articoli di d. Angelo


 

SOGNARE DI ESSERE PANE


Ho provato disagio. E voglio confidarlo. Prima racconterò il disagio, poi racconterò il sogno. Quando parlo di sogno, di sogno e di sognare, trovo sempre qualcuno, anche ieri sulla porta della chiesa, che dissente. Prima ancora di ascoltare il sogno. Dissente sull'operazione stessa di sognare, sogno come evasione.
A scanso di equivoci, vorrei dire che parlo di sogni e di un sognare che mettono in movimento, in agitazione, i pensieri, l'immaginazione e la vita. I sogni che ti fanno alzare il capo, i sogni che abitano e fanno accesa la parola delle profezie.
Ma prima del sogno, mi tocca, per debito di sincerità, raccontare il disagio. Disagio, ti dirò, è parola debole, messa a confronto con la tempesta dei sentimenti.
Mai come quest'anno mi sono sentito inquietare dai vangeli di queste ultime domeniche dell'anno liturgico. Inquietare fino alle ossa. E non penso sia per quella misura di adolescente che mi rimane, misura che il lungo migrare degli anni ancora non è riuscito a cancellare.
Il vangelo secondo Matteo, domenica dopo domenica, con un crescendo drammatico, metteva sotto accusa, spalle al muro, gli uomini della religione. Mi sorprendeva e non finirà mai di sorprendermi fino all'inquietudine - sana inquietudine? - il fatto che nei vangeli le parole più dure di Gesù non abbiano come bersaglio peccatori o atei, ma uomini dichiaratamente religiosi. Come se fosse proprio la loro "reli-giosità" a renderli indisponibili al vangelo.
Come non pensare che l'invito di Gesù avrebbe dovuto trovare in loro l'immediatezza e la gioia di un'accoglienza? La parabola racconta invece che i primi invitati rifiutano. Ed ecco avviene come una sostituzione. L' invito passa per le piazze, agli incroci delle vie. "E uscendo per le vie quei servi radunarono quanti trovarono, malvagi e buoni, e le nozze si riempirono di invitati."
La parabola era rivolta ai grandi sacerdoti e agli anziani del popolo. L'invito, l'invito di Gesù, a rendersi disponibili per la novità del regno di Dio, aveva trovato in loro un rifiuto. E Gesù era uscito per le strade e l'invito aveva trovato accoglienza negli uomini e nelle donne non del tempio, non dei palazzi, ma delle strade, dei crocicchi, malvagi e buoni. Questo, noi tutti lo sappiamo, divenne il capo di accusa contro di lui: "perché il vostro maestro mangia con i pubblicani e con i peccatori?". Gli uomini della religione erano pieni di se stessi, della loro perfezione. Come avrebbero potuto fare spazio a un altro?
E Gesù apre. Apre a tutti, anche a coloro che, sebbene peccatori, fanno spazio. Quasi a suggerirci che il vero peccato, la vera disgrazia è quella di essere così pieni di sé e delle proprie cose, della propria religione da non fare spazio. Qui sta la vera disgrazia, la disgrazia che fa la rovina della nostra vita, della società, del mondo.
Sono stato chiamato dalla Liturgia a leggere, in una di queste ultime domeniche, nella mia chiesa, un vangelo che metteva anche me con le spalle al muro, tanto da provare quasi un brivido alla schiena. Il vangelo aveva parole ruvide, graffianti, parlava senza sconti:
"Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere perché dicono e non fanno.
Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri e allungano le frange, amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì" dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare 'rabbì', perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno 'padre' sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo.
E non fatevi chiamare 'maestro', perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.
Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato" (Mt 23,1-12)
C'è un modo estremamente comodo per sfuggire alla durezza delle parole: è quello di pensarle rivolte ad altri. Ma le parole di Gesù, se non sono scolorite della passione che vi abita, sono una requisitoria contro le autorità religiose del suo tempo e di tutti i tempi.
È come se l'evangelista Matteo avesse messo a nudo una malattia, un virus, che trova terreno fertile in ogni autorità religiosa, che è tentata in mille modi, in mille situazioni, di assolutizzare, di sacralizzare la propria autorità. Sconfinando e sostituendola a quella di Dio.
È un discorso per la chiesa. Guardiamoci intorno con la lucentezza del criterio evangelico. E dovremo confessare come S. Gerolamo: "Guai a noi che siamo ricaduti nelle colpe dei farisei". Dicono e non fanno, legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, muoiono dalla voglia di essere ammirati, amano posti di onore.
Quale immagine di sé dà la chiesa, quale immagine danno gli uomini di chiesa? Dove li trovate? Gli uomini e le donne del nostro tempo dove ci trovano? Tra quelli che "parlano" o tra quelli che "ascoltano"?
