Non
possiamo fare "come se"
Scrivo
sotto emozione.
Sotto l'emozione di alcune lettere, centellinate a brevi
sorsi in questi ultimi giorni di un'estate strana. La grafia
minuscola è rimasta impressa nel "sottovoce",
misura confessata della mia anima.
Sono lettere di un ragazzo alla sua ragazza, lettere per
più di un motivo strane agli occhi nostri, segnati
dall'ovvietà.
Stranezza è che non furono mai spedite, una stranezza
condivisa con altre lettere ben più importanti e
poi pubblicate, lettere per esempio dei condannati a morte
della resistenza, lettere dai campi e dalle celle dello
sterminio.
Anche queste lettere dai campi, se non dello sterminio,
dell'avvilimento. Da terre dove i mezzi per noi ovvi della
comunicazione subiscono la sorte inibitoria del coprifuoco.
E allora scrivi forse di notte, se ne hai le forze, raccontando.
Raccontando alla tua amata, come se la lettera arrivasse
la notte stessa, fogli che arriveranno in blocco, dopo giorni,
e sarà ubriacatura d'acqua, come alla fonte dopo
la lunga sete dei monti.
Lettere scritte, puntualmente scritte e puntualmente non
spedite. E forse non è la stranezza maggiore. Ancora
più sottile, più sottile ed intrigante, la
stranezza di questo alternarsi nella scrittura, senza stridore,
di parole che gridano il dramma dei campi palestinesi, lettere
da Nablus, e di parole che cantano sottovoce l'amore.
Stranezza che alla grafia minuta sia rimasta impigliato
l'odore, odore acre, della polvere, polvere di distruzione
e, insieme, il profumo silenzioso di carezze, di baci, d'abbracci,
di parole d'amore alla ragazza che ami.
Stranezza o miracolo? Stranezza o miracolo che un volto,
quello che ti fa sognare nella notte, non cancelli, anzi
si sposi, senza cesure, al volto degli altri, del ragazzo
palestinese che condivide con te la casa in pericolo, dei
vicini che sanno mutare la povertà in fragranza di
ospitalità sconosciuta, così come il Signore
sapeva mutare alla tavola di nozze l'acqua in vino.
Ti
dirò che da alcuni anni stanno assumendo dentro di
me quasi un valore di simbolo le vacanze dei ragazzi che,
in contro tendenza anche con alcune proposte ecclesiastiche,
per la loro estate scelgono i posti poveri, a volte drammatici
del mondo. Ci vanno non da turisti. Vanno - che un angelo
li custodisca - per condividere.
A me, ormai vecchio d'anni, non è dato se non accompagnarli
in sogno, trepidare per loro, attendere che ritornino e
comincino a raccontare. A volte penso che questi ragazzi
ci segnalino una condizione che ormai ci appartiene, se
non siamo dei senza cuore o degli spensierati, la condizione
scomoda di chi non può più permettersi il
lusso di godere totalmente, godere "come se",
come se nel mondo non succedesse niente. Il pensiero mi
incideva fortemente la scorsa estate, nei brevi giorni in
faccia alle Grigne
Mi
brucia
come ingiustizia
quasi privilegio senza perdono
questo mio contemplare
estasiato
lo sgomitolarsi lento
di sagome di nubi
incontenibili fantasie
nei cieli,
quasi cumuli di ceneri
affocate qua e là da tepori
di braci segrete.
E sfiorare il paradiso,
nell'ora in cui, Davide,
gli occhi ti si son fatti
rossi dalla polvere
della distruzione
presso i campi di Nablus,
case su case sventrate
occhi depredati
ceneri senza tepori
e polvere d'odio
che soffoca le gole.
E urlare, urlare
l'inverno
dell'annientamento
l'anticamera del nulla
e sfiorare triste l'inferno.
Finché vive l'inferno, Davide,
è morto nel mio cuore
ogni paradiso.
I
ragazzi e le ragazze delle estati alternative io li inseguo
di nascosto, come se avessero negli occhi il futuro, il
futuro che tutti sognamo. Come se ci ripetessero, ma non
a parole, non è loro costume fare da maestri a qualcuno:
"non possiamo fare come se".
Loro inventano qualcosa, magari un mese in un campo profughi.
E sperano di ricordare.
"...il bimbo che immerge lo straccio del pavimento
nel secchio. Avrà due anni. Gli spari, il carrarmato
sotto casa mia, adesso. La paura nella voce di Cinzia che
chiede: "è normale?". Amer entra adesso
in camera mia e dice: "no, non è normale".
Poi il silenzio e gli uccellini. Ma è un attimo,
si ricomincia. Quando finirà tutto questo? Non so.
Spero di non dimenticare. Spero di non tornare e ricominciare
a lagnarmi per scemenze".
Non possiamo fare "come se". Il mio invito, da
povero prete con una immaginazione ormai impoverita dagli
anni, ma pur sempre sedotta da chi non è ingrigito
dal tempo, è a osare nuove strade.
Non possiamo fare "come se". Stiamo perdendo in
immaginazione.
Un
invito a dare una svolta, a immaginare vie nuove, mi urge
anche quando penso alla celebrazione dei sacramenti. Se
aspettiamo che le indicazioni ci piovano dall'alto, siamo
perduti. Perduti per sempre, perché il tempo si è
fatto breve e le opportunità che ci rimangono hanno
ormai breve corso.
