E
SE FIORISSERO LE VIOLE ALL'INFERNO?
Uno,
due, tre volte. Da mondi diversi, da voci diverse: la reazione
immediata di un amico, un giovane architetto; la lettera-confessione
dell'Arcivescovo; la riflessione ad alta voce di un pastore
teologo della chiesa valdese.
Uno, due, tre. Come rintocchi di campane, a segnalare, a
chiamare, a richiamare.
Uno, due, tre, come una corda a tre capi. Annota il libro
del Qoelet: "Una corda a tre capi non si rompe tanto
in fretta". Non si rompe nemmeno il filo dei pensieri.
Ed è grazia che resista.
Le voci dell'amico, del cardinale, del pastore vanno nella
medesima direzione e dicono l'urgenza di togliere armature,
di ricondurci all'essenziale, di ritornare -ritornare non
è forse il verbo della conversione?- al Gesù
dei vangeli.
L'
incontro è finito da poco, finito, si fa per dire.
C'è il "rito" dei saluti, e non sono d'occasione.
Lo leggi dalla luce degli occhi, dalla forza della stretta
di mano. Vivi, al termine dell'incontro, una sorta di complicità.
Come se ci si scambiasse nel silenzio sintonie di pensieri
ed emozioni.
L'incontro è finito: l'amico, il giovane architetto,
ti cerca, ti parla prima con gli occhi. Lo ascolti prima
negli occhi, poi nell'emozione delle parole. "A volte"
-dice- "mi immagino che Gesù ritorni tra noi,
lui così semplice e immediato e penso alla sua meraviglia,
al suo stupore per tutte le nostre costruzioni teologiche,
le nostre complicazioni ecclesiastiche, le nostre contorsioni.
Penso che rimarrebbe stralunato".
Lo guardo. Capisco, patisce la distanza tra gli occhi vivi
e le pagine stanche. I suoi occhi combaciano -si baciano-
con le pagine vive del vangelo, lampi non monumenti.
Le
parole di Giuseppe. Ed era come se a rintocco si aggiungesse
rintocco, rintocco di campana. In questo stesso salone,
giorni prima, il teologo valdese Paolo Ricca aveva ripreso
la "parabola" di Davide, che si illude di vincere
vestendosi di un'armatura, ma poi si accorge che, vestito
dell'armatura, ha finito per sempre di camminare.
Chiesa in cammino e armatura non combaciano. Cristiani in
cammino nel mondo e armature non combaciano.
Rintocchi
di campane, fili che s'aggiungono a fili. Il primo filo,
nel tempo, è custodito nella lettera del nostro Vescovo,
"Sulla tua parola", la lettera ha una data 15
agosto 2001.
La letteraconfessione non teme le domande. E le domande
sono per noi. Domande per il cammino di ciascuno, domande
per il cammino della Chiesa, interrogazioni che non nascondono
una misura di ansia: "ma ciò che stiamo facendo,
ciò che stiamo proponendo è davvero secondo
il Vangelo? Non stiamo per caso tradendo il mandato di Gesù?
Non corriamo il rischio di trascurare ciò che è
essenziale? Non ci lasciamo ingannare dalla routine, dalla
pigrizia, dal vano timore, dall'amore dei nostri comodi,
dallo spirito mondano?".
Interrogazioni che lacerano il cuore, lo sfonderebbero,
se a salvarci non fosse la misericordia, salvi per misericordia.
"Trascurare l'essenziale, tradire il mandato":
pericoli e non solo ipotetici.
La Pasqua che oso sperare vicina, ora che gli occhi vanno
a scavare con desiderio biancori anche minimi nelle gemme
del mandorlo, ricorda l'essenziale: Gesù morto e
risorto, il mio Signore, il mio unico Signore.
"Io non so nient'altro, nient'altro che Gesù
crocifisso": diceva Paolo. Noi invece sappiamo! "La
grande disgrazia di credere di sapere qualcosa" (Christian
Bobin). E ci sfugge ciò che sta all'inizio.
La nostra presunzione di sapere ci ha condotto ad esiti
stupefacenti, quello, per esempio, di mettere sullo stesso
piano, dando la stessa misura di essenzialità, Gesù,
la Madonna, i Santi, la fede in Gesù e l'osservanza
delle tradizioni. Non leggiamo la Bibbia ma ascoltiamo le
visioni. Corriamo dietro rivelazioni ma non sostiamo al
grande svelamento: il velo del tempio si squarciò
in due dall'alto in basso. E fu grande svelamento della
Parola in cui tutto è contenuto e custodito: "È
risorto il Crocifisso". La vita dunque la guadagna
chi la dona e il senso della vita è donarla.
Non
abbiamo forse tradito il mandato di Gesù? E non è
forse questo il mandato: "Ho lavato i vostri piedi.
Sarete beati se farete altrettanto"?
Se lo farete non solo il giovedì santo, negli incensi
delle chiese, lavando piedi riposati e per l'occasione profumati.
Sarete beati se avrete occhi per accorgervi dei piedi stanchi,
se vi accorgerete da quali lunghi estenuanti viaggi vengano
spesso uomini e donne del nostro tempo, da quali notti di
stanchezze, dai pianti dei neonati, dalle piaghe e dai lamenti
dei vecchi di anni, dalle notti delle delusioni, degli insuccessi,
della faticosa ricerca di un senso.
