articoli di d. Angelo


 

CHIESA DEI SANDALI, SENZA BASTONE

Sulle orme di S. Paolo. Quasi un invito a cercare tracce: così il sottotitolo sul programma di un viaggio in Turchia, mese di settembre.
Oggi, di ritorno dalle orme, fatico a ricomporre le tessere del mosaico. A discolpa dirò - ma non sarà una comoda difesa? - che il racconto di un viaggio va per sussulti, per emozioni e i pensieri escono a trasalimento, lontani dalla perfezione imperturbata di un ordine logico.
Dicevo delle orme, che è parola intrigante. Orme, evocazione di un passaggio, calco di piede. E subito mi scuote il pensiero che l'unica impronta in Turchia, intravista a memoria, incancellata dal tempo, fissata nel calco del marmo, fu quella di un piede, che vedemmo lungo un colonnato ad Efeso. Ed era - dicono - l'impronta segnale di una prostituta.
Le tracce di Pietro, di Giovanni, di Paolo, di Ignazio, dei grandi Padri cappadoci, e a nomi potremmo aggiungere nomi, oggi non hanno più un calco nel marmo. Forse anche dei suoi amici, come di lui, si può dire quello che di Dio dice il salmo 77: "Sul mare passava la tua via. I tuoi sentieri sulle grandi acque e le tue orme rimasero invisibili".
La memoria è in questi cieli che li ha visti passare, nella striscia di terraferma sul mare, che li ha visti approdare e salpare, fare naufragio e scampare, la memoria è in queste catene di monti. E i monti non furono barriera al desiderio e alla passione, desiderio e passione di vangelo.
Tu oggi, pellegrino senza fatica su strade di asfalto, vai nel cuore immaginando sentieri e valichi di fatica e di paure. Vai immaginando fatica e paure, ma ancor più, molto di più, la passione del cuore di infaticabili operai del vangelo.
Le orme di Giovanni, di Paolo, di Pietro, dei primi martiri, dei Padri sapienti, sono oggi quasi invisibili. Non so se sto dissacrando, non penso, ma questa assenza di edifici sacri, questa rovina di chiese ti riporta più intensamente alle origini, quando il vangelo non era nel fasto grandioso delle Basiliche. Non c'era luogo deputato al vangelo o, forse, tutti i luoghi erano occasione di vangelo. E il vangelo era nelle parole a gara col vento, lungo le acque del fiume e poi nelle case. Come segnala il libro degli Atti, laddove racconta di Paolo e della sua sosta a Filippi: "Restammo in questa città alcuni giorni; il sabato uscimmo fuori dalla porta lungo il fiume, dove ritenevamo che si facesse la preghiera, e sedutici rivolgevamo la parola alle donne là riunite. C'era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiatira, una credente in Dio e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo. Dopo essere stata battezzata insieme alla sua famiglia, ci invitò: 'Se avete giudicato che io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa'. E ci costrinse ad accettare" (Atti 16, 12-15).

Terra santa della Chiesa, la Turchia, di una chiesa paradossalmente senza chiese nel suo in principio, dentro i luoghi del comune convenire: sinagoga, piazza, strada, lungo il fiume e nelle case. Così allora correva il vangelo, quando non era ancora in vista, era lontana, la caduta nell'immobilità.
E dove, dove le orme di Pietro in Antiochia di Siria, la città in cui per la prima volta i discepoli furono detti cristiani? (Atti 11, 26). Siamo a cercarle nell'ombra di una caverna, detta di Pietro. Qui, secondo un'antica tradizione, si riuniva la prima comunità cristiana con Barnaba, Pietro e Paolo.

Grotta di Pietro,
chiesa dei sandali
senza bastone
né due tuniche.
Nuda fede,
la tua, Pietro,
ombra che guarisce.
Noi,
chiesa delle due tuniche,
lucentezza senza guarigione.

Odori nell'ombra i sandali invisibili del cammino. Tracce d'ombra. Silenzi di preghiera nella grotta. E incroci, a emozione, nell'ora della preghiera della grotta, la preghiera grido del muezzin dalla moschea nella valle. E ti ritrovi a immaginare un Dio che non fa preferenza di persona. Né forse di preghiera. Chino su ogni grido di figlio.
Comunità d'Antiochia, piccolo, piccolissimo gregge, sessanta cattolici nella città e dintorni. Nel quartiere che fu di Pietro e di Paolo. A uscio con la Moschea, a pochi passi da una sinagoga poverissima, chiesa dell'accoglienza.
"Se ci chiedete che cosa facciamo" dice Padre Domenico "vi rispondiamo che non facciamo nulla. Teniamo aperta la porta, accogliamo, ascoltiamo, sosteniamo. Abbiamo accolto giorni fa i musulmani per una loro festa, la scorsa settimana qui nel cortile abbiamo ospitato gli ebrei per un rito di circoncisione". Non fanno "niente" e fanno il vangelo.
Noi come chiesa a far tutto e forse niente o poco di vangelo.
C'è una luce indimenticabile nella chiesa-casa, resiste la luce nel cortile pur nelle ombre che bussano ai rami nella sera, la luce del vangelo, la luce della chiesa dei sandali, senza bastone e senza due tuniche. Abita il vestito chiaro di Padre Domenico. A memoria. Oggi al solo parlarne ti senti a contatto di luce.

