L'OTTAVO
SACRAMENTO, IL SACRAMENTO DIMENTICATO
Forse
quella cena, la più ricordata nella storia e la più
rivissuta - disse: "fate questo in memoria di me"-
non fu di giovedì santo, come a lungo abbiamo pensato.
Con ogni probabilità fu di martedì, anche
quello dunque santo, secondo il calendario degli Esseni
che di martedì erano soliti celebrare la loro cena
pasquale.
Noi la rivivremo tra pochi giorni e sarà di giovedì
santo. Poco importa. Non sarà questo a impoverire
la misura della memoria. O dell'emozione.
C'è un'emozione che tocca la pelle nella Messa del
giovedì santo. In tutte le Messe certamente, ma,
in quella sera in modo particolare, noi gente di naufragio
ci sentiamo fedeli alla consegna: "fate questo in memoria
di me". Una consegna nata da quella cena celebrata
in una notte d'aprile, nella grande stanza, arredata con
divani, al piano superiore della casa.
La città, la mia città, anche quest'anno,
si farà deserta nell'occasione per il grande esodo
di fine marzo. E la cena, cena per pochi, sarà lontana
da regie fastose, lontana da co-reografie imponenti. L'emozione
sarà tutta per il pane spezzato e per il calice del
vino. Il fuoco del mistero, il roveto ardente, sarà
lì e non altrove. Lì e non altrove l'emozione.
Dobbiamo però subito aggiungere a scanso di tradimento
- quello di Giuda non è l'unico - che la cena del
Signore è in pericolo, sempre in pericolo fin dall'inizio.
In pericolo di riduzione, di impoverimento a rito.
Enzo Bianchi, il priore del monastero di Bose, poche settimane
fa, ci ricordava che, in modo scandaloso, il quarto vangelo
non parla dell'istituzione dell'eucaristia. Uno scandalo
che ancora rimane. Come è possibile il silenzio?
"È possibile" ci diceva "perché
Giovanni scrive il vangelo ormai dopo gli anni novanta e
vede che nella chiesa l'eucaristia è diventata un
rito: si spezza il pane e si accede al calice, ma non c'è
più un servirsi l'un l'altro nella comunità.
E allora Giovanni sostituisce il racconto dell'istituzione
del banchetto eucaristico con il racconto della lavanda
dei piedi. E ricalca le parole di Gesù.
Nel racconto del banchetto, così come è ricordato
dagli altri evangelisti, Gesù aveva detto: "fate
questo in memoria di me". Nel racconto di Giovanni
Gesù dice: "Avete capito quello che vi ho fatto?
Se io, il signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi,
anche voi dovete lavarvi i piedi l'un l'altro. Infatti vi
ho dato l'esempio, perché, come io ho fatto, facciate
anche voi".
Fate il banchetto, fate la lavanda dei piedi.
E perché non equivocassimo sul segno, quasi a mettercene
in guardia, al presente e nella generazioni future, e perchè
il gesto rimanesse nella memoria dei discepoli, Gesù
"si alzò da tavola, depose le vesti e, preso
un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò
dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi
dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si
era cinto".
Era il gesto del servo. Oggi nelle celebrazioni è
diventato per lo più una finzione: si lavano i piedi
già lavati e spesso anche profumati. Così
il gesto ha perso ogni profezia e provocazione.
Era, quello di Gesù, il gesto del servo che conosce
la stanchezza di chi ha camminato a lungo per strade disagiate
e polverose. Versare l'acqua, lavare i piedi è ristoro
alla stanchezza degli umani.
Lavare i piedi di chi è stanco: ottavo sacramento.
Sacramento non ricordato nell'elenco delle chiese, eppure
istituito da Gesù con un gesto luminoso, esplicito,
"il vero sacramento cristiano" scrive il teologo
e pastore valdese, nostro amico, Paolo Ricca "il sacramento
che più degli altri e meglio degli altri attualizza
la presenza di Gesù in mezzo ai suoi. Se vuoi essere
in comunione con Gesù, lava i piedi degli altri,
lava i loro piedi. Come sapete, però, proprio questo
è il sacramento che la chiesa, tranne alcune poche
eccezioni, non ha adottato, omissione significativa".
"Lavare i piedi", ottavo sacramento. O se volete
"essere servi" come Gesù è stato
"servo". E di questo, del suo essere servo, ha
fatto il titolo più significativo della sua vita.
"Voi" disse "mi chiamate il maestro e il
signore, e dite bene". Ma subito, a scanso di equivoci,
aggiunse che il suo vero titolo era impresso a memoria in
quel gesto, mani che lavano piedi. Sintesi estrema, ultima,
senza fraintendimenti, dell'intera sua vita.
"Conosciamo Gesù in molti modi" scrive
Paolo Ricca "lo conosciamo come Signore, Redentore,
Salvatore, Figlio di Dio, Figlio dell'uomo, guaritore, liberatore,
profeta, Dio in persona, rivelatore e via dicendo, ma non
lo conosciamo come "diacono", cioè come
"colui che serve". È questo il paradosso
da segnalare subito: non diamo a Gesù l'unico titolo
che egli si è certamente dato, l'unica funzione che
si è sicuramente attribuita, quella di "servo".
