interventi


Angelo Casati , il 27/3/2000, Locarno



TESTIMONI DELLA BELLEZZA CHE SALVA

Se mi permettete vorrei fare due premesse: la prima riguarda voi, voi che siete qui questa sera a riflettere sulla "bellezza che salva", ed è come se i miei occhi cogliessero in voi una bellezza. Che cosa bella che voi ci siate, e siate qui questa sera, dopo una giornata che solo posso tentare di immaginare: l'ora in cui vi siete alzati, e poi un impegno, un altro…, e ancora la forza di essere qui questa sera ad ascoltare un parroco.
Ecco… un parroco, questa è la seconda premessa: che bello che io sia stato preceduto da chi invece ha titoli accademici, questo mi rincuora, perché il mio intervento che è più modesto -sono un frequentatore non delle Facoltà ma delle storie della gente- questo mio intervento certamente più modesto e parziale è sostenuto dal rigore intellettuale di chi mi ha preceduto. E questo mi dà coraggio a parlare, un parlare che forse è un raccontare.

Il titolo che mi è stato affidato va ad esplorare il territorio del terzo momento della lettera del nostro Cardinale, che ha come icona la Trasfigurazione, il momento della discesa dal monte e porta questo titolo: "Testimoni della bellezza che salva".
Un titolo un po' desueto nel vocabolario ecclesiastico, nei documenti ecclesiastici, dove per lo più ci viene detto: "dovete essere testimoni della morale, testimoni della verità…", quasi una verità e una morale senza bellezza.
E l'esito purtroppo è: come sono noiosi questi testimoni della verità, di una verità gelida, senza sussulti.
E l'esito purtroppo è: come sono pesanti questi testimoni della morale, che hanno l'aria del figlio maggiore della parabola, che concepisce lo stare nella casa del padre come un dovere, un precetto.

Avendo dimenticato la testimonianza della bellezza, non siamo sfuggiti -così mi sembra- a questo rischio della noia e della pesantezza.
Abbiamo confuso la radicalità del Vangelo con la pesantezza: il volto dei testimoni spesso non è quello dell'illuminazione del monte, ma quello corrucciato dell'imposizione, della lamentazione.
Testimoni senza bellezza: "esseri impacciati" -scriveva più di cinquant'anni fa E. Mounier, e forse ci fotografava- "esseri impacciati, che non si guardano in faccia, che camminano con gli occhi al suolo, che pesano e misurano il gesto al millimetro… eroi linfatici, vasi di noia, sacchi di sillogismi, ombre di ombre…".
E Péguy, trent'anni prima, ne aveva indagata l'anima e scriveva: "perché non hanno la forza di essere della natura, credono di appartenere alla grazia, perché non hanno coraggio temporale credono di essere penetrati dall'eterno, perché non possono appartenere al mondo che li rifiuta credono di appartenere a Dio".
Testimoni senza bellezza.
E la cosa è sconcertante, perché la pianura -il mondo- la pianura che attende i discepoli che scendono dal monte, è un territorio dove, al dire di qualcuno, l'unica sensibilità rimasta è la sensibilità per la bellezza.
"Il mondo moderno" -ha scritto lo scrittore russo Solgenitzin- "il mondo moderno essendogli franato contro il grande albero dell'essere, ha spezzato il ramo del vero e il ramo della bontà, solo rimane il ramo della bellezza. Ed è questo ramo che ora dovrà assumere tutta la forza della linfa e del tronco".
Senza bellezza non c'è appuntamento con il nostro tempo.