Non rispetterebbe l'evangelo una chiesa delle continue infinite esternazioni, una chiesa che apparisse, agli occhi delle donne e degli uomini del nostro tempo, preoccupata più del suo nome che di quello di Dio, più del suo potere che di quello di Dio, preoccupata, come dice l'evangelista Matteo, di essere riverita sulle piazze o nei consessi umani, preoccupata della sua visibilità più che di quella di Dio.
Dove sono, chiediamocelo alla luce del vangelo, dove sono gli attentati a Dio?
Attentato a Dio è farsi chiamare maestro, uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Non accollatevi l'immagine di coloro che sdottorano su tutto, convinti di avere una verità su tutto, non fatela da maestri, cancellereste l'unico vero Maestro, il Cristo.
E non chiamate nessuno "padre", perché nessuno sulla terra può avere la presunzione di chiudere il cielo nella propria immagine paterna o di volere un figlio a sua immagine e somiglianza. Nessun padre sulla terra è la sorgente ultima del destino di un figlio. Abbiamo un solo padre, quello del cielo, lui sì salvezza e non manipolatore del volto, lui sì salvezza del volto dei figli.
E non chiamate nessuno guida, perché una sola è la vostra guida, il Cristo, e voi siete tutti fratelli.
Riascoltando le parole di Gesù mi è bussato ancora una volte alla mente un pensiero di un poeta e scrittore francese che altre volte mi è capitato di citare e che non finisce mai di provocarmi. Scrive Christian Bobin: "Ho trovato Dio nelle pozzanghere d'acqua, nel profumo del caprifoglio, nella purezza di certi libri e persino in certi atei. Non l'ho quasi mai trovato presso coloro il cui mestiere consiste nel parlarne".
Ma ce ne accorgiamo che molti se ne vanno per questo? Trovano parole e non trovano Dio.
E qui comincia il sogno. Che si ritorni ad una immagine evangelica di chiesa. Per non diventare pietra di inciampo. Non era stata forse questa un'indicazione coraggiosa, limpida e forte del Concilio che nella costituzione Gaudium et spes aveva scritto: "La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall'autorità civile; anzi, rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potrebbe far dubitare della sincerità della sua testimonianza" (GS 76).
Per un attimo, come per una sospensione del cuore, mi sono ritrovato a sognare in questi giorni che si aprisse una finestra sul nostro paese e una voce della gerarchia dicesse: "Voi ci volete favorire. Rinunciamo. Non ci sono soldi per gli ospedali, per le scuole, per i pensionati, conosciamo la fatica della gente, noi entriamo nelle loro case, leggiamo la preoccupazione sui volti. Guardate a loro". Ci saremmo sentiti tutti più fedeli al vangelo e tutti avrebbero capito che cosa ci sta a cuore.
Qualcuno, ne sono certo, avrà da ridire di questo sogno, lo potrà censurare come un sussulto estremo della stagione dell'adolescenza, ma io non sono così sicuro che sia lontano dalle pagine del vangelo.
Le parole di Gesù, se non vengono stravolte o scolorite, spingono verso immagini diverse da quelle che abbiamo negli occhi. E a noi rimane un dovere di fedeltà.
Destano in noi il sogno di una comunità dove non siano in primo piano, non vengano esibite, non contino le gerarchie o contino meno, molto meno della bellezza della fraternità, una comunità dove il brusio, il brusio vero, sia quello del calore della relazione.
E dove si rovesci il criterio della grandezza. "Il più grande sia fra voi servo." Non è scritto: abbia il "nome" di servo. Troppo poco, troppo comodo. Ma "sia" servo, lavi i piedi dell'altro, sollevi le sue stanchezze, come ha fatto lui, il Signore Gesù.
Questo ci rimane. Che ognuno di noi, là dove vive, dia spazio a questo sogno. Un sogno che ho ritrovato nelle parole di un testimone indimenticato, Giovanni Vannucci, quello di una chiesa di "accattoni dello Spirito":
"Accattoni dello Spirito, mendicanti dello Spirito: per questo non hanno avidità di possesso, avidità dei primi posti, avidità di comando. Sono schivi del plauso dei grandi, paventano l'amicizia della massa, ma sono sempre pronti al compimento del volere dell'Altissimo e sempre sensibili ad una qualunque implorazione.
Sono un pane sulla mensa di Dio e su quella dell'uomo, pane che attende di essere consumato.
Passano in mezzo agli uomini come visione di esseri appartenenti ad altri mondi, lasciano in ogni cuore la nostalgia di una patria più vera, di una terra più pura, di una pienezza di pace e di gioia inconcepibile per l'uomo disperso da mille richiami sulla terra.
Sono gli abitatori del regno dei cieli, che con essi fluisce sulla terra, lasciando un incanto indicibile, un incanto che ritorna nel cuore nei momenti di sosta e quando la sfiducia e la disperazione bussano alle nostre porte".
Il disagio, il sogno. Sognare di essere pane.

don Angelo


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