, ancora oggi in agguato, è quello dell'indifferenza? Siamo stati educati all'indignazione o veniamo da un'educazione, che ha cercato di contenere l'accensione del sentimento di sdegno, un'educazione che a volte ha addirittura colpevolizzato, come poco ascetico, il moto di indignazione, un'educazione più attestata sull'invito a subire, a lasciar passare, a ingoiare.

Gesù si indignava. E condannava questo non avere occhi nè cuore.

Tutti ricordiamo la parabola del ricco epulone (Lc 16,19-30). Una parabola che di per sè non indaga sulle origini più o meno ingiuste della ricchezza. Ma della ricchezza dice l'effetto, un effetto inquietante, evidente nell'immagine dell'uomo ricco. La ricchezza rende ciechi. Ciechi e insensibili. Ciechi e indifferenti. Sì, nella parabola colpisce il contrasto tra chi veste di porpora e bisso e banchetta ogni giorno lautamente e chi invece giace alla porta coperto di piaghe, escluso anche da ciò che cade dalla mensa del ricco, escluso dallo scarto. Colpisce il contrasto, ma ciò che colpisce ancor più è il fatto che il povero e il ricco siano vicini, ad uscio: "Giaceva" è scritto "alla sua porta". Gesù mette in discussione l'indifferenza, l'insensibilità e lo fa parlando della compassione dei cani: "Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe".

La parabola ci mette in guardia. Mi dice: guarda che finisce così, che ti si chiude il cuore. Finisce che, preso dalle tue cose, preso dalla frenesia dei lussi della vita, neppure più ci pensi a questo squilibrio inquietante: tu e l'altro. Noi e gli altri. Che sono ad uscio. Perché c'è anche questo di vero: che oggi i mezzi della comunicazione ti portano ad uscio le povertà della terra, i drammi dell'umanità. Ma tu continui imperterrito nel tuo stile di vita.

Non ci si preoccupa. "Canterellano al suono delle arpe" ci ha detto il profeta Amos "bevono il vino in larghe coppe e si ungono degli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano." Della rovina del popolo non si preoccupano. Si occupano dei loro interessi. E una cosa è giusta o sbagliata, se asseconda o no i propri interessi. Siamo ciechi. Ciechi o miopi. Oggi assistiamo -è l'effetto oppiaceo dell'accumulo, dice il vangelo- assistiamo a un crescere dell'indifferenza e della miopia. Guardiamo vicino a ciò che interessa a noi. Non ci sfiora il pensiero della rovina di Giuseppe. E guardiamo ciò che riguarda noi oggi. Non ci sfiora la domanda se il nostro benessere consuma le risorse delle generazioni future. Come se fosse cosa che non ci riguarda. Mentre Dio ci ha dati in custodia gli uni agli altri. Ricordate la domanda senza cuore di Caino: "Sono forse io il custode di mio fratello?". Questo vuol dire essere uomini, secondo la Parola di Dio: essere custodi l'uno dell'altro. Gli esegeti ci fanno notare che questa è l'unica parabola del vangelo in cui si dà a qualcuno un nome proprio, l'unica. E Gesù lo dà al povero: Lazzaro lo chiama. E la parola in ebraico significa "colui che Dio aiuta". Mentre il ricco non ha nome. Credeva di avere un nome, di essersi fatto un nome con le sue ricchezze. Per il vangelo, pur vivendo nel lusso, rimane un "non uomo".

Infatti, se essere uomini significa vedere, l'egoismo ci spegne in umanità, perché ci fa ciechi sulla realtà. La realtà è il povero che sta al tuo uscio.

Se essere uomini significa ascoltare, cogliere voci, parole, segni, messaggi e appelli, l'egoismo ci spegne in umanità perché ci rende incapaci di ascoltare, ascoltiamo solo noi stessi.

Se essere uomini significa entrare in relazione, affacciarci al mistero dell'altro, l'egoismo ci spegne in umanità, perché l'altro diventa uno di cui servirsi. Anche nell'aldilà: "Padre Abramo" dice il ricco "manda Lazzaro ad ammonire i miei fratelli".

