articoli di d. Angelo


 

TI RACCONTO COSE PICCOLE


Non so più misurare. E non è - così mi sembra - confusione da caldo o da vecchiaia.
E così racconto, di questa estate riarsa, cose piccole, forse solo fioretti (c'è un diminutivo). Magari augurandomi - così fosse!- che la confusione tra cose piccole e cose grandi mi derivi dal vangelo che ha confuso carte e misure: piccoli davanti agli uomini, grandi davanti a Dio. E gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi. Grande confusione. A memoria.
Sono pochi o sono tanti? Qualcuno mi va chiedendo: "hai fatto pochi giorni di ferie o te ne sei concessi di più?". Non so misurare. So che la misura forse non sta nel loro numero, quello della successione nell'agenda. L'a-genda divenuta incubo, ossessione. Ogni volta che non la ritrovo è un colpo al cuore. Chi riuscirà a ricostruire?
Sono stati tanti - sette è numero di pienezza per la Bibbia! - i giorni di inizio luglio a Concenedo. Gli occhi, come lasciavi le carte e i tuoi scarabocchi, erano in vista di valli e di monti. Non impervi, ma dolci. E ti parlavano, non finivano mai di parlare.
Ti parlavano le nubi, fino a ricordarti quanto gli amici e la loro sete te li portassi scritti nella tua carne. Inestricabili. Fino a sentire, ma è forse malattia, quasi privilegio e debito l'aria che filtrava dalla finestra socchiusa e raccontava:
Inseguo nubi
che traghettano cieli neri
e sogno piogge ad amici
di città riarse.
Prosciugati logorano
cieli immobili e spenti
senza risposta di vento.
Ora è una radura a raccontare. Racconto del mattino, pulito senza attentato di rumori. Sembrano fuori moda le sue casupole bianche, baite della montagna. Fuori della moda dell'assedio, assedio urbano, case ad assedio l'una dell'altra, in invadente contiguità. Casupole bianche a distanza, a distanza del non soffocamento, della non invasione, a misura di contemplazione:
Radura di tenero verde
tra pinete scoscese di monte.
E casupole bianche
specchio di sole
a stupita distanza
a misura di rispetto,
per l'emozione all'alba
di contemplarsi.
Raccontano le casupole bianche l'inganno di possessi e fusioni sbandierati come amore. E se imparassimo la stupita distanza, la distanza dell'amore?
Racconta il profumo. La finestra è a brevi passi da un prato, ne vive le vicende, anche il profumo delle erbe tagliate, che mi porta a ritroso nel tempo ai campi di lontanissime estati:
Profumo dimenticato
inebriante
di erbe falciate
mi profuma di antico.
Pure, tu, Signore,
falciato, reciso.
Nella tua potatura
fatto profumo
della terra.
Verso sera, forse è anche melanconia o forse è la luce, tenera di compassione, sto in ascolto del racconto delle valli, una a fluire nell'altra e poi in un'altra ancora, perdutamente. A seduzione. E più non sai se l'ultima è reale o solo un miraggio. Non bastano gli occhi. La visione racconta la tua vita: hai visto una valle, e poi un'altra e altre ancora. E ora sei in attesa di un ultimo baluginare:
Ti racconto il fluire
di una valle nell'altra,
sfumare lento di colori
all'estremo del lembo.
Consumo ore e giorni
ad avvistare l'ultima
mia valle.
E non è ancora apparizione
ma solo brivido leggero
nell'oltre
veniente del cielo.
Le valli, le erbe falciate, le nubi, le casupole bianche. E sette giorni, che non sono più sette. Hanno confuso la misura, la misura del-l'ovvietà.
Se mi si chiederà che cosa ho visto questa estate, penso che deluderò i ricercatori di spiagge esotiche, dirò: ho inseguito nubi, ho odorato l'erba, ho contemplato casupole bianche, ho sognato valli. Non ho visto niente? O forse ho visto? Il piccolo?
Fine luglio. Pomeriggio di un sabato afosissimo. Sono in attesa nella sagrestia. I ragazzi vincono l'afa provando canti a ridosso di un matrimonio di amici. Portano sussulti di vita nel deperimento totale. Ho visto gli occhi di Michele, occhi forti i suoi, nascondono l'emozione. Sono in attesa di quelli di Chiara, la felicità dei suoi occhi neri.
Sono in attesa ed entri a sorpresa tu, che per me sei un'amica carissima, e mi racconti di un piccolo - o grande? non so misurare - miracolo. "Vieni a vedere", mi dici.
Il "miracolo" è così vicino e così piccolo che mi rimane tempo, anche se sto attendendo Chiara. È in via Ronciglione, trenta metri dalla porta laterale della chiesa. Seguo l'emozione dell'amica. Anche lei una rivoluzionaria, del piccolo e del grande.
