articoli di d. Angelo


 

E IL VENTO SFOGLIAVA IL VANGELO

Ora rientriamo a casa. Abbiamo abitato le piazze. La verità è nel ritorno a casa. O, meglio, nel come ritorniamo a casa. E se abbiamo visto qualcosa, non sia un ritornare come se nulla fosse accaduto. Dentro di noi.
Anche ai discepoli sul monte, quando Gesù nel suo innalzarsi fu loro sottratto da una nube che lo nascose per sempre - oggetto di nostalgia insonne per noi che non abbiamo occhi a lacerare la nube - anche a loro l'invito degli angeli fu preciso, così preciso che non si poteva equivocare. Che non rimanessero estatici a guardare il cielo, ma ritornassero alla città, alla vita, alla terra: "Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo?"
Ora rientriamo a casa. E che sia vangelo. Sia fedeltà al vangelo.
Se cerco di indagare nel mio cuore, se oso nel silenzio chiedermi che cosa sia rimasto dopo aver abitato le piazze, la piazza del funerale del Papa Giovanni Paolo II, la piazza della elezione del Papa Benedetto XVI, se oso la domanda nel mio cuore - nel tuo ci saranno, e legittime, altre risposte - confesso che nel mio cuore è rimasto, quasi acuito dagli avvenimenti, impetuoso, un bisogno che si ritorni, che io per il primo ritorni, al vangelo. Ritornare a casa e, insieme, ritornare al vangelo. Perché non sia stato esercizio vano abitare le piazze.
Ne sentii il bisogno, quasi un urlo, urlo e ferita nella carne, proprio il giorno in cui il Papa si affacciò, prima volta, alla sua chiesa pellegrina e all'umanità, carovana in cammino nel tempo.
Davanti al grande schermo, nello scantinato del nostro oratorio, si era radunata quella sera una piccola folla di bambini, di papà e mamme, di nonne e di nonni. L'attesa era vibrante, era sulla pelle: prima la finestra, poi il nome, poi un volto e la veste bianca, forse fuori misura, o a misura standard delle sartorie vaticane. Poi le braccia benedicenti, quasi intimidite, cariche di peso.
"Dormirà nella notte?" mi chiesi. E nella memoria mi corse quanto capitò a un vecchio papa di "transizione", Giovanni XXIII, nella sua prima notte da papa. Era dura fatica dare riposo agli occhi. Poi si disse: "Non sei tu, Giovanni, a portare sulle spalle la chiesa. Sulle sue spalle la chiesa la porta lui, il Signore". E fu sonno liberatore.
Il Papa benediceva. Ed era buona notizia. Ma subito, ti dicevo, ecco l'aprirsi di una ferita, perché di ferita si trattò, per le parole di una nonna. "Era il Papa che ci voleva" disse " un Papa soldato. Ci voleva un Papa soldato!". Le risposi, e le parole si caricavano d'emozione e forse anche di indignazione, che non abbiamo nessun bisogno di un Papa soldato, bensì di un Papa pastore.
E che leggessimo il vangelo, leggessimo di Gesù e di come si dileguasse, scomparisse immancabilmente nel nulla, ogni qual volta percepiva nell'aria un benché minimo desiderio di farlo re.
L'immagine della nonna, l'immagine di un Papa soldato era ferita al cuore, ma anche al vangelo. Ferita anche all'immagine che di sé il Papa aveva dato poco prima definendosi "umile servitore della chiesa".
Perché mi chiedo - ma la domanda non ha senso per coloro che inseguono la potenza dell'uragano - perché mai, nel cuore di molti di noi, tra le tante immagini che si sono rincorse in quei giorni, una è rimasta inviolata, a seduzione, e ancora oggi molti di noi si provano a raccontarla, l'immagine di una bara, di legno chiaro, posata sulla terra, libera da orpelli, vestita di nudità, luminosa nella spoliazione? E il vento a sfogliare su quella bara il libro del vangelo. Non era forse in quella immagine l'eredità da accogliere e tramandare, la più preziosa?
Quel vento, che invisibile spingeva fogli sulla bara, non era forse invito ad aprire il libro? E anche, diciamocelo, a percepire la distanza, la nostra, da quel libro, dal vangelo di Gesù?
Quante volte si agisce e si celebra, a libro chiuso, come se non ci fosse il vangelo .Troppe cose purtroppo, intorno a quella bara, gridavano la distanza da quelle pagine. Troppe cose nella nostra vita personale ed ecclesiale gridano la distanza da quelle pagine. Come se le pagine fossero consegnate a un libro chiuso. È così che si arriva a sognare un papa soldato. E quasi non si avverte distanza e stridore.
Lo avvertono i puri di cuore, quelli che ancora non hanno subito o hanno resistito al plagio dei modelli mondani, all'arte ingegnosa del compromesso.
Se ferita, ferita al cuore e al vangelo, fu l'e-sclamazione della nonna, grazia, sussulto al cuore e fermento di vangelo fu la domanda degli occhi neri di Giovanni, un ragazzino dei nostri, che, mentre sullo schermo scorrevano le immagini imponenti del funerale del Papa, chiese alla mamma: "Ma quando morì Gesù, successe tutto questo?"
