SCRIVO
A TE, ARCIVESCOVO
Scrivo
a te, Arcivescovo,
e la lettera, come vedi, è aperta. Non c'è
nulla da nascondere. La firma è mia, come hai potuto
adocchiare prima di scorrerne il testo. Ma potrebbe essere
di tanti. A firmarla potrebbe essere una moltitudine. Ma
non siamo qui a raccogliere firme per un referendum.
Tu dici che non è il numero che fa la verità.
Giustamente. Anche se in passato nelle aule di teologia
dove tu insegnavi si osava ancora parlare del sensus fidei,
cioè del comune modo di sentire dei fedeli a proposito
di fede. E, se non sbaglio, si insegnava che gli erano dovuti
una certa attenzione, un certo rispetto, una misura non
avara di onore.
Capisco che non sono queste le lettere che sfiorano l'aria
impegnata dei sacri palazzi, dove la considerazione, data
la scarsità del tempo, va misurata sulle competenze
e sui titoli che nel nostro caso sono assenti e dove, per
lo più, lettere devote attendono spasimando riconoscimenti.
Cose, ti confesso, che non mi appartengono, e sia chiaro,
non per virtù ma per una sorta di disinteresse e
di idiosincrasia.
Di più vorrei anche dirti che a scriverti oggi non
mi spinge, se ci penso, il disagio che io personalmente
sto vivendo o chissà quale mia attesa. Non avrò,
tu lo sai, ancora molto da vedere dentro e fuori la chiesa.
Gli occhi, anche se ancora curiosi, inspiegabilmente ancora
così curiosi, denunciano debolezza per l'età
e per il velo del consumo. Ma ti scrivo per loro, e vorrei
che tu mi capissi, perché non sempre si scrive a
speranza degli altri. Ti scrivo per i volti che dalla grazia
mi sono stati affidati. Volti che sembrano navigare, ogni
volta che mi ci immergo e me ne innamoro, il futuro. Scrivo
per loro, quasi declinando religiosamente i versi di una
estrema offerta laica:
Ti dono l'avara mia speranza.
Ai nuovi giorni, stanco, non so crescerla.
L'offro in pegno al tuo fato che ti scampi.
(E. Montale, Ossi di seppia)
Perdona questa lunga premessa. Ma forse non è del
tutto inutile capire da che cosa uno sia spinto a scrivere.
E vengo al disagio, perché di disagio si tratta.
Quest'anno riceviamo sollecitazioni a riflettere sull'eucaristia.
Nei documenti si parla del-l'eucaristia e della sua innata
carica missionaria, si parla della domenica, il giorno del
Signore, e dell'onore che le va restituito.
Il problema, lo ammetto, è importante. Ma forse è
chiaro a tutti, o a quasi tutti, che a nulla servono le
grida e i proclami dall'alto. Quest'an-no, mi si dice, sarà
tempo di indagini e di statistiche. Sotto inchiesta saranno
la frequentazione delle messe domenicali e la loro alta
qualità celebrativa.
"L'alta qualità celebrativa": ogni volta
che sento pronunciare la parola, e già è diluviata
straripando in questi mesi, mi rintrona a perdizione di
pensieri nella testa, la mia debole testa. Puoi dunque ben
immaginare quante volte si prepara a rintronarmi lungo l'anno
e, già lo prevedo, desterà sussulti di insofferenza
e disagio nel cuore.
Sarà per una questione di linguaggio, come dice qualcuno?
Forse è vero, tra le tante troppe manie, mi resta
anche questa del linguaggio, del linguaggio come spia e
veicolo del pensiero. Mi affascina fino a sedurmi il Gesù
dei vangeli, il suo linguaggio così distante dal
mestiere di parlare.
