CANTA
IL MIO CUORE A ICONE
Tra poco si parte. Non sono così certo che nella
valigia abbia precipitosamente radunato tutto, o quasi tutto,
ciò che servirà per il viaggio. Pago l'insicurezza
di chi va affastellando all'ultima ora.
Controllo che non manchi la carta d'identità. Non
so perché, quest'anno la valigia nera mi ha evocato
altra valigia ed altro viaggio. Altra partenza. Sarà
nella notte o prima dell'alba? E non avrò dimenticato,
mi chiedo, il passaporto? Per l'eternità? E così
mi ritrovo a occuparmi, pochi istanti prima di partire,
della carta d'identità per l'imbarco dalla Malpensa,
ma anche di un'altra carta d'identità, per altro
imbarco. Forse vuoi sapere se mi agita l'altro imbarco.
Ti dirò che il pensiero non fa che ritrascrivermi,
a memoria e speranza, nella mente il testamento di don Lorenzo
Milani, priore di Barbiana.Quasi un regolamento di conti,
così lo chiama. A conclusione.
Caro Michele, caro Ferruccio, cari ragazzi,
Non è vero che non ho debiti verso di voi.
L'ho scritto per dare forza al discorso.
Ho voluto più bene a voi che a Dio,
ma ho speranza che lui non sia attento
a queste sottigliezze e abbia scritto tutto
al suo conto
Un altro abbraccio, vostro
Lorenzo
Passaporto per l'altro imbarco! E respiro.
Mi scuoto dal pensiero. Ora sono al controllo per questo
volo. Verso la Romania. Controllo passaporti, controllo
valigie, controllo delle persone. E c'è sempre qualcosa
che suona. A dispetto.
Finalmente si parte e subito siamo nel cuore dell'azzurro.
Quando atterriamo però nubi su nubi premono dal cielo.
Hanno premuto a lungo, nei giorni precedenti il nostro volo.
Strade, campi e parchi ne portano a dismisura il segno.
Oggi
il cielo ancora incombe grigio e non promette fessure di
azzurro. Ma nemmeno il cielo più grigio ha il potere
di spegnere dagli occhi l'emozione di costruzioni antiche,
ricomposte, non già per volo d'angeli ma per cura
di mani umane, in questo sconfinato parco naturale di Bucarest.
È incantamento. Messa alle corde è ogni arrogante
e abusata idea di progresso. Vai nella mente comparando
sagome e architetture delle nostre case, spesso linee spente
senza sussulti con queste case cariche di cinquecento e
più anni. L'intreccio dolce dei rami delle recinzioni,
le forme spioventi delle coperture, l'intarsio delle scandole
dei tetti, le erbe rinsecchite che fanno tetto dolce a nascondimento
e finestre a misura di spia del cielo. Del cielo e della
terra.
Passi viali, passi secoli, passi l'ingegnosità degli
umani, la fantasia dei piccoli, dei poveri. Spazi d'arte
dove povertà e bellezza stanno abbracciate. In faccia
al migrare dei tempi. Ti chiedi, e non c'è risposta,
che cosa è progresso e che cosa regresso.
Ora
per strade livide di pioggia, su strade a sussulto di buche
e di smottamenti, puntiamo verso Vulcea. Il villaggio non
ha nome né spazi nei normali circuiti del turismo.
Noi sconfiniamo. Sconfiniamo, per un pomeriggio, dai tragitti
della normalità. Se non sconfini non vedi. Lo dovrebbero
segnare a memoria gli uomini di chiesa. Se non sconfinano
non vedono. E di conseguenza parlano in assenza di visione.
Parole cieche.
A Vulcea arriviamo per ricordo di voci di amici. In un incontro
di qualche anno fa don Gino Rigoldi, un prete di quelli
giusti, che non tirano dritto come i religiosi della parabola,
bensì si fermano e si curvano come l'eretico samaritano,
aveva fatto cenno a una rete di solidarietà nata
attorno ai ragazzi di quella povera terra di Romania.
