articoli di d. Angelo


 

TEMPO PER TACERE, TEMPO PER GRIDARE

Coloriamo le stagioni di un solo colore. Anche nella liturgia. E se è Avvento, se è Quaresima, sia colore violaceo, come le viole più umili, e solo quello. Se è Natale, se è Pasqua di risurrezione sia bianco, come la leggera trasparenza della luce, e solo quello. Se è Pentecoste sia rosso, come di fuoco che scende e non si consuma, e sia solo quello. Per ogni stagione un solo colore, non si addice altro.
E forse già è grazia che ci siano colori diversi ad ogni stagione, ora che il pericolo strisciante è quello dell'omologazione, un'omologazione imperante, quasi un impero. E non ci sono frontiere, né ecclesiastiche né civili, a fermarla, quasi fosse in possesso di passaporto diplomatico.
Ma siamo poi così sicuri che ad una stagione si addica un solo colore? O non è forse vero che ogni stagione è tempo per una cosa, ma anche per un'altra e addirittura il suo opposto?
Tra i testi della Bibbia di indubbio fascino molti di noi ricordano una pagina del libro del Qoelet, libro di una laicità e di un realismo spaesanti.
Più volte mi sono chiesto se il fascino del brano fosse da ascrivere a una sorta di seduzione letteraria. Confesso la seduzione, ma il fascino l'oltrepassa, e va alla verità di cui il testo è intriso, una verità che fa tutt'uno con la bellezza che si dilata nel ritmo dei versi fino a cadenzarli.
Trascrivo pochi versetti del capitolo terzo. A seduzione degli altri, che ognuno rincorrerà nel libro:

"C'è un tempo per nascere
e un tempo per morire,
un tempo per piantare
e un tempo per sradicare,
un tempo per rompere
e un tempo per costruire,
un tempo per piangere
e un tempo per ridere,
un tempo per far lutto
e un tempo per ballare,
un tempo per cercare
e un tempo per perdere,
un tempo per tacere
e un tempo per parlare".

Gli esegeti, che toccano con passione e devozione le parole scritte del libro, perdoneranno, a memoria di benevolenza, questa mia lettura forse estranea, periferica. Io infatti vorrei leggere il terzo capitolo del Qoelet anche come un invito alla non semplificazione. Come se ad un tempo si addicesse, che so io, solo il piangere o solo il danzare e non paradossalmente a volte, l'uno accanto all'altro, accanto al suo opposto.
Se la cosa da fare fosse una sola, sarebbe certo più facile, meno arduo, meno problematico il vivere. Ma anche più monotono. Pagheremmo in monotonia il prezzo: il colore è quello, e quello rimane.
Il brano del Qoelet mi risuona invece dentro come un appello a vigilare: nello stesso tempo infatti puoi essere chiamato a danzare e anche ad astenerti dagli abbracci, a lottare e a gettare semi di pace, a tacere e ad alzare la voce. E non possiamo, non ci è consentito, per la fatica di decifrare e di scegliere, rimanere sospesi.
Ce lo ricordava Detrich Bonhoeffer, pastore evangelico, ucciso di lager per il suo grido alla libertà:

"Fare e osare non qualunque cosa,
ma la cosa giusta;
non restare sospesi nel possibile,
ma afferrare arditi il reale;
non nella fuga dei pensieri,
ma nell'azione soltanto è la libertà.
L'obbedienza sa cosa è bene,
e lo compie.
La libertà osa agire,
e rimette a Dio il giudizio
su ciò che è bene e male.
L'obbedienza segue ciecamente,
la libertà ha gli occhi ben aperti.L'obbedienza agisce senza domandare,
la libertà vuole sapere il perché.
L'obbedienza ha le mani legate,
la libertà è creativa.
Nell'obbedienza l'uomo osserva
i comandamenti di Dio,
nella libertà l'uomo crea
comandamenti nuovi.
Nella responsabilità
trovano realizzazione entrambe,
l'obbedienza e la libertà".

