ARMENIA,
TERRA DELLE PIETRE URLANTI
Abbiamo
bussato a una terra. Ci è stato aperto. Era notte
di inizio settembre quando bussammo alla terra d'Armenia.
L' aeroporto della capitale, Erevan, era inghiottito dalle
ombre. Ma nemmeno la notte più fonda ha il potere
di nascondere la povertà di un aeroporto e di una
terra: una povertà, è doveroso subito aggiungere,
sposata. Sposata a un calore. E il segno fu nelle primissime
ore di quella notte in terra di Armenia: non avremmo facilmente
cancellato dalla memoria le immagini delle corone di fiori,
con cui, con grida di esultanza, gli abitanti di quella
terra, accoglievano l'arrivo, chissà quanto sognato,
di loro parenti dalle terre del mondo.
La terra è povera, qualcuno di noi aveva letto, povera
come le sue rocce. Ma le rocce d'Armenia sono per grazia
tutt' altro che gelide, sembrano ardere di calore. E nell'aeroporto,
nella notte, ad ardere non erano solamente quelle fantastiche
corone di fiori, erano anche i volti che le protendevano
e le volteggiavano. Terra povera, ma ospitale, pensammo.
L'ospitalità dei poveri è sacra: l'altro è
benedizione, non è misurato dalle cose.
Abbiamo bussato a una terra. Ci è stato aperto. Ma
ora confesso che avremmo dovuto sostare più a lungo,
forse mesi, forse anni, per cogliere parte del segreto di
un popolo: questi miei fogli sono visioni di una terra da
fessure. Esili fessure che non racchiudono il cielo, ma
raccontano brividi. Abbiamo semplicemente bussato.
In quel nostro irradiarci ogni giorno dalla capitale, ora
a sud ora a nord, ora a oriente ora a occidente, più
volte mi avrebbero accompagnato le parole di un poeta armeno,
Mandel'stam: "Regno di pietre urlanti -/ Armenia, Armenia!".
Un urlo da ascoltare, da leggere, da interpretare. Un urlo
dalle pietre.
La pietra sembra urlare la fierezza sacra di un popolo.
Resistente la roccia, ma per passione. Pietra calda. Abitata
da passione di donne e uomini, resistenti per secoli al
tentativo di cancellare la loro identità. Pietre
rosse di fuoco, quasi sporche di sangue. Contro ogni tentativo
egemone di dominio, fosse politico, culturale, religioso.
Leggevi nelle pietre la storia di un popolo. Ammiravi. Ma
il pensiero non poteva non andare, per confronto, alle nostre
terre, sempre tentate di barattare fierezza e libertà
per un pugno di cose, per sete di ambizione. Quando la libertà
dai faraoni è fatica, torna in agguato il rimpianto.
Il rimpianto - narra il libro dei Numeri - "dei pesci,
dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle, dell'aglio
che mangiavamo in terra di Egitto". In terra di schiavitù!
Oggi per denaro, per sete di successo, per omaggio servile
al faraone di turno si vende libertà e fierezza.
E forse non ce ne accorgiamo. O dimentichiamo.
La terra di Armenia non dimentica, ha il fascino segreto
delle memorie. Incancellabili, come scritte su pietre di
passione. Mi si perdoni l'interpretazione, forse anche per
fissare le memorie, quel popolo si diede una scrittura,
sua, originale, un alfabeto che il santo Mesrop Mashtots,
al dire di un cronista, inventò dopo aver visto un
angelo disegnarne i caratteri d'oro su una parete. Un alfabeto,
una scrittura, perché non si cancellasse ciò
che il popolo aveva di più prezioso, perché
fosse in eredità alle generazioni future. Noi, veniva
spontaneo chiederci, mentre sostavamo stupiti ai manoscritti
in una delle grandi sale dell'Istituto Matenedaran, noi
cosa consegniamo alle generazioni future? Con la nostra
scrittura?
Ci sembrò quella mattina che rivivessero nella grande
sala migliaia e migliaia di amanuensi. Ci sembrava di vederli.
Giorni e notti consumate su quelle pergamene, intenti a
trascrivere nella lingua antica i testi delle Scritture
sacre, i testi della cultura dei padri. Avresti voluto,
era rapimento di estasi, aprire quei cristalli, e solo sfiorare
con le tue dita, accarezzare le pergamene, che sembravano
ancora custodire un tepore di mani, un brivido di mistero.
Per te, nel tuo cuore, sacre quelle pergamene, sacre come
sacre le reliquie. Chi infatti potrebbe dare misura alla
passione del lontano miniaturista, che cesellava di figure
e di simboli, di colori e di ori la lettera che apriva uno
dei libri della Bibbia?
Pagine sacre, mani sacre, tramandavano la vita di un popolo,
che identificò la sua storia con il cristianesimo.
Non con quello vincente - sarà poi cristianesimo,
quello vincente? -, ma con quello perdente, perdente per
amore, quello della croce. Paese delle croci di pietra l'Armenia.