Sconfiniamo e siamo in una delle case famiglia che li ospitano.
Fissiamo i loro occhi, ora immagine della fiducia. A stento
oggi ritroveresti l'ombra della paura, degli orrori, patiti
in orfanotrofi che sono dei veri lager, dove pane duro quotidiano,
ancora oggi, è la violenza, la paura.
Ci accompagna nella visita un giovane prete ortodosso, padre
Petru. Senti entusiasmo per ciò che sta crescendo.
Gli occhi gli sorridono quando esterna il suo convincimento
che sono questi i passi che costruiscono l'ecumenismo. Non
già le dissertazioni e le dispute di palazzi più
o meno sacri.
La visita ora fa tappa a una scuola materna, nata dalla
collaborazione tra patriarcato ortodossa e diocesi cattolica
italiana. Impigliato nell'aria festosa dei bimbi un canto,
a sorpresa nella nostra lingua, segno di un passaggio di
ragazze e ragazzi italiani che hanno condiviso con i bimbi
i giorni dell'estate.
Ora nell'addio rimangono emozioni e promesse.
È
tempo di puntare verso le regioni del Nord. Già ci
arde in presentimento il miracolo dei monasteri e delle
chiese, fasciate di Bibbia in affreschi.
Anche il cielo si va stemperando, quasi tenero accondiscendere
ai nostri occhi. In anelito di contemplare.
Lo spazio, varcato l'ingresso del monastero, è sacro.
Anche se ora invaso dal vociare delle nostre troppe parole,
da sguardi forse indiscreti.
Monasteri custoditi da mura e da torri. A protezione di
monaci, di monache e di silenzi.
Immersi in isole di verde. Quasi a suggerire che l'ingresso
a Dio è ingresso alla bellezza, quasi ad ammonire
che il mistero non può essere impoverito a oggetto
di voracità, nemmeno religiosa.
Chiese
vegliate
in affreschi
giorno e notte
da volti assorti
e perduti
di profeti e di santi.
Conta
l'approssimarsi passo dopo passo. Con la lentezza di chi
intravede. A passi lenti verso una soglia da cui indegnamente
spiare. Un percorso a tappe, tappe di avvicinamento. Prima
il nartece, poi il pronao, poi ancora il naòs. Ed
ecco l' iconostasi, parete di stupore dove le icone si fanno
ardenti al fiato luminoso di piccole lucerne. Quasi una
preparazione dell'anima.al mistero che viene celebrato nello
spazio segreto del santo altare.
Scriveva anni fa Cristina Campo:
Uno
a uno vengono accesi i volti
alle radici millenarie
della selva d' icone
per fare di giorno notte,
neve e stelle,
per far della tenebra rose
-più che rugiada trasparenti rose.
E la fiamma sboccia come il bacio all'icona
e il bacio sboccia come la rosa all'icona,
culmini della linfa della terra,
culmini del respiro dell'amore.
La tigre assenza, Milano 1991, p.46
È
scorrere di umanità e sostare, quasi ad attingere
acqua sacra ai volti. Scorrere di donne, di bambini, di
giovani e ragazze, di uomini, con l'abito della festa la
domenica, quando accade il giorno del Signore. È
venire, sostare e andare. Silenziosamente, mentre dall'invisibile
del sacro giungono canti modulati di mistero.
E rimango stupito, osservo riti dell'anima.
Donne
nerovestite
annusano
chine il mistero
a ombra d'icone,
a pareti affrescate,
miniature dell'anima.
Vangelo su muri,
libro aperto
sacro
al sole e alla pioggia,
a misura d'occhi
di insaziati vedenti.
E
ora è
crepitare di mistero
da pareti istoriate
da legno trasfigurato.
Il racconto è a cielo aperto. Il racconto di Dio,
il racconto dell'umanità, su pareti di chiese fasciate
di santi, dai colori dei santi. Il racconto di Gesù,
albero della vita, il racconto della scala che porta alla
vita.