Nello stesso tempo, negli stessi giorni, quasi nella stessa ora noi possiamo essere chiamati al silenzio e alla parola. A tacere e a gridare.
Il tempo della quaresima, che stiamo attraversando, nel nostro immaginario per lo più è d'istinto evocato come tempo di silenzio. E non è chi non veda la preziosità, quasi l'urgenza di uno spazio interiore, della fuga dalle chiacchiere vuote, dai salotti del nulla.
In questi giorni ricorreva l'anniversario, il dodicesimo, della morte di un mio caro amico, Don Isidoro Meschi. La sera odorava a febbraio una notte di tradimento, quando morì di lama, pugnalato ai cancelli della sua comunità terapeutica, da uno dei suoi ragazzi.
Scrivendo oggi di silenzio, nell'aria greve di guerre preventive, mi ritrovo negli occhi il suo volto, il suo volto e il suo silenzio, un silenzio pieno.

E noi
tra fotogrammi spenti
oscuramento d'umanità
su sabbie smemorate
grigie erbe
incrudite di guerra,
osiamo, Lolo, dopo anni
il tuo volto.
Osiamo il tuo silenzio
nei nostri convegni del nulla,
nei salotti del vuoto
mediatico.
Osiamo i tuoi occhi
veri
sedotti dall'Altro,
uomo della parola
senza incatenamento
tra giullari e profeti di corte,
lontano dai palchi
dell'ostentazione ecclesiale.

Un tempo per tacere. E paradossalmente il tempo per tacere può diventare, per urgenza incontenibile - urgenza di vangelo e di umanità - tempo per alzare la voce. Perché il silenzio non sia di viltà e di colpa.
Penso a coloro che oggi alzano il grido contro lo strumento della guerra. Abita i loro occhi un sogno. Accende il volto dei giovani. E io, vecchio d'anni, mi innamoro a guardarli e prego che la brutalità degli umani non li cancelli. Cancellare i sogni è stupro d'umanità. E che accada uno scarto, un dirottamento salutare. Dalle vecchie vie alle nuove. E che siano protagoniste, protagoniste in invenzione, le nuove generazioni.
E diventino protagoniste - anche questo è un sogno - finalmente le donne. Paghiamo duramente - e forse non misuriamo il prezzo - l'esclusione del femminile, là dove si conta e si decide.
Posso sbagliarmi, ma persisto a pensarlo, fino a smentita, che una presenza femminile aprirebbe, e sarebbe grazia, percorsi e vie nuove, a segno di umanità.
Tempo per tacere e tempo per alzare la voce e nella stessa ora. Perché il silenzio non sia a disonore e a colpa.
L'apertura degli archivi vaticani ha portato alla luce in questi giorni documenti drammatici. Tra i documenti ritrovati una lettera di Edith Stein al Papa, perché la chiesa non si macchiasse di silenzio, davanti ai governanti, che per disegno di sterminio abusavano del nome di Dio. Donna del silenzio, dell'interiorità, e, insieme, donna della parola, del grido Edith Stein.

Nello stesso tempo chiamati a una cosa e al suo opposto: tempo di digiuno - comunemente si dice della quaresima - ma insieme tempo di danza. Di digiuno per essere più diafani, più trasparenti a Dio e all'umanità: "Perché una volta sazio non ti rinneghi" - è scritto - "e dica: chi è il Signore?" (Pr 30,9).
Dei sazi, sazi di cibo e di orgoglio, è detto nel salmo con parole di drammatica attualità:

"Non c'è sofferenza per essi,
sano e pasciuto è il loro corpo.
Non conoscono l'affanno dei mortali
e non sono colpiti come gli altri uomini.
Dell'orgoglio si fanno la collana
e la violenza è il loro vestito.
Esce l'iniquità dal loro grasso,
dal loro cuore traboccano parole malvagie,
scherniscono e parlano con malizia,
minacciano dall'alto con prepotenza"
Sl 72 (73)

Il digiuno dal cibo, dall'orgoglio, il digiuno dall'io prevaricatore. E la danza: "Quando digiuni" - ammoniva Gesù - "profumati il capo" (Mt 6, 17). E ancora: "Possono forse digiunare quando lo sposo è con loro?" (Mc 2, 19).
Come a dire: se il regno di Dio è giunto fino a noi, guardati dal mugugno, dalla lamentosità, dal grigiore del volto.
"Il Signore faccia brillare su di te il suo volto", dice il libro. E sia profumo. "E ti conceda la pace" (Nm 6, 25-26).
Sì, faccia brillare il Signore su di noi il suo volto e ci conceda la pace.

don Angelo


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