Sarà, tu dici, per una questione di linguaggio? Forse
non è solo questo. L'espressione "alta qualità
celebrativa" evoca, in modo fin troppo evidente, le
indagini di mercato, le sollecitazioni del marketing, dove
tutto deve essere alto, evoca l'immagine, evoca le vendite,
evoca il mercato. La mia Messa ha una più alta qualità
celebrativa della tua e dunque compra la mia. Tutto oggi
è azienda, prevale l'aspetto aziendale, mercantile.
Anche la scuola è diventata azienda, anche la sanità
è diventata azienda. Chissà che i criteri
dell'azienda non debbano essere illuminanti anche per le
chiese! Andiamo dunque a misurare l'alta qualità
delle celebrazioni. Siamo arrivati, passo dopo passo, a
misurare il mistero!
Dopo aver consumato mesi e mesi in estenuanti indagini,
precisi come saremo nel riferire se il salmo responsoriale
nelle liturgie è cantato completo o solo nel ritornello,
cantato ogni domenica o solo nelle feste solenni, quale
"alta" qualità celebrativa avremo alla
fine misurato? È forse misurabile il mistero? Non
pensi che a questo punto, dopo tanto parlare per documenti,
sarebbe bene che mettessimo fine alle enunciazioni e alle
declamazioni e imparassimo qualcosa da Giobbe? Metterci
una mano sulla bocca e tacere, sentirci piccoli e adorare
il mistero?
Ma forse una ragione, ancor più profonda di questa,
mi porta lontano dagli aneliti all'alta qualità celebrativa,
una ragione ancora più intima che sfiora il mistero
stesso della cena del Signore: noi parliamo di "alto"
dentro il mistero sconvolgente del "basso", starei
per dire, di un basso che più basso non è
immaginabile. E non è questa dissacrazione?
Vogliamo circondare di toni altisonanti, di coreografie
prestigiose, di incensi e paludamenti il sacramento che
narra l'umiltà di Dio, l'ab-bassamento di Dio. E
così lo veliamo.
La parola non è mia, è presa a prestito da
un santo, che di vangelo, a differenza delle gerarchie del
suo tempo, ne sapeva e soprattutto, e qui era la differenza,
il vangelo lo scriveva sulla sua pelle, quotidianamente,
era la sua norma, Francesco d'Assisi. Proprio lui giunse
a chiamare con chiaroveggenza e audacia l'eucaristia "l'umiltà
di Dio", quasi fosse l'ultimo gradino del suo discendere.
Già Dio aveva attraversato l'immensità dei
cieli per chinarsi su di noi, l'immensità dell'obbrobrio
per abbracciarci da una croce, ma qui in questa cena volle
lasciarsi come pane, umile povero piccolo pezzo di pane.
Per voi sono vivo in un pezzo di pane. Spezzato.
E tutti i gesti di quella cena - ce lo ricorda il Giovedì
Santo ma presto dimenticammo - parlavano di umiltà:
il contrario degli abiti raffinati, delle precedenze ecclesiastiche,
dei nostri copricapo e dei nostri bastoni. Lo ricorda a
noi senza sbavature Jean Vanier in un lucido passaggio di
un suo libro:
"Gesù si toglie la veste. Togliendosi la veste
Gesù si pone al di fuori di ogni funzione e di ogni
stato sociale. Possiede certamente una autorità e
un potere, ma vuole manifestarsi ai discepoli come persona,
e soltanto come persona, senza rango sociale, senza funzione
determinata. Prima di essere il maestro e il Signore, egli
è un cuore che vuole incontrare cuori, un amico che
vuole incontrare amici, una persona amante che desidera
vivere nel cuore dei propri amici. In questo mondo del cuore
tutti gli uomini e tutte le donne sono uguali. Non esiste
più alcuna gerarchia visibile indicata dal vestito.
Le persone con o senza handicap visibile, poveri o ricchi,
giovani o anziani, neri o bianchi, malati di AIDS o sani,
tutti sono uguali, tutti hanno la stessa dignità,
tutte sono persone la cui storia è sacra. Ognuno
è importante, ognuno è unico. La sola gerarchia
che rimane è quella dell'amore e questa rimane nascosta".
