TRACANTI
DOLENTI E SUSSULTI DI SPERANZA
Ti
ho guardata. Il tuo non è volto opaco. Riflette.
Avevi una piega di tristezza negli occhi. L'ho sorpresa
all'angolo più segreto. Non la cancellava, tanto
era resistente, nemmeno la gioia di esserci incontrati.
Mi dicevi: "Non so come si fa a partire". E intendevi
"partire per le ferie". E io guardavo. Guardavo
la piega, di tristezza, nei tuoi occhi. Né mi sarebbe
riuscito di strapparla. Io che avrei dato chissà
che cosa per cancellarla.
"Parto per le ferie" dicevi "e non mi riesce
di staccare le immagini di terre massacrate dalla ferocia
della guerra. Io sotto l'ombrellone di una spiaggia e creature
come noi sotto l'ombrello cupo, agghiacciante, di bombe
e missili pseudointelligenti". Guardavo e finalmente
capivo, capivo la tristezza all'angolo dei tuoi occhi. E
ti leggevo nella voce una stanchezza. Che non era solo quella
dell'anno che lasciavi alle spalle. Ti invadeva. Era invasione,
fino alla terra dell'anima.
Era anche, ne parlavi, disagio e, ancor più, disgusto
per l'accadere di un rito. Ad ogni esplosione di guerra,
il rito monotono e triste di un turbinio di parole. Polvere
di parole. Sacre e vuote. E più solenni e più
assordanti di vuoto: la guerra e gli ombrelloni di sole.
E le parole in libertà, parole che declamano un futuro
che non accade. Ricadono su se stesse. Con la leggerezza
delle costruzioni di sabbia dei bambini, lungo la striscia
di sole dei litorali, architetture a rischio di piede. E
come potresti mettere fiato di giuramento su costruzioni
di parole vuote, senz'anima, case fatte di sabbia e di sputo?
Tutti i contendenti, e giustamente, a levare protesta per
lesione di propri diritti. Pochi invece, eppure una razza
sparuta resiste, a pesare nel proprio cuore la sofferenza
degli altri, di coloro che, per semplice debito di carne
e di sangue, per nascita, vengono chiamati "nemici".
Basta la nascita, e niente che abbiano commesso, a farli
tali. Per nascita, nemici.
Resiste, dicevo, una razza sparuta. Ostinata a misurare
nel proprio cuore il peso della sofferenza dei "nemici",
il peso delle bombe nel paese dell'altro. Come un giorno
ebbe a invitare il Cardinale Martini, lui che ha fatto di
una terra di conflitti la sua dimora, lui a dire che il
vero passo verso la pace inizia là dove ci si carica
il cuore della sofferenza dell'altro. Donne e uomini dunque
che sono in una terra e sono nell'altra. E non per equidistanza.
Per passione di cuore, per necessità innata di condividere.
E io, che ero andato ogni giorno annotando, su un foglio
d'anima, numeri di morti, fui travolto poi come da un fiume
in piena. Mi arresi. Per troppo peso, per troppo peso di
guerra e di cuore. Troppo si muore. Andavo annotando, su
un foglio d'anima, aggiungendo giorno dopo giorno, il numero
dei bambini usciti dalla terra, per esproprio di vita. A
causa di guerra. Così difficile dare il nome di "nemico"
a un bambino. Lo sa fare, spudorata, la guerra.
Poi più non ressi a contare, conta straziata. E sul
foglio d'anima rimase solo il segno del passaggio di un
pianto. Da allora, chiusa la conta, presi a metterli, i
bimbi uccisi, erano stuolo, sull'altare. Tra i santi. E
non chiamiamo forse santi, santi da altare, i bambini uccisi
da Erode? E dove la differenza? Anche quelli, uccisi e non
sapevano per chi. Come questi. E perché santi quelli
e non questi? Ora li metto su un mio altare segreto.
E sentivo, come allora, urla e singhiozzare di madri. Avvolte
in veli neri. Urla come di parto, ma senza nascite. E l'eco,
a non finire, dalle macerie e dalla polvere delle case sventrate.
L'urlo di parto senza nascite, tu lo sai, è urlo
che rompe il cielo, perché orfano di vita, di futuro,
di speranza. È solo strazio. Di morte.
E l'urlo delle madri, dei loro veli neri, della polvere
che ti stringe alla gola mi penetrava dentro. Era urlo del
cuore, il mio. Così forte da risuonare - lo confesso
e forse è grave peccato - come una bestemmia. Era
la sconfitta di Dio?
Ad agitare nel cuore l'ombra della sconfitta di Dio le immagini
di una terra che noi teniamo sacra. Sacra nel cuore. Terra
di Dio violentata, che sembra urlare la distanza dalla Promessa.
E sentivo brivido di schiena al pensiero che a pagare fosse
la terra con orme luminose dei Padri, la terra con orme
luminose del Figlio dell'Uomo. E una domanda s'insinuava
e sfiorava la bestemmia: che cosa portò il luminoso
passaggio?
Forse anche il tuo cuore, come il mio, portava sussulto
di smarrimento ogni volta che, per segnalare i luoghi dei
bimbi sfigurati, delle donne in velo nero di pianto, venivano
evocati nomi di affezione. E si diceva: Libano. E si diceva:
monti e lago di Galilea. Ogni volta, per sussulto di cuore,
andavo alle pagine sacre.
Canti di amore, nelle pagine sacre, parlano, con immagini
di bellezza, dei monti del Libano.