Vorrei subito dire che la bellezza che siamo chiamati a testimoniare non è il risultato di un'operazione di maquillage.
Oggi -perdonate la nota polemica- ci sono troppe operazioni che lasciano più di un sospetto nella chiesa, verniciature esterne, c'è un agitarsi nell'organizzazione, la regia degli spettacoli religiosi.
Manca -e i più lucidi l'avvertono- manca un'incandescenza, che parli dai volti, l'incandescenza di qualcosa che ti è accaduto e ti ha acceso il volto, ti ha cambiato la faccia.
Sul monte Gesù ha cambiato volto, ma anche i discepoli dal monte scendevano come trasfigurati.
Succede a volte -e voi ne siete testimoni- che uomini e donne cambino faccia. Li guardi e ti viene spontaneo chiedere loro che cosa sia accaduto. Spesso ti senti dire che si sono innamorati. Pensate che bello se anche noi cristiani potessimo essere interrogati per il nostro volto, per il brivido del nostro volto.
Ho come l'impressione che a volte gli uomini di chiesa siano tentati, come Mosè, di mettere un velo sul loro volto, non tanto nel tentativo di contenerne l'irraggiamento, quanto invece nel tentativo di far immaginare agli altri chissà quale luminosità e di nascondere i nostri improvvisi depauperamenti, offuscamenti. Le distanze, le bardature ecclesiastiche, la inaccessibilità per nascondere l'assenza e il vuoto.

E c'è subito un altro rischio da cui mettere in guardia noi stessi: luminosi, non perché andiamo sotto i riflettori, ma luminosi della bellezza del monte e cioè della bellezza del Pastore bello. Bello affascinante, emozionante nel suo consegnarsi senza condizioni a noi, a noi non perché siamo puri, perfetti, ma perché siamo amati.
È questa la bellezza che salva, la bellezza di chi si consegna. Di questa bellezza dunque essere testimoni.
Noi lo dimentichiamo e pensiamo che la bellezza e la forza della testimonianza di una chiesa siano nella ricerca di posti di privilegio o di potere e non invece nell'amore disarmato del suo Signore.
Basterebbe riprendere in mano il Vangelo, il Vangelo di Luca, per esempio, e continuare la lettura del capitolo della Trasfigurazione. Incroceremmo tre episodi significativi:
" il rammarico dei discepoli perché non gli riesce di fare miracoli sugli indemoniati,
" la discussione tra di loro su chi fosse più grande, questioni di primato,
" la gelosia perché anche al di là della loro cerchia qualcuno scaccia i demoni.
Siamo lontani dalla bellezza del monte, questa è negazione della bellezza: è l'invasione della mediocrità, del calcolo, delle rivalità, della meschinità di cuore.

Vorrei ora far tre brevi accenni ai tre territori della testimonianza ricordati dal Cardinal Martini nella sua lettera.

Fare esperienza della bellezza.
Fare esperienza della bellezza nella stanza interiore. "Maestro, dove abiti?" "Venite e vedrete". Senza questa dimora nel segreto, chiusa la porta, non ci sono accensioni vere del volto, ci sono fuochi di paglia, c'è teatralità.
La liturgia stessa, la divina liturgia, dovrebbe risplendere di bellezza.
Scrive l'Arcivescovo:
"Essa dovrà risplendere anche nella liturgia. Quanto è importante una celebrazione liturgica che nei tempi, nei gesti, nelle parole e negli arredi riflette qualcosa della bellezza del mistero di Dio!
Ogni volta, nel cuore della celebrazione eucaristica, l'esclamazione "mistero della fede" scaturisce dallo stupore consapevole dell'orante, quando lo splendore della verità gli si manifesta in pienezza. Dopo aver compito ciò che il Signore Gesù ha comandato agli Apostoli di ripetere "in memoria di Lui", gli occhi della fede si aprono, come quelli dei discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24, 30-31) e confessiamo con stupore e gratitudine il "mistero della pietà" (cfr. 1 Tim 3, 16). La Bellezza si svela nel mistero di Cristo culminante nella Pasqua: la celebrazione eucaristica ne costituisce il memoriale. L'esigenza del celebrare bene si radica in queste convinzioni. I ritmi di parola, silenzio, canto, musica, azione nello svolgersi del rito liturgico contribuiscono a questa esperienza spirituale" ( pagg. 42-43).


