ACCOMPAGNARE
LE STORIE D'AMORE
La
notizia era rimbalzata sui quotidiani, quelli che riservano
qualche attenzione alla cronaca della città. E annunciava
un sorpasso. Il sorpasso dei matrimoni civili su quelli
celebrati nelle chiese.
Fui tentato, in quei giorni, di scriverne. Ma non mi andava
di addentrarmi nel merito del sorpasso numerico. La questione
non stava certo in un punto di percentuale. Un punto di
percentuale in più o in meno. Come se ci si potesse
rallegrare o rattristare, da una parte e dall'altra, per
un punto in più o un punto in meno. E noi a misurare
distanze dal nastro di arrivo, quasi ci fosse da aggiudicarsi
l'ultimo sprint sul traguardo.
Forse scandalizzerò qualcuno, ma vi devo confessare
che della notizia del sorpasso non mi importò più
di tanto. La mia tristezza al contrario, se c'era e andava
esplorata, era se mai un'altra e veniva da altro.
Mi chiedevo: meno matrimoni in chiesa meno fede? È
in questione la fede?
Quando è in questione la fede, non dico la religione,
la fede, questo sentirsi sfiorati da un mistero, da una
benedizione e da una promessa, quando in questione è
la fede, non dico la nostra fede, una fede, un po' rattristato
mi sento. Come se avvenisse il contenimento del desiderio,
la restrizione dell'orizzonte, l'assalto dell'idolatria,
dare cioè assolutezza ai monumenti, ai manufatti
dell'uomo, alle ideologie degli umani. Dare assolutezza
all'immobilità. "Hanno piedi e non camminano":
canta irridendo il salmo.
Può essere anche che il sorpasso evocato segnali
una difficoltà per la fede o il venir meno della
fede. Ma forse c'è dell'altro. Chi di noi non conosce
uomini e donne che si sposano in comune e hanno fede, altri
che convivono e hanno fede? Perché allora lo spazio
laico del comune e non lo spazio sacro delle chiese? Forse
perché le loro situazioni matrimoniali sono ritenute
"irregolari" dalla chiesa? O forse perché
la ritualità, come è vissuta nelle chiese,
è pallida di richiami, incredibilmente ingessata,
a rischio di insignificanza?
Ci si illude - è cronaca di questi giorni - di salvare
la ritualità ingessandola, quando amore vero e custodia
del rito sarebbe non irrigidire i semi in scatole, ma, come
suggerisce il vangelo, liberarli nello spazio aperto dell'avventura
di una seminagione, a rischio terra.
La fede dunque o la non fede non è a misura di statistiche
o di sorpassi. Che cosa sappiamo noi delle storie segrete
che stanno dietro i gelidi numeri di una statistica? A che
cosa servono i burocrati che non sanno altro dire se non:
tu puoi, tu non puoi? Loro che, al dire di Gesù,
non solo non entrano, ma chiudono pesantemente agli altri
l'ingresso al regno di Dio. E come guarda Dio? Così
lontano lui dalle nostre burocrazie. Così lontano,
quando prese il volto di Gesù di Nazaret, dai burocrati
che proclamano: o noi o l'assenza. O in chiesa o non c'è
amore. Preoccupati più del contenitore che del contenuto,
troppo spesso arroccati nella difesa di scatole ormai vuote.
Non mi va di discutere di numeri. Ad appassionarmi è
la storia che vive dietro la scelta di varcare una soglia.
Quella del municipio o quella di una chiesa. Ma che cosa
pretendi di sapere se non dai all'altro il coraggio e la
gioia di raccontarsi, se non sei, nemmeno lontanamente,
uomo e donna di ascolto?
L'ascolto dell'altro, sia detto per inciso, un sacramento.
Dimenticato. Restituito a memoria nelle prime pagine del
suo romanzo da don Luisito Bianchi. "Mi parlavi dell'ascolto
degli uomini come di un sacramento che non era stato mai
istituito, solo perché era già stato conferito,
prima di Cristo a tutti e per tutte le epoche" (La
Messa dell'uomo disarmato, p. 8).
Sarebbe tempo che un po' tutti ci interrogassimo per esempio
su questa esitazione a sposarsi o su questo procedere a
tappe verso un matrimonio. E ci interrogassimo al di fuori
dei rigidi e fuorvianti schemi del tutto-niente. Forse dovremmo
chiederci se c'è un dono, se c'è una qualità,
se c'è una crescita, se c'è un addomesticamento
reciproco in questo cammino. O se c'è il nulla.
Scrive Xavier Lacroix in un suo libro: "Con la crescita
delle attese soggettive e affettive da parte della coppia
non pare sconveniente voler procedere progressivamente,
inserendo una certa gradualità nel cammino"
(Il matrimonio semplicemente, p. 62).
Sembra un invito a tutti noi a non sprecare tempo dietro
schemi interpretativi che non interpretano e lasciano tutto
come prima. Al punto di partenza. Accendiamo cammini o facciamo
lamento sul mondo? Condanniamo o accompagniamo?