"Io sono in mezzo a voi come uno che serve" (Lc
22, 27).
Perché questa omissione? Questa omissione del titolo
di "servo" e, insieme, questa omissione dell'ottavo
sacramento?
Dobbiamo riconoscere che titoli come "servo" o
"colui che lava i piedi" non sono di moda né
godono di buona reputazione nel nostro mondo, nella nostra
società in cui hanno ben altro successo i titoli
che segnalano i vincenti o i rampanti.
Ma ciò che sconcerta e muove scandalo è che
già ai tempi di Gesù, già da quella
sera così carica di emozioni, paradosso dei paradossi,
proprio all'interno di quella cena - ancora erano seduti
a tavola, ancora avrebbe dovuto indugiare negli occhi il
gesto del banchetto, gesto a memoria di un rabbi che si
dà come pane, ancora stava appeso il mistero al fiato
dei lumi della sala - paradosso dei paradossi, scoppiò
tra i discepoli una discussione su chi fosse tra loro il
più grande. A un fiato dalla cena.
Sconcertante come già la prima di quelle ininterrotte
cene fosse stata violata, nella sua essenza più profonda
non solo dal tradimento di Giuda, questo sì ricordato
a memoria per tutti i secoli dei secoli, ma violato, sconsacrato
dai discorsi di grandezza degli altri. L'evangelista Luca
appone i due tradimenti, quasi legandoli ad un unico filo,
versetto a versetto: la discussione sul tradimento e la
discussione, anzi la contesa su chi di loro fosse da ritenere
il più grande. E Gesù. "Chi è
più grande? Chi sta a tavola o chi serve? Non è
forse chi sta a tavola? Ora io sto in mezzo a voi come chi
serve".
Il rischio della Cena. Ed era la prima. E giù giù
per i secoli. Fino ad oggi. Celebrare il rito importando
sogni di supremazia e grandezza.
Ricordando in questi giorni su "Avvenire" i quarant'anni
dell'introduzione della Messa in lingua italiana, Mons.
Piero Marini, Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie,
ripercorreva nella memoria i tempi in cui ogni domenica
nella sua cattedrale c'era tutto un grande apparato per
la celebrazione del pontificale del Vescovo. La celebrazione
iniziava con il caudatario, il Vescovo con la cappa e l'ermellino,
il rito nella sagrestia di togliere i calzari al vescovo
e mettergli le scarpe per la celebrazione. Poi nel proseguire
del rito il Vescovo che diceva la Messa per suo conto e
l'assemblea abbandonata a se stessa.
Certamente crea sconcerto, come annota Mons. Marini, quella
frattura tra il celebrante e il popolo. Ma come non sentire
altrettanto sconcerto per aver introdotto nel memoriale
di Gesù costumi così paradossalmente contrastanti?
Non dovremmo avere tutti, popolo di Dio e chi presiede,
dentro e fuori del rito, l'immagine del servo, di colui
che lava i piedi, i piedi stanchi, troppo stanchi di questa
nostra umanità?
È vera la celebrazione se ne usciamo con l'immagine
del servo. "Meglio diventare servi gli uni degli altri"
diceva Enzo Bianchi "che fare un rito senza lavarci
i piedi gli uni degli altri".
Ma come dare forma al mandato di Gesù, legato all'asciugatoio
e al catino d'acqua, mandato che è una consegna,
la consegna di servire?
Innanzitutto, direbbe Paolo Ricca, ricordando che servire
è sempre in prima istanza servire una persona, non
un'idea, un programma, un'istituzione o altra realtà
collettiva. Conosciamo purtroppo tutti l'inganno di coloro
che, perché non amano veramente nessuno, pensano
di amare Dio o l'umanità intera.
In seconda istanza, ricordando il particolare, che particolare
non è, che Gesù, lavando piedi, nel suo gesto
ha consacrato un'attenzione per corpi, per il corpo e non
solo per l'anima, per i corpi di un'umanità stanca.
Sollevate, sembra dire, la stanchezza che pesa su questa
umanità. Non passate con indifferenza. I vostri occhi
siano pronti a cogliere le pesantezze che segnano i volti,
troppi volti, i carichi che fanno curve le spalle, troppe
spalle, il peso di chi ritorna a casa la sera ad ore tarde,
sempre più tarde, il peso spesso dimenticato di chi
ha faticato senza soste nelle case, la sfinitezza di chi
è stremato dai problemi, la disperazione di chi non
ha di che vivere...
E date, come potete, là dove potete, un gesto che
sia sollievo, una parola che dica vicinanza. Lavate i piedi
a chi ritorna dai polverosi, estenuanti, cammini della vita.
È il mandato del Signore, è la consegna della
cena, è l'ottavo sacramento, sacramento dimenticato.
don
Angelo
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