Il pensiero mi corre - so che non è la questione
cruciale, il nodo decisivo - ai dintorni della celebrazione
di battesimi, messe di prima comunione, matrimoni.
Confesso che mesi fa mi assalì il desiderio di scrivere
una lettera ai genitori dei ragazzi che, a maggio del prossimo
anno, prenderanno per la prima volta il pane del mistero
alla Cena del Signore.
Si stanno creando consuetudini sempre più pesanti
e opache intorno alla Messa di prima comunione, consuetudini
che non hanno nulla a che fare, a volte persino fanno a
pugni, con il gesto che si sta celebrando. Parlo di una
cornice sempre più vuota, vuota di vera umanità
e di mistero, per la quale il vestito dev'essere elegante,
i regali consistenti, le foto impeccabili, confetti e partecipazioni
quasi di rigore, quasi di rigore il rito estenuante dei
ristoranti. E forse neppure ci sfiora il pensiero, quello
decisivo: se l'eucarestia è vincolo con Gesù,
che ha a che fare tutta questa cornice fastosa con il Gesù
della cena, quello vero, quello di Nazaret di Galilea?
Si sono costruite e si vanno costruendo intorno al gesto
consuetudini di cui sarebbe importante con coraggio indagare
le radici. Se fossimo onesti, onesti con noi stessi, dovremmo
confessare a noi stessi che le radici di questa cornice
non sono in Gesù, non sono nel vangelo. Anzi, noi
facciamo tutto questo "come se". Come se Gesù
non fosse tutt'altro.
Tradizioni, consuetudini che vivono "come se".
Come se nel mondo non urlasse - non dico una volta al mese,
ma ogni giorno - il dramma dei bambini. E tutti a vedere
la loro pancia gonfia, gonfia di vuoto, che grida la fame.
I loro occhi un'invocazione che ti rimane incollata per
ore, forse per giorni, all'anima.
E la paura. La paura che si possa continuare a celebrare
la cena della condivisione universale, "appartandosi".
Non
è forse giunta l'ora che ci si riunisca a comunità,
a gruppi e, per rispetto di Dio e della terra, si tenti
di inventare qualcosa di nuovo? Gesti nuovi in consonanza
con la cena di Gesù. E non potrebbe essere un segno
di intelligenza, di onestà, di fedeltà al
vangelo che io alla messa di prima comunione indossi il
vestito della domenica che ho già - gli armadi sono
affollati - e invece vesta un ignudo? "Vestire gli
ignudi" si diceva nell'elenco, forse dimenticato, delle
opere di misericordia.
L'esemplificazione del vestito, lo so, può sembrare
leggera, perfino banale, ma vorrebbe risuonare semplicemente
come un invito a ritornare a immaginare.
A immaginare cose nuove, anche quando celebriamo il battesimo
di un figlio e ci viene consegnato il messaggio che ogni
bambino del mondo è un figlio di Dio. Forse non tutti
sanno che la moda dei matrimoni è trasmigrata e ora
sta contagiando anche il battesimo: confetti, bottiglie
stappate, rinfresco, ristorante.
Possiamo ancora permettercelo? Me lo chiedo. Forse ieri
quando non sapevamo, ma oggi che sappiamo? Rimango un poco
triste - forse perché sono fatto male - ogni volta
che trapela che cosa oggi si spende a invitato ad un pranzo
di nozze. E quando è sera, che cosa ti rimane nel
cuore, se abbiamo gli occhi chiusi e un passo più
appesantito? Se ci rimane uno spiraglio negli occhi per
vedere che cosa sta oltre il nostro appartamento, ce ne
andiamo con la tristezza di aver celebrato "come se",
come se non esistesse il mondo.
Ho
pensato a lungo prima di scrivere queste parole, parole,
lo confesso, che sfondano, sfondano primo fra tutti colui
che le scrive, e la grafia, la mia, tende a scomparire per
la vergogna.
Ho pensato a lungo. Poi mi sono detto: nessuno dei miei
amici vorrebbe vivere "come se", come se non fosse.
E mi sono anche detto che avrei concluso questo mio articolo
aprendolo, come dovrebbe essere sempre. Aprendolo a nuove
immaginazioni: immaginiamo la vita, i riti, il dopo-rito
secondo il vangelo.
Le mie parole sarebbero inutili, sprecate, se suonassero
solo come un atto d'accusa: la mentalità imperante
- questo è "l'impero" - ci ha condotti
quasi inconsapevolmente a questi esiti. Ora grazia, grazia
incomparabile, potrebbe essere un sussulto, un sussulto
di ribellione.
Non vogliamo ergerci a maestri, conosciamo la nostra misura.
La nostra è una piccola comunità, non ci appartiene
la presunzione di cambiare il mondo, ma il sogno sì.
Ci appartiene il sogno di aiutarci tutti insieme a immaginare
- anche per i sacramenti - qualcosa di nuovo. Può
una comunità immaginare qualcosa di nuovo? Cesare
Viviani, un amico, direbbe di sì.
Senza presunzione. Senza condannare nessuno. Unendo tenerezza
e coscienza lucida della realtà. Come fanno alcuni
nostri ragazzi, che cantano i gesti teneri dell'amore e
insieme l'odore acre delle distruzioni. Distruzioni di case
e di speranze.
don
Angelo
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