Quasi simbolo di un popolo, che visse nella sua pelle la
croce, e la incise poi, a memoria futura, nelle rocce e
sulle pietre. Più camminavi, più le fissavi,
le scrutavi. Croci senza il crocifisso, croci fiorite, come
albero che germoglia dalla terra. Più camminavi e
più le interrogavi. Ti seducevano, in esse non respiravi
la morte ma la vita. Croci senza il crocifisso, croci che,
nude, respiravano la risurrezione, croci che, nude, fanno
memoria di tutti i crocifissi della storia, fatti uno con
Gesù, il Figlio di Dio morto di croce. Croce albero
della vita, croci su pietre affocate, rimaste a cantare
tenacemente insonnemente una resistenza. E una vittoria.
In uno dei suoi suggestivi canti, Gregorio di Narek, uno
dei maggiori poeti mistici dell'Armenia, vissuto nel secolo
decimo, così celebrava la croce:
Lodato
sii, legno della vita,
tu unico capace di luce
stabile nella gloria
autore di grazia
figura del cielo
volto dell'aurora
nunzio del creatore.
A causa di te il compimento del cielo
dei sette secoli della consumazione
quando la natura degli elementi
si scioglierà
tra essi solo tu
materia superiore agli immateriali
nel più alto dei cieli ti protenderai
simile al lampo
in vista della contemplazione
da parte di ogni creatura
nel giardino dell'avvento del re immortale.
Forse
come nella sera del compiersi
del giorno di questo secolo
così anche all'inizio
del domani del tempo senza notte
saremo degni
di glorificare te che dai la vita
prima dell'aurora
e più tardi ancora,
tu che sempre sei adorata
con inno di lode
piantata con il sangue di Gesù
fortificata come sua arma:
egli è in te con te e per te
nell'estensione della tua figura
o croce,
che in cielo ti elevi come folgore.
Cantavano
una vittoria paradossalmente anche le "mille e una"
chiese dell'Armenia. Chiese antiche, di fuoco come le loro
pietre, abitate da ombre e silenzi che raccontano il mistero,
vegliate da splendide cupole che sembrano additare, nella
luce fioca che bussa dall'alto, il brivido di una Promessa
che tarda ma non verrà meno. Monasteri che sembrano
prendere il colore ocra e porpora della terra che li ha
generati e ospitati, tinti di fuoco al tramonto, quasi volessero
ancora una volta ricordare, nel colore, una identità
pagata lungo i secoli. Con il sangue. Monasteri oggi vuoti
di monaci, ma vissuti dalle memorie. Ora che muto si è
fatto il canto dei monaci, a cantare, ancora una volta,
sono le pietre. Pietre intrise di memorie.
Tra i momenti più struggenti, di un viaggio che solcava
memorie, ognuno di noi si porterà in cuore la sosta
in un pomeriggio di sole al memoriale del genocidio. Prima
fu rabbrividire d'anima davanti a volti e volti, destinati
a cancellazione dalla terra e dalla convivenza degli uomini,
quasi non ne fossero degni. E loro a fissarti fino alla
punta estrema del cuore da album strazianti di famiglia,
immagini di rara dignità e bellezza, i copricapo
neri e severi degli uomini, le vesti, ingentilite di una
grazia antica, delle donne e gli occhi, occhi di luce di
quei figli belli, belli come angeli. Ti interrogavano, attendevano
risposta, ti pungevano l'anima. Vestiti di dignità
e di festa, una festa soffocata con uno dei più atroci
genocidi della storia, nei giorni della prima guerra mondiale.
Genocidio rimosso. Per rimuovere un colpevole assordante
silenzio.
Uscimmo a capo chino, a spalle curve per peso, attratti
da una stele che bucava, a segnale, il cielo e un angolo
di terra. Fummo come rapiti. Scendemmo. I passi si fecero
leggeri e fu silenzio. Vegliato in una conca da monoliti,
che bucavano il cielo, il braciere delle memorie. Fuoco
mai spento. E fiori. Ci fu dato, tra brividi di commozione,
di assistere a un pellegrinaggio ininterrotto, silenzioso
e straziante: vedemmo donne e uomini e vecchi e bambini
arrivare dall'alto recando un fiore, li vedemmo chinarsi
a deporlo, fino a comporre la grande ghirlanda attorno al
braciere che ardeva. Pensavano di cancellare un popolo.
Il fuoco cantava la vittoria dei resistenti. Agli occhi
bussava un brivido di pianto.
Ho visto
battere il cuore
alle pietre.
Ho visto tremando
immensi monoliti
alti nel cielo
spezzarsi in pianto
in veglia struggente
giorno e notte al tripode
del ricordo.
E tra spazio e spazio
di monoliti
cariche le spalle di compassione
ho visto
spiare tenero
di cieli e di nubi
su occhi umidi di pianto
e corone di fiori,
carezza e fierezza
di un popolo resistente.
don
Angelo
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