SFERRUZZARE
DAVANTI A DIO
lettera
da un monastero
"Gesù
",
dice il monaco. E forse non sa che alle spalle i monti odorano,
come in una veglia, il silenzio e le nubi abbeverate dell'ultimo
sole.
"Gesù
", dice il monaco. E quando
qualcuno dice "Gesù", si accende il cuore.
Non a tutti i nomi, ma al suo sì, e come per nessuno.
"Gesù
", dice il monaco e ha gli occhi
chiari, quelli che oltrepassano il buio della notte, gli
occhi dei veglianti. "Gesù" - dice - "fece
spesso nella sua vita "anacorésis"".
E la mente, anche per chi non sa di greco, va all'"anacoreta".
"Sovente si allontanava, prendeva le distanze, per
stare con Dio".
Un "esercizio", lo chiama: un'arte da apprendere,
in cui esercitarsi. Esercitarsi nella vita ad allontanarsi,
a prendere le distanze, a stare con Dio. Noi la chiamiamo
l'arte di pregare.
Se ti accade, come accade a me in questi giorni, di sostare
in un monastero, l'"esercizio" sembra a portata
di mano. Di mano e di cuore. Vivi, qui, l'emozione del promontorio,
punta estrema affacciata all'oceano di Dio.
Scendi le scale e senti rispondere sotto i tuoi piedi il
legno, ed è musica. Ti dirigi alla chiesa e già
è ingresso prima dell'ingresso
Canto
accorato di galli
in tenero baluginare
chiama luce.
E campane
sgolate
una sull'altra
a destare sussulti
in afasie dello spirito.
Ti profuma,
Signore della croce,
nell'ovale di luce
il legno e il canto.
E pure i monti
estasiati
da finestre sottili
a spiare l'ombra
di luminoso mistero.
Il
monaco, occhi chiari, chiede esercizio di anacorésis.
Lo chiede e non solo per questi giorni che sanno quasi di
miracolo, certo di privilegio, giorni della sosta al monastero.
Ma ora, mentre la fontana, al di là della finestra,
gocciola giorno e notte raccontando sottovoce una presenza
amica che non viene meno, quasi immediato mi ferisce il
confronto con le strade quotidiane, dove i piccoli rumori
rischiano l'insignificanza, l'estenuazione in un silenzio
purtroppo negato.
Strade inghiottite in metropolitane affollate, diventate
quasi il paradigma della modernità, che rimandano
ben altra immagine, quasi fatte simbolo dell'"anti
anacorésis". E come dunque esercitarsi alla
solitudine nel tessuto urbano, nell'ossessione di una società
senza sosta? Come essere ancora oggi fedeli all'immagine
buona e promettente di Gesù che sovente si allontanava,
prendeva le distanze e stava con Dio?
Eppure se non ci lasciamo fuorviare dai giudizi troppo disinvolti,
affrettati e superficiali di tante denunce ecclesiastiche,
questa apparente inconciliabilità tra vita nel mondo
e respiro dello spirito, è vissuta con estremo disagio,
con sofferenza, da un numero sempre più crescente
di uomini e donne del nostro tempo.
Oggi, scrivendo da un monastero, mi viene spontaneo pensare
a voi, alle vostre case, all'assillo quotidiano. Fermando
nel cuore volti a me cari, mi chiedo chi di voi non vorrebbe
concedersi qui una giornata di anacorésis, di solitudine
con se stessi e con Dio. Miraggio lontano come di un'isola
della pace.
Come
dunque riapprendere ed esercitare l'arte della preghiera?
Va detto che veniamo - anche se non ci è lecito generalizzare
- da una cattiva o se non altro ambigua educazione alla
preghiera. Purtroppo - dobbiamo confessarlo - fin da piccoli
fummo educati a "dire preghiere", meno, molto
meno, a "stare davanti a Dio". "Noi siamo
stati con lui sul santo monte", esclama Pietro nella
lettera, raccontando con emozione l'esperienza di un volto
fatto luce sul monte, esperienza più di occhi, più
di ascolto, che di parole dette, poche e irreali: "Facciamo
qui tre tende, Signore".
Educati a dire parole nella preghiera, con il conseguente
inganno di pensare che dal numero delle preghiere sia misurata
la religiosità di ciascuno di noi. Eppure Gesù
aveva detto: "Pregando, non sprecate parole come i
pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole.
Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro
sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate"
(Mt 6, 7-8).
Educati
a dire parole, meno a stare faccia a faccia con Dio. Puoi
stare con Dio, senza parole, respirando nel silenzio la
sua presenza. Chi di noi si sentirebbe di mettere in dubbio
l'intensità del tempo consumato in silenzio dagli
innamorati, abbracciati l'un l'altro, senza parole?
Respirare la presenza dell'altro è condizione ineludibile
perché le parole e i gesti, anche quelli religiosi,
anche quelli che riempiono le chiese, non siano casa vuota,
ma siano parole, siano gesti abitati.
Tra i libri della mia cella, qui, a Bose, mi ha incuriosito
per il suo titolo, un capitolo di un libro di Anthony Bloom,
metropolita della chiesa ortodossa russa. Il titolo - chiedo
scusa - l'ho rubato per questa mia riflessione. Dice: "Sferruzzando
davanti a Dio".