Ti confesso che a volte provo sospensione nel cuore al pensiero
che il racconto si sia interrotto, e che le pareti ora siano
orfane dei colori della salvezza, impoverite in un biancore
vuoto. E come vorrei, spero che me lo perdoniate, che la
chiesa ritornasse a raccontare di Gesù e di lui solo.
Lui, direbbe don Michele Dò, immagine visibile e
trasparente dell'invisibile volto di Dio, immagine alta
e pure del volto dell'uomo come l'ha sognato Dio.
Raccontiamo Gesù. E fermateli, come invitava a fare
Rainer Maria Rilke.
Io
temo tanto la parola degli uomini.
Dicono tutto sempre così chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l'inizio e là è la fine.
E
mi spaura il modo, lo schernire per gioco,
che sappian ciò che fu e ciò che sarà;
non c'è montagna che li meravigli,
le loro terre e i giardini confinano con Dio.
Vorrei
ammonirli, fermarli: state lontani,
a me piace sentire le cose cantare.
Voi le toccate: diventano rigide e mute.
Voi mi uccidete le cose.
Cancellare
le tante parole rigide e mute e ritornare a raccontare il
vangelo, lui ha parole che fanno luminosa la vita degli
umani, parole come vento tra le foglie. Lui ha occhi caldi
e luminosi come il sole. Ha mani e gesti delicati come pioggia
mattutina.
Sono passati giorni e anni, sono passati secoli e non si
è scolorito il racconto sulle pareti delle chiese,
vegliate giorno e notte dai volti dei santi.
Ci stacchiamo a fatica dalle chiese dipinte, dal colore
estasiato dei loro affreschi, dal legno trasfigurato delle
loro icone.
Il
viaggio ora va di regione in regione. Anche la terra ha
una sua poesia. Mani l'hanno con passione dipinta. La Romania
conosce la bellezza immensa di boschi e di monti. E non
è ancora esproprio di una misura antica. Pure i covoni
costruiti, quasi a rispetto, ad arte: "covoni di fieno"
commenta Giuliana "monumenti della defunta estate".
E pianure. Che si perdono all'orizzonte, quasi segno di
un tempo fermato.
E
brucare lento e assorto
di asini pazienti
in pianure silenti.
A veglia albero
solitario
e striscia inattesa
di fumo,
esile segnale
di nascosta umanità.
Come
da angoli di memorie antiche sbucano frammenti di visioni,
ora sconosciute nelle nostre terre.
E
carri trainati
allegramente.
A trotto
di fiato di cavalli.
Carri, tenda
d'inviolata
antica alleanza
tra uomo e terra.
E case
lungo strade di Romania.
Case accucciate
in anelito di nascondimento
quasi in fuga
da vuota esibizione.
E, dietro vetri
di segretezza,
storie di umili
negate
a sguardi senza pudore,
scritte
a memoria
nel libro del Santo
e dei santi.
Dalle
icone dipinte dei monasteri alle icone viventi della storia.
Senza questo ritorno alla terra ci sembrerebbe di tradire
la memoria accesa nei volti santi. Ed è ricongiungimento.
Ricongiungimento ai bambini di Vulcea, ricongiungimento
alla terra che stiamo visitando, ricongiungimento alla terra,
la nostra, che ritroveremo. Perché chiesa e terra
attendono di essere trasfigurate. Dalla bellezza del vangelo.
Abbiamo più volte nel viaggio pregato con le parole
di una mistica ortodossa russa, martire, Mat' Marija. Perché
il viaggio non fosse senza ritorno.
Nulla
ricordo del Testamento, neppure l'ora,
né conosco la divina Torah.
Ma tu mi hai dato estate e inverno,
e cielo, e fiumi, e monti.
Non
mi insegnasti a pregare
secondo le regole e le leggi,
canta il mio cuore, come un uccellino,
a icone non dipinte da mano umana,
alla
rugiada, all'alba e alla strada,
alle pietre, all'uomo e alla bestia.
Ricevi, o giusto e severo,
l'unica mia parola: credo!
don
Angelo
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