Mi porta d'un fiato a contemplare una fragolina minuscola, intenerita, che, a dispetto delle serie programmazioni, è spuntata in una crepa, una fessura di marciapiede di una città in un pomeriggio tra i più caldi e afosi. Il tempo di sostare tutti e due. A fissare a memoria il miracolo, un puntino di verde, un piccolo punto rosso.
E beati i tuoi occhi che vedono. E beato Dio, lui sì benedetto. che fa fiorire anche le crepe di un marciapiede di città. A dispetto delle nostre solenni, sicure, indiscutibili previsioni.
Il matrimonio di Michele e di Chiara. E poi gli amici che ti attendono per darti un passaggio più comodo e più veloce verso Chianciano, al convegno del SAE, Segretariato Attività Ecumeniche. L'arrivo è nella notte. Respiriamo la notte. Più di trecento i convegnisti. Gli atti del convegno racconteranno interventi, meditazioni, lavoro dei gruppi, le cose "grandi" del Convegno.
Io ti racconto le cose "piccole", quelle che non hanno accesso agli atti, gli atti che invece rimangono, a perpetua memoria.
Ho visto un vescovo. Oggi, diremmo, in pensione. Un uomo vero, non esibiva ruoli, in assenza voluta di abiti rossi o violacei. Un uomo vero. Non ha enunciato teorie, non si è avventurato in dissertazioni, ha raccontato la sua vita, ha annullato non la diversità, ma la distanza. A fronte di tanti, troppi, che cavalcano la diversità per salvaguardare la distanza.
Ha detto - così mi è parso di ascoltare - che l'ecumenismo si costruisce primariamente con l'incontro, conoscendo da vicino l'altro, mangiando insieme. Sì, disse, mangiando insieme. Gli acculturati avranno più di un motivo per storcere il naso: piccola cosa mangiare insieme. Peccato che fosse uno dei metodi più frequentemente usati da colui che ci dovrebbe essere maestro! Il rabbi di Nazaret, l'unico maestro, accusato dai puri di essere un mangione e un beone.
E all'emozione del vescovo vorrei unire, perché della stessa pasta delle cose piccole, l'emozione per la voce più piccola del convegno, che più piccola non si può, di un bambino in fasce che intenerì noi tutti, figlio di genitori musulmani. La dolcezza di quel bimbo in fasce, la dolcezza del volto di Sumaya, la giovane mamma, incorniciato da un velo.
Ecumenismo dei volti. Degli occhi, i tuoi occhi, Eliana, amica pastora valdese, chiamata a presiedere il Culto di santa Cena. E il tuo invito - era negli occhi - a prendere il pane del Signore.
Ecumenismo e commozione al ricordo di volti lontani. Gabriella, tu apparentemente forte, sei conduttrice di trasmissioni radiofoniche e la tua voce soffocata, come incrinata dalla commozione, al punto di non insistere più nella lettura della lettera dell'amico assente, Paolo Ricca. La voce che si incrina, la lettera interrotta, piccole, esili fessure su amicizie che fioriscono a sfida di distanza e svelano comunione di pensieri e intensità insospettate. L'ecumenismo fatto tenera commozione. In perfetta sintonia con il mangiare insieme.
Ed è agosto. Mattino d'agosto. Per me fu un miracolo, quasi un miracolo. Ormai disperavo di togliermi un peso dal cuore, il peso di una lettera cui non avevo data risposta, la tua lettera, forse quella più importante. L'ultima non portava il tuo indirizzo. Ho cercato a lungo tra le carte affaticate nella speranza di rinvenirlo, accusando invano il disordine, il mio, la poca attenzione, la mia. Tu senza volto per me, ma con il volto incancellato, inconfondibile delle tue lettere, tu nel pensiero e nella preghiera, a dimora, per mesi.
E poi ti affacci in un mattino d'agosto. I tuoi occhi sono senza rimprovero. Hanno una luce, quasi non avessero attraversato - o forse perché hanno attraversato? - braccia di mare livido di tempesta. Contando su Gesù, addormentato nel sonno sulla barca. Anche tu della razza di coloro che evangelicamente rovesciano le misure, del piccolo e del grande. Tu mi parli della bellezza, la bellezza del vuoto della città deserta. Il vuoto, l'assenza. E tu, nelle crepe della città di agosto, inebriata del silenzio di questa nostra chiesa, un silenzio, una preghiera non assediati finalmente dall'orologio.
Ognuno ha il suo monte, monte del Sinai, monte della Trasfigurazione. Forse è a pochi passi e noi lo cerchiamo lontano. Vicino, lontano?
Piccolo, grande? Non so più misurare: e come misurare la luce degli occhi?

don Angelo


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