Abbiamo cancellato dal rito l'umiltà. Eppure aveva
detto: "Fate questo in memoria di me". E la memoria
era quella, il gesto di una semplicità disarmante
e sconvolgente.
Non si può equivocare: il gesto del pane era umile,
era silenzioso, era semplice. Ma parlava. Loro guardavano
e capivano. Capivano l'amore di Dio. In un pezzo di pane.
Oggi per farlo vedere l'abbiamo circondato, oserei dire
assediato, di mille cose e la foresta non permette più
di intravedere il pane, di intravedere la cena, di intravedere
il cuore. Siamo ormai nella necessità di spiegare
i segni, quando essi stessi di loro natura dovrebbero significare.
Il pane, confessiamolo, non lo si vede più. Non si
vede più la cena.
Più volte - non so se capita anche a te nelle tue
liturgie dentro e fuori il Duomo - mi capita mentre celebro
di sorprendermi a pensare e mi prende, lo confesso, un brivido:
che cosa è rimasto di quella cena, racconto dell'umiltà
di Dio? Non ti è mai capitato di pensare che gli
uomini e le donne di oggi, ritrovando quell'antico segno,
sarebbero presi da emozione come quei discepoli nella notte
del tradimento?
Prendila per una stranezza. Da tempo mi vado chiedendo se,
anziché aggiungere cose a cose nei riti, non sia
l'ora, questa, di incominciare pazientemente ma fermamente
a scrostare dagli ispessimenti, dai soffocamenti, dalle
verniciature sovrapposte nel tempo, l'affresco. Perché
di affresco si tratta. L'affresco dell'amore incondizionato
di Dio. E ritorni a splendere il colore di questa incondizionatezza,
l'incondizionatezza del pane. Dato a Giuda che lo vendeva,
a Pietro che lo rinnegava, ai discepoli sul punto di fuggire.
E lui a dire: "Fate questo in memoria di me".
Ripulire l'affresco, proposta stravagante. E forse improponibile?
Come ti guarderebbero i vescovi tuoi colleghi se tu ti azzardassi
a parlarne nelle sale prudenti della Conferenza episcopale?
Forse ti può far pensare che la proposta stravagante
non venga dal vento della giovinezza, ma da un vecchio prete
sull'orlo del pensionamento, un prete che testardo continua
a sognare parole non stanche e non spente nelle celebrazioni,
uno cui ancora fa tristezza vedere occhi fissare incolori
il vuoto, in assenza del segno del pane e della cena.
E se non fa testo la tesi scombinata di un vecchio prete
chissà che non ti facciano pensare le parole di una
delle nostre nonne, occhi verdi, che bucano il futuro, anche
lei sulla soglia. Dopo aver assistito a una delle imponenti
liturgie televisive, disgustata, mi chiedeva: "ma che
cosa centra tutto questo con quello che ha fatto Gesù
nell'ultima sua cena? Che cosa è rimasto di quella
cena?". E gli occhi, occhi verdi, bucavano il futuro.
Dove dovremo andare per ritrovare il colore e il profumo
della cena, sacramento dell'umiltà di Dio?
Dovremo ritornare alla variante proposta da Paul Wilkes
in un suo libro? "Va a Messa durante un giorno feriale.
C'è un'atmosfera diversa, più intima, con
poca gente. La cripta di un convento, una piccola cappella
in città o anche la tua stessa parrocchia. Senza
i canti corali, senza la folla. Potresti chiudere gli occhi
e immaginare l'ultima cena. E tu sei là, intorno
alla tavola. E hai proprio ragione. Tu sei là".
Chiudo. Le firme potrebbero essere tante. Anche quella della
nonna, occhi verdi, che bucano il futuro.
Con
amicizia.
don Angelo
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