"Vieni con me" è invito dell'amato del
Cantico alla sua amata:
"vieni con me dal Libano, o sposa,
dal Libano vieni!
Osserva dalla cima dell'Amana
dalla cima del Senir e dell'Ermon" (Ct 4,8).
Fontana di giardino, come i ruscelli del Libano, è
l'amata:
"Fontana che irrora i giardini,
pozzo d'acqua viva
e ruscelli sgorganti dal Libano" (Ct 4,15).
E non ritorna forse la parola "Libano" anche nelle
parole della donna che canta la bellezza del suo amore?
"Il suo aspetto è quello del Libano
magnifico come i cedri" (Ct 5,15).
Terre della bellezza, terre del canto d'amore, quelle del
Libano, ora sfigurate in terre di desolazione, in canti
di morte.
E non erano, i monti e il lago di Galilea, oggi impauriti
per guerra, i monti e il lago che Gesù amava?
E non era andata per quelle terre e per quei monti Maria
di Nazaret, la ragazza, colma l'anima della grazia delle
grazie e colmo il grembo del mistero dei misteri? Saliva,
incinta di poco, quei monti. I monti sorridevano al mistero.
Là dove oggi la vita è paura e le parole fitte
di smarrimento, e i cieli e i monti più non sorridono
alle donne che portano in grembo germogli di vita. E a noi
sembra di scrivere la sconfitta di Dio.
Non avevano forse esultato quei monti in giorni antichi
al passaggio dell'arca dell'Alleanza? E ora accucciati al
passaggio degli ordigni di morte.
Bussò la piccola donna di Nazaret alla casa sul monte,
la casa della cugina, incinta di sei mesi. E fu grazia.
Bussare è verbo di rispetto. Verbo esiliato dalla
guerra. Che non bussa, invade. Invade case e le sventra,
come il ventre delle donne. In esilio il tenero rispetto,
ora che a dominare sono violenza e invasione. Violenza e
invasione in terre e case lontane. Ma violenza e invasione
anche in terre e case vicine: storie di donne violate, fatte
oggetto di stupro nelle vie e nelle case delle nostre città,
in questa allucinata estate.
Un messaggio per terre vicine e lontane oggi sembra ancora
venire dalle due donne incinte del vangelo, l'anziana, Elisabetta,
che tutti dicevano sterile e la piccola donna di Nazaret,
confessatamente piccola. "Il Signore" dice "ha
guardato la piccolezza della sua serva". Messaggio
di donne incinte per terre vicine e lontane. Quasi un invito
a passare, nella vita, dalla modalità dello "scontro"
alla modalità dell' "incontro".
Non sto disegnando strategie politiche, è un'arte
che non mi appartiene, sto rivendicando modalità
che appartengono al vangelo. Mi sono detto, al punto di
sentirmi paurosamente ingenuo: se passassimo nei rapporti
tra i popoli dalla modalità dello scontro alla modalità
dell'incontro?
In questi giorni stiamo esultando perché ci sembra
di scorgere un sussulto di speranza nella possibilità
che, tra un popolo e un altro in conflitto, si ponga "una
forza di interposizione". Un passo in avanti. Ma non
sarà forse auspicabile un passo successivo? Ci accontentiamo
di frapporre una distanza? O qualcuno si muoverà
a far sì che i lontani si incontrino? E si parlino?
E ascoltino gli uni le ragioni degli altri? Basta evitare
la tragedia dello scontro o inseguiamo testardi la bellezza
dell'incontro? Sarebbe pentecoste.
L'evangelista Luca - è sorprendente ed emozionante
- racconta l'incontro delle due donne incinte, la giovane
e l'anziana, come l'avvento di una pentecoste. Al contatto,
quando nell'abbraccio un volto sfiorò l'altro e un
grembo si appoggiò dolcemente all'altro, discese
lo Spirito. È detto: "Elisabetta fu piena di
Spirito Santo".
Pensate al fascino di questa suggestione: un abbraccio diventa
pentecoste, accade il dono dello Spirito. Non nelle chiese.
In un abbraccio tenero di donne.
Mi sono detto: e se riflettessimo più a lungo sulla
bellezza e sulla benedizione degli incontri, i nostri, che
custodiscono questa affascinante possibilità: occasioni
per donarci reciprocamente momenti di bellezza, di entusiasmo,
di gioia, di consolazione, di sostegno, di emozione, di
fedeltà? Accadimenti dello Spirito, occasioni di
una nuova pentecoste!
Forse sottovalutiamo, o raramente riflettiamo su questa
realtà della vita, realtà quotidiana: la vita
è fatta di incontri. Incontri che a volte si bruciano
nell'arco breve di pochi istanti, a volte ti accompagnano
lungo l'intero arco di una vita. Si può viverli,
impoverendoli. Impoverendoli di senso e di importanza. O
si può viverli dando loro possibilità sorprendenti
di Spirito, di senso, di bellezza.
"Che bello averti incontrato!": a volte abbiamo
detto, e a volte ci siamo sentiti dire. La bellezza nell'incontro,
la pentecoste nell'incontro. Se è incontro danza
il cuore. "Il bambino" dice Elisabetta a Maria
"ha esultato di gioia nel mio grembo". Proprio
il suo che sembrava un grembo sfiorito.
Che la bellezza dell'incontro tra popolo e popolo, tra persona
e persona faccia danzare i grembi sfioriti di questa terra.
Canti dolenti di una estate e sussulti. Sussulti di speranza.
don
Angelo
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