ANCORA
CERCARE IL TUO VOLTO
Mi
seducono, lo confesso, immagini e simboli. E sogno, tu lo
sai, una chiesa che non si scosti molto da Gesù.
Dalla sua arte sorprendente di parlare per immagini e simboli.
Tra le immagini a seduzione oggi vorrei evocare la caverna.
Precisamente la caverna del monte di Dio, l'Oreb, in cui
entrò per passarvi la notte il profeta Elia.
Elia arriva al monte Oreb. Il suo non è, come uno
potrebbe immaginare, un pellegrinaggio di tutto riposo.
Arriva, Elia, dopo aver scannato quattrocentocinquanta profeti
di Baal nelle acque del torrente Kison. Così gli
sembrò si dovessero difendere i diritti di Dio. Con
questo zelo. Succede! Succede anche oggi.
"Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti"
risponderà al Signore che gli chiedeva: "Che
fai qui Elia? Che fai qui, nella caverna?".
La caverna, fin dall'antichità, è sempre stata
un simbolo. Un simbolo di avvistamento del mistero e, insieme,
di distanza dal mistero. Avvistamento e nascondimento: Dio
c'è, e ci sono luci e ci sono ombre nella caverna.
Ed Elia prende coscienza che Dio è distante. Distante
dal suo modo di immaginarlo, lontano dallo zelo, che gli
aveva fatto scannare quattrocentocinquanta profeti. Pensando
di onorare così Dio! Dio non era, come lo aveva immaginato,
nei segni della potenza: non era nell'uragano, non era nel
terremoto. Era - la nostra traduzione dice - "nel mormorio
di una brezza leggera". O meglio, come dice il testo
ebraico, era "nel suono di un silenzio sottile".
Il suono... del silenzio!
Pensava, Elia, di trovare sul monte la conferma ad una fede
dal volto agguerrito. Trova un Dio che fa tacere la rabbia,
l'intransigenza, l'uragano del suo cuore. È un Dio
che mette silenzio, il Dio del silenzio sottile. Un Dio
che è presente non nella forza delle armi, ma nella
forza mite della fede, nella forza mite della ragione. Non
nella forza degli urli. Altro è lo stile di Dio.
L'immagine della caverna sul monte, terra di avvistamento,
ma anche terra di piccolezza e di ombra, ha sostato a lungo
nei miei pensieri in questi mesi, quasi a fugare un certo
disagio patito per le molte parole proclamate da una parte
e dall'altra, a proposito e a sproposito di "relativismo".
C'è, e non vogliamo negarlo, un relativismo rozzo
e spento, quello superficiale di coloro per i quali una
cosa vale l'altra. Né vale la pena di consumare cuore
e fatica nell'assurda ricerca. Quasi non esistesse luce
da cui lasciarsi guidare né preghiera che ce l'avvicini.
La caverna è vuota.
Ma c'è anche un "relativismo cristiano".
Così lo chiamò il card. Martini nell'omelia
del suo venticinquesimo di episcopato in Duomo, lo scorso
maggio. È il relativismo, oserei dire, della caverna.
Da cui intravedi luci e rimani sedotto, affascinato. Ma
mai e poi mai ti azzarderesti a dire che la caverna possiede
l'intera luce dell'orizzonte. C'è il miracolo della
luce, ma è quella che può filtrare da uno
squarcio del monte, quasi figura di una finestra in attesa.
Sarebbe una grazia, io penso, se fossimo tutti più
consapevoli che il nostro è e sarà sempre
un balbettare. Di Dio e degli umani. Se fossimo interiormente
persuasi che la verità è anche Altro, è
anche oltre e che Dio non può stare solo nelle nostre
parole, è anche in altre parole, che Dio non può
stare solo nel nostro colore, è anche in altri colori.
In un midrash della letteratura rabbinica si narra di alcuni
rabbini che un giorno si misero a disputare accesamente
su un punto della legge. Rabbi Eliezer produsse argomenti
possibili per dimostrare il suo punto di vista. Ma gli altri
rabbini non si lasciavano convincere dagli argomenti di
Rabbi Eliezer. Alla fine una voce celeste sembrò
confermare il pensiero di Rabbi Eliezer. Ma Rabbi Joshua
subito esclamò. "Non è in cielo".
Che cosa significa questa citazione del Deuteronomio "non
è in cielo"? Rabbi Jirmijah spiegò: "La
Torah fu rivelata sul monte Sinai. Perciò non occorre
che continuiamo ad occuparci di voci celesti: La Torah del
Sinai contiene già il principio che è decisivo
il voto della maggioranza".
Il midrash sulla accesa disputa si conclude raccontando
che quel giorno Rabbi Nathan incontrò il profeta
Elia. E gli domandò: "che cosa ha fatto Dio
in quel momento?" Il profeta rispose: "Dio ha
sorriso e ha detto: I miei figli mi hanno superato! I miei
figli mi hanno superato!".