2. Un secondo passo che ci fa giusti secondo la Bibbia è la compassione: dallo sdegno alla compassione. Compassione nel senso originario della parola, del "patire con", del "soffrire insieme", del lasciarci toccare dall'ingiustizia e dal male che feriscono la donna, l'uomo, questa nostra umanità, questa terra. Perché Dio si lascia toccare, non tiene le distanze. E' scritto in Zaccaria 2,12: "Chi tocca voi, tocca la pupilla del mio occhio". "C'è una identificazione di Dio con i più poveri, con gli oppressi, con le vittime della storia. I senza dignità, gli angariati, la vedova e l'orfano maltrattati, l'operaio defraudato del salario, il giusto il cui sangue è versato, diventano preghiera, invocazione vivente a Dio il quale ascolta e diviene partecipe della sofferenza" (E. Bianchi).
Partecipare alla sofferenza dell'altro. Vorrei che andaste nella memoria a un'altra parabola, quella del samaritano che si prende cura dell'uomo assalito lungo la strada che da Gerusalemme porta a Gerico.

Passa il samaritano, l'eretico guardato con sospetto da coloro che sono dentro, dentro il vero popolo di Dio. Ebbene, la legge di Dio è nel segreto della coscienza del samaritano, e dà luce ai suoi occhi. Vede, vede con il cuore, prova compassione, è preso da un fremito alle viscere e si ferma. Non si erano fermati il sacerdote e il levita: videro e passarono oltre. E tu, dottore della legge -sembra dire Gesù- falla finita, una buona volta, con le tue astruserie teologiche. Prendi esempio! Prendi esempio da un lontano, da uno che è fuori. Non dai frequentatori del tempio -e qui Gesù è scopertamente polemico- prendi esempio dal samaritano. Bando alle parole e alle discussioni, "va e anche tu fa lo stesso!".

Che cosa fa il samaritano? Il testo greco dice: "ha fatto la compassione", ha generato compassione. E dalla compassione sono nati i verbi del racconto, che parlano in modo luminoso del suo prendersi cura.

Un verbo che mi colpisce è "si fermò": "si sentì fremere dentro e si fermò". Verbo importante per una stagione come la nostra in cui sembra ci sia negato il fermarci. Corriamo, con il rischio di "passare oltre" come il sacerdote e il levita. Forse corriamo per non vedere. O il nostro è un vedere televisivo. Che non ci fa fermare.

Il samaritano, l'eretico fece i verbi di Dio. Ce li ricorda il salmo 145. Eccoli: "Rende giustizia agli oppressi, da' il pane all'affamato. Il Signore libera i prigionieri, il Signore rialza chi è caduto, il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l'orfano e la vedova".

Uno di questi verbi mi affascina profondamente, il verbo chinarsi per rialzare chi è caduto, chi è a terra. Mi affascina perché mi ricorda quello che un giorno scrisse Luigi Pintor, un cosiddetto ateo. Scrisse: "Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi".

3. Questo accenno a Luigi Pintor mi sospinge a un ultimo passaggio sulla giustizia, che riguarda la connessione sconcertante tra religione e ingiustizia. La Bibbia ebraica, ma anche il vangelo, spesso mettono in guardia da questa commistione tra religione e ingiustizia, parlano di uomini religiosi indifferenti o peggio conniventi con le ingiustizie. Succede che con il culto, con le pratiche religiose si coprano le ingiustizie. Le parole dei profeti -le sentiamo la domenica- spesso vanno a denunciare e sono roventi nello smascherare questo dissacrante connubio.
Un accenno, tra migliaia, ancora dal profeta Amos: "Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione. Lontano da me il frastuono dei tuoi canti. Il suono delle tue arpe non posso sentirlo. Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne" ( Amos 5,21-24).

Come se si volesse comprare Dio con la magnificenza delle liturgie e delle adunate religiose. Tanto con il denaro, si dice, si compra tutto.

E Gesù, a sua volta, non è stato tenero con i cosiddetti osservanti. Ricordate Matteo: "Non chiunque mi dice: 'Signore, Signore' entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli". E segue un inciso, che spesso viene omesso nella lettura liturgica. Che è indicativo: "Molti mi diranno in quel giorno: 'Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nl tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?' Io però dichiarerò loro: 'Non vi ho mai conosciuti'" -ma come non erano quelli che sbandieravano il nome di Dio?- "non vi ho mai conosciuti: allontanatevi da me , voi operatori d'iniquità".

Senti lo sdegno di Gesù per una religione che copre l'ingiustizia. Il pensiero ritorna alla parabola del samaritano. Gesù costruisce i personaggi. Quanti ne poteva scegliere per dire l'indifferenza. Sceglie gli uomini della religione. E mette a confronto il clero e l'eretico. Se non sapessimo chi inventa la parabola diremmo che è un anticlericale. Lui voleva mettere in guardia da uno strano connubio che andrebbe più profondamente indagato.