La tua casa, Domenico
a uscio di moschea
a un fiato da sinagoga,
la tua casacca azzurra
veste vera, tunica
dei tempi nuovi
secondo
il vangelo di Francesco
che per i minori volle
un saio non di distinzione
ma di confusione
con gli ultimi della terra.
Dopo giorni
profumano ancora la tua casa
canti di una festa musulmana
impigliati all'ombra della sera
e i rami dell'albero
nel tuo cortile
ancora piegati di devozione
al rito santo di un circonciso.

Antiochia, la chiesa grotta, la chiesa casa. Tarso la chiesa pozzo. Il pozzo detto "di Paolo", da un passare di voci, a testimonianza. E nulla più. Sostiamo al pozzo. Brividi di silenzio. E nella memoria l'accendersi dei pozzi delle scritture sacre, pozzi dell'incontro, dell'innamoramento. Pozzo del-l'incontro quello di Paolo, del suo innamoramento: Parole da innamorato: "Tutto ormai reputo una perdita a fronte della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù" (Fil 3,8). Pozzo di Paolo, pozzo della brocca abbandonata, pozzo della passione che diventa viaggio. Viaggio e naufragio. A rischio di morte, a rischio di vita.

E saliamo l'altopiano della Cappadocia. Il mu-seo, il museo di Dio, qui ora è all'aperto. In masse di lave leggere e di tufo, a colpi di erosione, vento ed acqua, per fantasie incontenibili, hanno scavato paesaggi lunari, guglie e pinnacoli, cui è gioco ininterrotto dare nomi. Ti senti l'adam dell'in principio che dava nomi al creato. Anche tu qui a dare un nome e poi un altro e un altro ancora. Come succede per Dio che non può essere rinchiuso in un nome solo. E non sarà che anche tu hai un altro nome? Che ne stia nascendo un altro a sorpresa?
Alla mente ritornano frammenti di una preghiera di S. Gregorio Nazianzeno, grande padre di questa terra:
"Tutto quello che esiste ti prega,
e a te ogni essere, che sa leggere il suo universo,
fa salire un inno di silenzio.
Tutto quanto esiste, in te soltanto esiste.
Il movimento dell'universo si frange in te.
Di tutti gli esseri sei il fine, unico a vivere.
Tu sei ciascuno, e nessuno di loro.
Non sei un essere solo, non sei l'insieme,
tu hai tutti i nomi.
Come ti chiamerò?
Tu, il solo
che non si può chiamare con un nome.
Quale spirito celeste può scrutare le nubi
che velano il cielo?
Abbi pietà, tu che sei oltre ogni cosa:
come chiamarti con un altro nome?".

Fuori l'incontenibile fantasia di un museo a cielo aperto. Dentro la suggestione delle ombre: a passi lenti, quasi a non dissacrare la terra, ci addentriamo nelle città sotterranee, incavate in montagne di lava, per cunicoli d'ombra che odorano secoli antichi. Osiamo il silenzio delle chiese rupestri, nascoste agli occhi degli uomini, ma vive della luce di Dio. E gli occhi adorano il mistero di affreschi, a volte solo frammenti, su pareti di chiese segrete, scavate nel biancore del tufo, nell'ombra che avvolge.
Ad occhi consumati
inseguo in chiese di tufo
frammenti di colore,
ricompongo
chiazza di crocifissioni,
sorprese nella penombra
da striscia di luce
che filtra segreta
per fessura di silenzio.
Chiese di ombra e di tufo
ove arde l'affresco
e batte la ferita
per chiese esibite
e senza mistero.

Ed è lungo viaggio. Verso Efeso. Gli occhi si perdono in paesaggi
ove l'ocra
è pianura assolata
e un albero
chiazza di verde acceso
è solitario
custode
e veglia d'ombra.

Efeso, lo splendore delle rovine, che sconfinano nell'intensità del cielo, squarci di gloria di un passato di città fiorente e cosmopolita. Efeso, dimora, secondo tradizione antica, dell'apostolo Giovanni. La sua basilica a cielo aperto, il segno della tomba, il nostro canto e il vento che ti investe nell'ora più calda del giorno. Il vento e le parole di Gesù nel vangelo di Giovanni, parole della notte a un uomo vecchio di anni, ma non di ricerca, di nome Nicodemo: "Non ti meravigliare se ti ho detto: dovete rinascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove và. Così è di chiunque è nato dallo Spirito" (Gv 3, 8).

Ed è il vento, ancora il vento, vento leggero a investire tutti noi radunati intorno alla tavola della Cena del Signore, poco fuori la casa della madre Maria, vento che accende i volti. Forse l'ultimo segno di Efeso. Poi il ritorno.
Le orme invisibili, per sorprendente disegno, sembrano condurre al vento, al vento dello Spirito. E sia grazia la docilità a lasciarsi spingere, come vele al largo, con la chiesa dell'in principio.

don Angelo


torna alla home