Purtroppo, dobbiamo confessarlo, la liturgia stessa vive, a volte, in parole lontane da ogni sussulto di vita, da ogni sussulto del cuore. Si riduce a teatro, teatralità vuota, coreografie perfette ma senz'anima. Parole proclamate, canti urlati, nell'assenza di occhi che scrutano dalla soglia e adorano.
Purtroppo, a volte, anche per quanto riguarda la liturgia, la bellezza ci si illude di raggiungerla lungo i sentieri della ricercatezza o dell'imponenza.
Un libro, uscito lo scorso anno negli Stati Uniti, faceva questa proposta a coloro che vivono il disagio di liturgie solenni, ma disabitate, case vuote.
"Prova questa variante, va a Messa durante un giorno feriale. C'è un'atmosfera diversa, più intima, con poca gente. La cripta di un convento, la piccola cappella in una città, e anche la tua stessa parrocchia…, e la Messa si rivela spesso in modo insospettato. Potresti chiudere gli occhi ed immaginare l'ultima cena. E tu sei là, intorno alla tavola. E hai proprio ragione…tu sei là".

Annunciare la bellezza che salva.
La bellezza dell'annuncio nelle parole: abbiamo purtroppo ereditato un'insopportabile "ecclesialese". Succede di ascoltare discorsi noiosi, pesanti, asfissianti.
Dov'è la parola che fa ardere il cuore lungo il cammino? Come ai discepoli di Emmaus.
Gli assetti dottrinali raramente fanno trasalire il cuore. È il racconto che fa trasalire il cuore.
Gesù raccontava, non definiva. E il suo racconto era pieno di vita, era attento alla vita, faceva parlare la vita, la bellezza della vita. L'annuncio fatto da Gesù è pieno di immagini.
Noi l'abbiamo spento.


Ed è una bellezza che Gesù scopre al di là di confini molto precisi, ma ristretti.
Noi viviamo un certo soffocamento, dovuto al fatto di circoscrivere la salvezza ai nostri confini, soffocamento dovuto alla concezione dell'evangelizzazione come portare tutti dentro la chiesa.
Di qui il soffocamento.
Nel Vangelo questa è una costante: le folle osannanti sono spesso uno schermo; e, allora, beato chi sa arrampicarsi come Zaccheo, chi sguscia tra la folla fino a toccarlo come la emorroissa, chi scoperchia il tetto come i portatori del paralitico. Qualcuno griderà anche oggi al disagio per lo scoperchiamento del tetto.
Gesù chiamerà il gesto: fede.

Leggere la fede là dove gli inquisitori non la sanno leggere, hanno occhi e non vedono.
"Cogliere ogni nostalgia di bellezza": dice l'Arcivescovo nella sua lettera.
"Unico mio senso religioso la nostalgia": scrive Erri De Luca.
Occorre dunque risvegliare nostalgia, risvegliare le domande.

Sì, la domanda. Coltivare le domande. La domanda apre, la risposta chiude. Coltivare la bellezza che salva, quella di un Dio che si dona. "rispettando e promuovendo con tutti la bellezza come giustizia, pace e salvaguardia del creato".
Una città brutta, abbruttisce, una chiesa brutta abbruttisce, così come abbruttiscono le architetture che "non sono in grado di suscitare l'emozione propria del mistero cui alludono".

"Condividere il dono della bellezza significa inoltre vivere la gratuità dell'amore".
Che bello uno che non calcola! È una novità in un mondo che si muove solo per un calcolo.

"Condividere il dono della bellezza che salva" significa ancora costruire spazi dove, come nella Trinità, si viva la ricchezza dei volti, e l'altro non come concorrente, l'altro non sia vissuto come dipendente.
Lungo questa strada, con questa luce sul volto, saremo nel mondo testimoni della bellezza contemplata sul monte.

don Angelo Casati

 

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