Umanità

Abbiamo scavato parzialmente nella parola "giustizia". Vorrei accennare, se mi rimane un poco di tempo, alla parola "umanità". Essere umani. Con la scusa di essere di Dio, di essere soprannaturali a volte si è così poco umani, così poco partecipi con il sentimento. Siamo di ghiaccio.

C'è da riprendere in mano il Vangelo e abbeverarci dell'umanità di Gesù. Ricordate l'uomo dalla mano insensibile nella sinagoga? Gli uomini della religione hanno dimenticato i verbi di Dio e si scandalizzano per il Rabbi di Nazaret che compie i verbi di Dio. Fate pratiche religiose, sembra dire, siete legati alle codificazioni della legge e non avete umanità, non avete cuore per quest'uomo, l'uomo che ha bisogno. L'uomo è prima del sabato.Un senso di umanità che supera la legge.

Ho pensato di ricordarvi alcuni passaggi del libro del Deuteronomio, al capitolo 24, dal versetto 10 al 22.

Tra coloro che sono più sprovveduti nella vita il Libro del Deuteronomio fissa lo sguardo su coloro che sono costretti a ricevere dei prestiti.

Ebbene si dice: "Quando presterai al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prendere il suo pegno, te ne resterai fuori e l'uomo al quale hai fatto il prestito ti porterà fuori il pegno". Notate questa delicatezza del comando di Dio: resterai fuori dalla casa. La casa è il luogo della intimità dell'altro. Tu gli hai dato un prestito, è vero, però non hai diritto di intrometterti nella sua vita personale e intima, che riguarda solo lui e il suo Dio. Tu non puoi intrometterti, non puoi invadere questo spazio che è lo spazio della persona e dell'intimità. Non puoi fare da padrone nella sua casa perché gli hai fatto un prestito. E' un lato di luminosa umanità che dovrebbe portarci ad esaminare i nostri rapporti con gli altri, anche con le persone che sono tra le più bisognose, per verificare se in effetti veramente rifuggiamo da ogni pur minimo atteggiamento di velata oppressione, di invadenza, di intromissione perfino nelle loro sfere più intime, giustificato ai nostri occhi dal fatto che noi abbiamo operato un gesto di carità nei loro confronti.

Sotto accusa vanno evidentemente tutti quei sistemi di vita, personali o sociali, che poco o tanto tolgono rispetto alle persone e finiscono per imporre la nostra presenza, la nostra visione alle persone.

"Se quell'uomo è povero non andrai a dormire con il suo pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole perché egli possa dormire con il suo mantello e benedirti" (24,12-13).

Anche questo è delicatissimo comando. C'è una giustizia che deve essere superata, sembra dire il libro del Deuteronomio. È vero che tu gli hai dato una somma e tu hai il suo pegno. Questo è vero dentro un criterio di pura giustizia delle cose, dentro un criterio di pura distribuzione delle cose. Ma tu ricorda che, se il pegno che tieni è il suo mantello ed è l'unica cosa che lui ha per coprirsi nella notte, tu devi restituirglielo per la notte. Sembra di capire che per il Libro ciò che occorre alla persona in qualche modo deve essere considerato come suo diritto. Ciò che gli occorre è suo, sembra dire il Libro.

Non pensate che questo orizzonte andrebbe iscritto anche nelle nostre riflessioni di ordine sociale, nella verifica dei nostri impegni con gli altri a livello personale o di società o anche di nazioni?

È scritto ancora nel Libro: "Perché egli possa dormire col suo mantello e benedirti. Questo ti sarà contato come una cosa giusta agli occhi del tuo Dio" (24,13). Notate la bellezza di questo verbo. Il testo non dice: "perché egli possa dormire col suo mantello ed esserti riconoscente", ma: "perché possa dormire col suo mantello e benedirti" . Cioè: la benedizione su di noi viene dai poveri, la voce di questo povero è la voce che attira su di te la benedizione di Dio. È come se noi fossimo resi giusti dalla benedizione dei poveri.