"Ricordo che una delle prime persone che venne a chiedermi
consigli dopo che ero stato ordinato presbitero fu una vecchia
signora che disse: "Padre, ho pregato quasi incessantemente
per quattordici anni, e non ho mai avvertito la presenza
di Dio". Allora le dissi: "Gli ha dato una chance
di proferire anche solo una parola?". "Oh no"
mi disse, "ho parlato io per tutto il tempo, non è
forse questa la preghiera?". Le dissi: "No, non
penso che lo sia, e quel che le suggerisco è di mettere
da parte quindici minuti ogni giorno, restando seduta a
sferruzzare davanti al volto di Dio".
E così fece. Con quale risultato? Presto venne da
me e disse: "È straordinario, quando prego Dio,
in altre parole gli parlo, non sento nulla, ma quando mi
siedo nella calma, faccia a faccia con lui, allora mi sento
avvolta dalla sua presenza".
Non sarai mai in grado di pregare Dio realmente e con tutto
il tuo cuore, se non impari a tacere e gioire a causa del
miracolo della sua presenza, o se preferisci, del tuo stare
faccia a faccia con lui anche se non lo vedi" (La preghiera
giorno dopo giorno, Edizioni Qiqajon, pagg. 97 - 98).
Oggi,
sostando qui a Bose, ancora una volta, col fiato trattenuto,
nella chiesa dell'"in principio", quella delle
origini, dove ora è custodito il pane del volto di
Dio, mi seducevano le ombre, il Cristo della Croce, l'altare
di pietra, il cero adorante, ma insieme mi seduceva una
piccola striscia di colore che, filtrando dai vetri colorati,
pulsava, come avesse un cuore, sul nudo pavimento.
Stare come la striscia davanti a Dio. Stare con Dio nella
vita di ogni giorno, questa è la sfida. Nella vita
che è sferruzzare, sferruzzare il quotidiano: i bambini
che piangono nella casa, il telefono che chiama e tu sei
ai fornelli, la sveglia che suona, il bagno sempre occupato,
e auto in colonna, stare uno sull'altro nella metropolitana,
la crisi del figlio, la notizia del terremoto, l'abbraccio
infinito e quello negato.
Noi, in giornate orfane della campanella dei monaci, chiamati
a inventare nuovi modi di stare davanti a Dio, non in fuga
o a dispetto della vita, ma interpretando la vita. Una preghiera
non contro i ritmi quotidiani, ma secondo i ritmi del quotidiano.
Penso al moto di genialità che portò in tempi
antichi a inventare la "preghiera di Gesù".
Ci si era accorti che il ritmo fondamentale, quella musica
che ci portiamo dentro è il respiro. E nacque così
l'invocazione: "Signore Gesù, Figlio di Dio,
abbi pietà di me", preghiera da modulare secondo
il ritmo del respiro.
E
se oggi scoprissimo altri ritmi e su quelli inventassimo
il nostro stare davanti a Dio e diventasse questa un'arte
da passarci gli uni gli altri?
Ci sarebbe, io penso, da comporre un libro e sarebbe vivo,
di sangue, non di preghiere slavate, come succede spesso
a libri che riportano preghiere ecclesiastiche scolorite,
preghiere per i fidanzati, per i genitori, per i figli,
per una morte, per una nascita, dove le parole sono pallide,
spesso filtrate non dalla vita, ma dai documenti.
Modulare la preghiera nella vita.
La preghiera - che so io - nel ritmo di una madre che sta
con Dio mentre culla il bambino e, cullando, chi sa, nel
cuore vada mormorando parole del Primo Testamento: "Può
forse una madre dimenticare il suo piccolo? Anche se fosse,
dice Dio, io non mi dimenticherò di te".
O la preghiera della donna mentre sta affaccendata ai fornelli.
Chi sa che nel cuore non culli la memoria del Gesù
della brace. Brace accesa sulle sabbie estasiate del litorale
e pesce arrostito a ristoro di discepoli da una notte di
pesca sul lago.
Stare con Dio, chissà, nella colonna ferma insofferente,
in attesa di un evento che schiuda, e avvertire nel segreto
un'attesa ancora più radicale, l'attesa della venuta
del Signore.
Stare con Dio quando esci di casa o quando ritorni e nel
cuore il riaccendersi delle parole del salmo: "Il Signore
è il tuo custode e la tua ombra, il Signore custodirà
il tuo entrare e il tuo uscire" (Salmo 121).
Stare con Dio quando ti trema il cuore e più non
sai né chi sei né dove vai, lontano da chi,
lontano da dove? E il salmo a rassicurarti che nella più
lontana delle lontananze Dio ti attende, lui che "ti
ha plasmato nel più profondo, ha creato le tue viscere,
ti ha tessuto nel seno di tua madre" (Salmo 139).
Che
la presenza sia nelle cose? Me lo chiedo. E che attenda
solo di essere risvegliata in preghiera?
Sul finire di settembre, moriva lo scrittore e pittore Emilio
Tadini, lui, non credente, in una intervista nella trasmissione
"Uomini e profeti", condotta da Gabriella Caramore
su "Rai Radio Tre" cinque anni fa, parlando di
Van Gogh, diceva: "Viene in mente quel suo quadro che
si chiama 'I mangiatori di patate', dove dei poveri contadini
sono radunati intorno al tavolo per una cena, che consiste
appunto solo in un piatto di patate. Ma in questo straordinario
quadro si manifesta una specie di "eucaristia laica",
come se stessero officiando il rito della consacrazione
di questo povero cibo. La luce della lampada a petrolio
che sta sopra il tavolo sembra una luce straordinaria mistica".
Chissà che la preghiera non possa essere evocata
anche come "luce della lampada a petrolio". Sopra
il tavolo e sopra la vita.
don
Angelo
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