Sarete beati se leggerete la stanchezza nella voce che non
esce, negli occhi piegati, nel ricurvo delle spalle. Se
solleverete la stanchezza degli uomini e delle donne che
la vita vi farà incrociare, la stanchezza dei corpi,
la stanchezza dello spirito.
Lavare i piedi, sollevare la stanchezza è il mandato
scritto nell'essenza, nell'essenzialità della Pasqua.
E se una chiesa non lava i piedi stanchi, se la chiesa alle
tante, troppe, complicazioni della vita vi aggiunge le sue,
se dà di sé l'immagine asfissiante di certi
accademici dello spirito, che senso potrà avere ancora
per i volti scavati, scavati e stanchi, degli uomini e delle
donne del nostro tempo?
L'immagine stessa del Signore crocifisso -dobbiamo confessarlo-
è stata a volte purtroppo usata non per sollevare,
ma per aggiungere pesantezza, non per infondere fiducia,
pace, ma per aggravare il peso.
La
Pasqua del Signore non è l'esaltazione, la celebrazione
della pesantezza della vita, ma della pietra rimossa.
È il sigillo di Dio su una vita promettente, la vita
umana del Suo figlio, sull'interpretazione che alla sua
vita diede il Rabbì di Nazaret, su quel suo modo
di essere uomo, a dispetto del giudizio dei cosiddetti sapienti
e potenti.
"Noi" -ci ha detto Paolo Ricca- "spe-cialmente
in Italia, siamo dominati dal Crocifisso. Ma Gesù
non è solo l'uomo in croce, è anche l'uomo
che vive, parla, chiama, redarguisce, consola, ascolta,
si mette a tavola con altri, e così via. Insomma:
Gesù non è solo una morte, è una vita.
E non è vita angelica, è una vita umana, vissuta
su questa terra, nelle condizioni che tutti conosciamo,
è vera umanità, non eccezionale, ma comune,
specchio dell'umanità di Dio. E siccome tutti viviamo
e la vita è comunque ciò che ci accomuna,
qualunque sia la nostra fede -religiosa o laica che sia-
o anche il nostro agnosticismo o scetticismo, ecco che la
vita di Gesù può essere un terreno, se non
di incontro, almeno di confronto con tutti coloro che sono
alle prese con il mestiere di vivere. C'è una bella
e giustamente famosa affermazione di Bonhoeffer, nella sua
ultima lettera dal carcere, 14 agosto 1944: "se la
terra è stata degna, un giorno, di portare l'uomo
Gesù Cristo, se è vissuto un uomo come Gesù,
allora e soltanto ha senso per noi uomini vivere".
Cioè, se capisco bene, il modo in cui Gesù
è vissuto rivela che la vita ha un senso, rivela
che è possibile dare un senso alla vita. La vita
non ha in sé un senso ma è possibile dargliene
uno".
Entrare nella vita non con la pesantezza di certi titolari
dello spirito, ma con la leggerezza, che non è vaghezza,
del Signore risorto.
È
affascinante rileggere i vangeli della risurrezione e assistere
con sorpresa al passaggio lieve del Signore che continua
i suoi gesti con una luminosità nuova: dare pace
a chi ha tradito, asciugare il pianto delle donne, accompagnare
i discepoli sulla strada diventata ombra, cuocere il pesce
sulla brace del litorale per i sette che portavano volti
consumati dalla fatica di una pesca inutile nella notte.
E lui, ancora una volta, a lavare la stanchezza, a sollevare
la fatica della vita.
La Pasqua è il segno di Dio sulla vita. Abbiamo,
senza accorgercene, sostituito alla vita lo scontro sulla
verità, o meglio, su una verità impoverita
a esattezza, esattezza di parole. E la verità impoverita
ha deluso gli occhi, ha conosciuto allontanamenti, ha visto
scuotere del capo. "È una verità"
-direbbe Christian Bobin- "che, una volta arrivata,
è sfinita e non ha più quasi nulla da dirci.
Questo quasi nulla è un tesoro".
Altra è la verità della Pasqua, che già
profuma nell'attesa. È la verità che apre
gli occhi e il cuore, i nostri, sul calore della brace.
"La verità" -scrive ancora Bobin- "è
ciò che arde. La verità non è tanto
nella parola, ma negli occhi, nelle mani, nel silenzio.
La verità sono occhi e mani che ardono in silenzio".
Che siano quelli di Gesù? Il punto interrogativo
è della donna al pozzo di Sicar. E ha più
forza di tante nostre affermazioni.
La brace, le sabbie sorprese dal calore sul litorale. E,
chissà, le viole fiorite all'inferno. Terrò
custoditi nel cuore in questi giorni i pochi versi luminosissimi
di Domenico Ciardi, un amico monaco del monastero di Bose,
"Paschalis lauda":
Oggi
il gemere d'ogni silenzio e d'ogni voce
è fatto canto grande di bellezza
anche all'inferno fioriscono le viole.
don
Angelo
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