Il primo caso di un bisognoso che il Libro sottolinea è quello di colui che ha bisogno di prestiti. Il secondo caso è quello del salariato: "Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli, o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e lì volge il desiderio; così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato" (24,14-15). In questo caso è il salariato che ha diritto alla ricompensa e viene sottolineato che hanno diritto alla ricompensa tutti i salariati. Non appena quelli del tuo popolo ma anche gli stranieri. Anche questa, raccomandazione preziosa per nostri tempi. Ricordo che anni fa mi capitò di incontrare un industriale, che mi diceva d'aver assunto alcuni stranieri giunti dal Camerun, tra l'altro bravissimi. Il giorno della paga, dopo averla ricevuta, uno di questi andò da lui a chiedere quanto dovesse lasciare di quanto aveva ricevuto. L'industriale gli rispose che non doveva lasciare niente. Se questo è potuto accadere è perché in altre parti, invece, bisogna lasciare una parte della paga. Semplicemente perché è uno straniero e quindi gli si può chiedere anche una tangente.

Se il salariato è povero -dice il testo- alla sera stessa deve ricevere lo stipendio. Avviene nel testo la rivoluzione dei nostri tempi: per alcuni la scadenza della paga può anche avere il ritmo dei quindici giorni o del mese, ma ci può essere qualcuno che non resiste a campare, non vive nel ritmo dei quindici giorni o del mese. L'attenzione dovrebbe essere al ritmo delle persone. Dovremmo ricordarlo. Noi tutti, chi in un modo e chi in un altro, abbiamo debiti materiali o morali verso qualcuno. Ci sono persone che lavorano per noi. Dobbiamo sempre chiederci se le trattiamo con giustizia e con riconoscenza. Bisogna "significare", cioè bisogna rendere visibile la giustizia e anche la riconoscenza, altrimenti - dice il Libro- non avremo la benedizione dei poveri, ma avremo l'accusa dei poveri: "Perché non gridi contro di te al Signore e tu non sia nel peccato" è scritto.

Nel Libro vengono poi ricordati quelli che possiamo definire come "poveri strutturali": "Non lederai il diritto dello straniero o del povero e non prenderai in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore tuo Dio; perciò ti comando di fare queste cose" (24,17-18). E prosegue: "Quando facendo la mietitura nel tuo campo vi avrai dimenticato un qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l'orfano e per la vedova, perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai indietro a ripassare i rami: saranno per il forestiero, per l'orfano e per la vedova. Quando vendemmierai le tue vigne, non tornerai indietro a racimolare: sarà per il forestiero, per l'orfano e per la vedova. Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d'Egitto, perciò ti comando di fare questa cosa" (24,19-22). Possiamo definire queste categorie "i poveri strutturali", categorie che in certo modo quasi appartengono alla struttura della terra. Lo straniero senza terra, l'orfano senza padre, la vedova senza marito sembrano quasi simboli della povertà dell'uomo.

Queste categorie, forse in forme diverse, ricorrono nella storia. Senza terra, senza padre, senza marito. Qualcuno a volte con tutti e tre questi "senza" insieme.

Troviamo nel brano un bellissimo ammonimento che riguarda la mietitura, l'abbacchiatura, la raccolta dell'uva. Devi lasciare che un poco sia dimenticato. Alle categorie più deboli e più indifese non devi dare l'olio, l'uva, il grano perché sarebbe ancora un'elemosina. Dimentica nel campo olive, uva e grano, dimenticane una parte per loro, per evitare loro l'umiliazione di domandarne, lasciane una parte. Sembra qui di ricordare le parole di Gesù: "Non sappia la tua mano quello che fa l'altra". Un invito ad agire quasi con una certa noncuranza nel lavoro perché ne rimanga per loro.

I poveri potrebbero essere gli stranieri, i carcerati, gli emarginati, i malati incurabili, i pazzi. Dimentica le cose per loro, appartengono a loro, sono per loro. Ne possono usare senza doverle chiedere e senza sentirsi nei panni di chi, ancora una volta, riceve.

Ci si può chiedere che cosa possa significare per noi oggi dimenticare per gli altri qualcosa, di materiale o di non materiale. Può significare dimenticare alle spalle un poco del nostro tempo. Succede al contrario che si faccia molto pesare il fatto che abbiamo tante e poi tante cose da fare. Con il risultato che uno poi si senta a disagio, come se gli stessimo regalando qualcosa. Se poi ti prende un po' del tuo tempo, lasciaglielo, come se gli appartenesse, senza che senta l'obbligo di ringraziare: gli appartiene, è cosa sua. È necessario rivedere la nostra vita sotto questa dimensione del lasciare qualcosa alle nostre spalle, come se fosse degli altri.

Accenni di umanità, accenni semplici, che ci fanno pensare, che ci invitano a essere più umani, che ci tolgono dall'illusione di essere cristiani senza essere umani.


 
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