La domanda, la domanda di un ragazzino, misura la distanza. Il vento sfoglia pagine di vangelo nei suoi occhi neri.
E non è forse vero che Papa Benedetto stesso, quando ancora era cardinale, nelle meditazioni dettate per la Via Crucis dello scorso Venerdì Santo, aveva confessato con parole, che parvero di denuncia coraggiosa, la distanza, anche di una chiesa, dal vangelo?
"Quante volte" scrisse "le insegne del potere portate dai potenti di questo mondo sono un insulto alla verità, alla giustizia e alla dignità dell'uomo! Quante volte i loro rituali e le loro grandi parole, in verità, non sono altro che pompose menzogne, una caricatura del compito cui sono tenuti per il loro ufficio, quello di mettersi a servizio del bene… Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa chiesa? Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c'è in tante teorie, quante parole vuote!".
Il richiamo sembrò ad alcuni forte e impietoso. Era un richiamo alla vita. Dal monte di Galilea Gesù non ci ha mandati a dire parole, a fare discorsi, a scrivere documenti. Ci ha mandati ad aprire cammini, cammini di vita. Dietro le orme. E le orme, le orme di Gesù - ci ha ricordato nella celebrazione del suo 25° di episcopato in Duomo il Card. Carlo Maria Martini - sono segnate, e dunque rintracciabili, nel discorso della Montagna. "Parole" diceva "che nessuno può rifiutare perché ci parlano di gioia, di beatitudine, ci parlano di perdono, ci parlano di lealtà, ci parlano di rifiuto dell'ambizione, ci parlano di moderazione del desiderio di guadagno, ci parlano di coerenza nel nostro agire ("sia il vostro parlare sì, sì; no, no"), ci parlano di sincerità. Queste parole, dette con la forza di Gesù, toccano ogni cuore, ogni religione, ogni credenza, ogni non credenza. Nessuno può dire: "Non sono per me. La sincerità non è per me, la lealtà non è per me, il lottare contro la prevaricazione sui beni di questo mondo non è per me…". È quel discorso che ci permetterà di vivere insieme da diversi, rispettandoci, non ghettizzandoci, non distruggendoci, nemmeno tenendo le dovute distanze, ma "fermentandoci" a vicenda".
Ritorniamo dal monte. Ritorniamo dalle piazze. Per aprire cammini. Dietro le tracce. Ma che siano del vangelo.
Ritorniamo e ci rimormorino nel cuore le parole dell'apostolo Pietro che abbiamo riascoltate in una di queste domeniche, parole per coloro che desiderano essere fedeli al mandato.
Scrive Pietro: "Pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con retta coscienza" (1 Pt 3, 15-16).
Se siamo profeti di sventura, quale curiosità o quale domanda potremo mai suscitare nella carovana degli uomini e delle donne del nostro tempo? La chiesa dei profeti di sventura non ha futuro. Una voce in più, nel coro di tutti.
Ma se tu sarai fuori coro, perché donna e uomo di speranza, sì, proprio tu che lotti e ti appassioni, allora potrai rispondere a chi ti chiederà ragione della speranza che è in te.
Ma ricorda le parole di Pietro che seguono, ricordale perché troppo a lungo le abbiamo scordate lungo i secoli: "Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con retta coscienza". Non urlando le cose di Dio, non brandendo la fede come una clava, non umiliando e offendendo. Se facciamo questo, abbiamo scordato le orme di Gesù. Ma con dolcezza e rispetto, con retta coscienza.
Su questo stile, che è fedeltà alle tracce, si gioca quotidianamente l'immagine delle chiesa di Gesù.
C'è chi si illude di costruire la chiesa esaltandola a parole e c'è chi la costruisce nascostamente, pazientemente ogni giorno indossando ogni giorno lo stile proposto, a memoria, dall'apostolo Pietro. Il primo modello genera lontananze, il secondo suscita avvicinamenti.
Forse è quello che voleva confidarci il Card. Martini, che all'osservazione di un intervistatore: "Si ripete spesso, come uno stereotipo, che lei è persona schiva e riservata. Eppure ha saputo comunicare con efficacia..." rispondeva: "È vero che sono persona schiva e riservata e vivo volentieri anche nella solitudine. Però quando c'è da incontrare la gente mi piace farlo. Forse il dono della comunicazione che mi viene attribuito è dovuto al fatto che non mi reputo intelligente, sono un po' lento a comprendere e faccio fatica. E quando parlo ad altri comunico loro il mio cammino di intuizione. Chi è troppo intelligente lancia le sue idee sulla gente come se le avessero già capite. Chi fa personalmente fatica sa comunicare agli altri questa fatica e quindi forse si spiega meglio".
La dolcezza. Il rispetto, anche della fatica. La dolcezza, il rispetto del vento che sfoglia il vangelo.

don Angelo


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