Accompagnare vuol dire aprire significati dentro e non fuori
il cammino. Ci è stato affidato un tesoro inestimabile
nella Parola di Dio, nel vangelo di Gesù, messaggio
di libertà che rialza il capo, che suscita energie,
che inventa percorsi. Perché non riprendere il gesto
largo, la follia del seminatore del vangelo, che getta semi,
senza discernere, scommettendo nella forza che lo abita?
Accompagnare i cammini, così diversi, verso il matrimonio.
Ma accompagnare anche le storie che da quella celebrazione
si snodano dentro una stagione inquieta come la nostra.
Celebro matrimoni ed è sempre emozione non sgualcita.
Ma vedo anche sgretolarsi matrimoni. Sono giorni, questi
ultimi, in cui ne misuro il peso sui volti, negli occhi
invasi da strazio. Un desiderio tenero di accarezzare. Perché
non vinca l'incubo del fallimento. Ma si apra una strada
nuova.
"Sono dieci anni che siamo sposati" mi diceva
ieri Stefania. I suoi occhi chiari fissavano Davide, erano
abitati da una luce. "Stiamo diventando un'eccezione
fra i nostri amici. E non è stato un cammino tutto
rose e fiori nemmeno per noi". Li guardavo. Erano un
regalo, con il sole che bucava finalmente giorni di pioggia.
E andavo rincorrendo le parole "e non è stato
tutto rose e fiori nemmeno per noi". Mi ritornava d'istinto
l'immagine del vangelo, l'immagine delle due case. Nessuna
delle due al riparo da pioggia, da vento, da straripare
di fiumi. Non siamo esenti. Una resiste, una crolla.
Pioggia, vento, straripare di fiumi: è la vita. Non,
per grazia, tutta la vita. Ma parte della vita sì.
Le cause del fallimento, quelle vere e profonde, non sempre
sono riconoscibili, nemmeno da chi ne vive impietosamente
il dramma. Dio solo conosce e scruta il nostro cuore. Vorrei
con discrezione sfiorarne alcune, quelle che mi sembrano
emergere con violenza dalla stagione che siamo chiamati
ad attraversare.
Non sono le uniche certo, ma hanno, a mio avviso, un peso
su cui non possiamo sorvolare.
Chiamo la prima il mito dell'eccellenza. Inseguiamo il mito
dell'eccellenza, della perfezione, della bellezza assoluta.
Giudicati secondo i criteri dell'eccellenza, rischiamo l'e-sclusione
in base ai criteri dell'eccellenza: l'imperfezione dell'altro,
la sua fragilità, la non corrispondenza a un ideale
mitico, diventano cause deflagranti per una rottura.
Sedotti dal mito distruttivo della perfezione, siamo costretti
alla maschera dietro la quale nascondere quello che siamo.
Ma amare è essere accolti, non per la maschera, non
per il personaggio che interpretiamo, ma per quello che
siamo. Amore vero è quando tu mi ami così
come sono, anche nella mia fragilità e debolezza
ed io posso a te svelarmi, e sentirmi sorretto nel mio cammino.
Ci uccide, uccide l'amore il mito distruttivo dell'eccellenza.
Ci uccide, uccide l'amore,anche la nostra quotidiana dissennata
corsa contro il tempo, l'affanno da cui ci mette in guardia
insonnemente Gesù nei vangeli. Nella relazione, il
volto dell'altro, dell'altra, e non solo quello dei figli,
chiede tempo, chiede sosta, chiede incantamento.
"È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa
che ha fatto la tua rosa così importante": questo
il segreto che la volpe svelerà nell'ora dell'addio
al piccolo principe. "Gli uomini hanno dimenticato
questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu
diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.
Tu sei responsabile della tua rosa".
Il tutto subito, malattia contagiosa del nostro tempo, è
in controtendenza con il perdere tempo per l'altro, con
il prendersi cura. Eppure ognuno di noi sa che lo svelamento
viene da silenzi, viene da tempi pazienti, viene da fiducia
rinnovata. Viene anche da tempi di perdono, come suggerisce
Paolo nella prima lettera ai Corinzi. E sembra privilegiare
l'amore quotidiano, feriale, l'amore delle case: "la
carità è paziente, benigna è la carità;
non è invidiosa la carità, non si vanta, non
si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse,
non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode
dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto
copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta" (13,
4-7).
Vorrei aggiungere a conclusione che nel cammino di un matrimonio
sempre in agguato è un male, quello del logoramento,
dell'a-bitudine, della noia. Non sempre ricordiamo a noi
stessi che il comando del Signore "concepirete figli"
ha un orizzonte più vasto di quello di una fecondità
fisica che si conclude nel tempo. "Concepirai",
come suggerisce la parola "concetto", prima ancora
che un generare fisico, sembra suggerire un mettere al mondo
pensieri, mettere al mondo sogni, mettere al mondo progetti.
La fedeltà al comando tiene aperti e vigili i cuori
al futuro. Me lo hanno ricordato due cari amici, non più
giovani, che al termine della celebrazione del loro matrimonio
hanno voluto che si leggessero questi versi di un poeta
arabo, Nazim Hikmet.
Il
più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.
Pensieri deboli nati da un sorpasso. Sorpassare o accompagnarsi?
Due verbi. Quali effetti in amore?
La solitudine. La costruzione di un sogno.
don
Angelo
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