Che il Dio della Bibbia abbia il volto del Dio che sorride
per i figli che mettono in campo tutta la loro arte di interrogare
e di interrogarsi, e non per i figli che sonnecchiano pigri
accettando tutto passivamente, è buona notizia. E'
notizia di un Dio che onora ed è onorato dall'intelligenza,
un'intelligenza che è incantamento davanti al mistero,
che è la gioia di dire un nome e subito percepirlo
"relativo", segnato da una povera misura e subito
ricorrere a un altro nome e a un altro ancora. In una gara
da innamorati. Come succede agli amanti del Cantico dei
cantici, inesausti nel dare nomi all'amato, all'amata. Sembra
loro di ricongiungersi, ma ecco si perdono. In un gioco
che non è solo quello dell'amore, ma anche della
verità. Un gioco che non è, se non per chi
vive nell'asfissia dei palazzi grigi delle presunte "verità",
rozzezza dello spirito, ma freschezza di incantamento, un'esperienza
di innamorati.
Solo
uomini
cui non toccò mai
l'avventura di amare
né il brivido
d'innamorarsi
oseranno dire
sempre uguale, monotono,
il racconto misterioso
del torrente dei monti.
Incantamento
e, insieme, confessione della povertà delle parole
a dire l'avventura che ci conduce.
Noi confessiamo, non senza emozione, che Gesù è
la verità, è la luce, ma le parole hanno la
debolezza della nostra fragile tenda. La tenda dà
ospitalità al mistero, ma riconosce anche la povera
misura dei suoi teli.
Non tutto è nella mia tenda. L'infinito è
accaduto nella tenda di Gesù, nella sua carne. Ma
non sempre ci soffermiamo a pensare che nelle mani noi abbiamo
non uno solo ma quattro vangeli. Quasi a dire che una notizia
così sorprendente, come quella della vita di Gesù,
non sarebbe bastato uno a raccontarla. Ci vollero quattro
voci. E forse non è così stravagante pensare
che qualche sussulto di lui sia rimasto nell'aria, qualche
voce forse al di là dei quattro evangeli.
Non aveva forse detto Gesù ai discepoli. "molte
cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci
di portarne il peso. Quando però verrà lo
Spirito di verità, egli vi condurrà alla verità
tutta intera" (Gv 16,12-13)?
La verità dunque non è un muro di fine corsa,
è la porta, è l'introduzione.
La verità, si dice, è roccia di solidità.
Ma l'immagine qualche volta purtroppo è stata usata
nel senso della pesantezza. Giusto un anno fa, un gesuita
dell'Istituto biblico di Gerusalemme, occhi chiari, ci additava
le rocce del deserto, l'incanto delle loro striature e ci
parlava della roccia, come bellezza.
La verità come pesantezza, come arroganza del possesso,
ha generato profeti che scannano profeti e ancora oggi torrenti
portano il segno e la maledizione del sangue versato. Perché
la verità senza amore diventa dominio, imposizione.
E dove c'è dominio non c'è Dio. Dove c'è
dominio, fosse pure delle coscienze, dove uno è in
alto e uno è in basso, diventa sacrilegio mettere
il nome di Dio. Come insegna un midrash della tradizione
rabbinica:
"Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi
a leggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere
due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati. E
mi disse: "Vedi, Uri, queste due lettere, una accanto
all'altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque,
nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi
pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto
per intero".
Continuammo a leggere con il Maestro, finché non
trovammo, alle fine di una frase, i due punti. Erano egualmente
due puntini quadrati solo non uno accanto all'altro, ma
uno sotto l'altro. Pensai che si trattasse del monogramma
di Dio perciò pronunciai il suo nome. Il Maestro
disse però: "No, no, Uri. Quel segno non indica
il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco
l'uno dell'altro, dove uno vede nell'altro un compagno a
lui uguale, solo là c'è il nome di Dio. Ma
dove i puntini sono uno sotto e l'altro sopra il primo,
là non c'è il nome di Dio".
Dio non è nell'arroganza. Nemmeno nell'arroganza
della verità. È nel suono di un silenzio sottile.
È nel sussurro.
Sussurro, una parola che ho ritrovato più volte nella
lettera dell'estate di una giovane amica, che raccontava
del cambiamento radicale della sua vita grazie al sussurro
della voce di Dio:
"Dentro di me appena un sussurro, ma continuo, incessante.
Ho passato mesi faticosi e dolorosi, ma alla fine così
rigeneranti, di una vita nuova che non conoscevo come mia.
Ora è un'ansia continua che mi sospinge al di là
di quelle che un tempo reputavo fossero barriere, adesso
intravedo varchi, passi e sentieri, anche tra le mura della
nostra invivibile città, ci sono vie così
belle dietro le orme del Signore! Non sai che gioia sentirmi
in cammino.
Non so per quale motivo Dio mi si è messo accanto
con tale insistenza da farmi cambiare tutte le mie prospettive
e da allentare le mie rigidità.
Da allora non mi ha mai abbandonato il sussurro. E la gioia
più grande è riuscire a condividere con gli
altri la mia fede. Da quando ho incominciato a tirar fuori
Dio dall'oscuro sgabuzzino in cui l'avevo rinchiuso solo
per me, riesco a parlare di lui senza vergogna e timore
di giudizi, e mi rende felice"
La verità non è immobilità. E' la freschezza,
la leggerezza, la bellezza di un cammino. Con un auspicio:
all'ultimo
tornante
ancora
cercare
il tuo volto.
don
Angelo
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