articoli di d. Angelo


 

FOGLI SPARSI DI UN'ESTATE

Fuori della casa il sole dava luce di tramonto. Su erbe di prato, su alberi, sul tetto spiovente, sui volti. Tu sai che cos'è luce di tramonto. Come brace in camini affumicati e riverberi di silenzio che fanno ardere le cose. Rossore di intenerimento, che non può essere purtroppo trattenuto. Presto il sole calerà.
E tu dal prato e dagli amici mi portasti dolcemente via, come chi ha negli occhi un segreto. Mi portasti nella casa, alla mensola del camino. E con gli occhi abbagliati, prima ancora che con le mani, mi mostravi una lunga teoria di nidi, uno accanto all'altro. Nidi di uccelli. Non ne ricordo il numero, ricordo lo stupore. Li accarezzavi. Come li avessi salvati da un naufragio. Perché quando i nidi cadono per terra sono a rischio. A rischio di piedi e di piogge, a rischio di naufragio. Sulla mensola erano ad altezza d'occhi, di volto e potevamo innamorarcene. Forse per questo nei nostri occhi sono in agguato disprezzo e indifferenza: teniamo cose e persone a distanza di piedi, non le solleviamo a distanza tenera di occhi e di volto. Ed è assenza di stupore. Di stupore e di innamoramento.
Un nido diverso dall'altro, tecniche di costruzione ingegnose. Mi guidasti le dita a sfiorare quello più morbido, quasi letto vellutato, presentimento tenero di un piccolo d'uccello, implume. Che non sia toccato da ruvidezze.
E noi a dire con disinvolta sicurezza che gli animali sono senz'anima. O senza ingegno. Proprio loro, creature di vento, che con materiali di estrema povertà danno origine a nidi che sono capolavori di immaginazione e di arte. Fili d'erbe, scaglie di piccoli legni, trucioli soffiati dal vento. Materiale povero, di scarto. E il miracolo dell'accoglienza.
I pensieri navigavano. Dal nido degli uccelli al nido degli umani. Nido può essere parola ambigua, come la parola rifugio. "La coppia non è un rifugio": è il titolo di un capitolo di un libro che accompagna la nostra riflessione negli incontri con i fidanzati. Non lo è, non lo deve essere, se la parola va a segnalare un rifugio di sequestro. Sequestri di immobilità. Ma benedetto il cielo per i rifugi di montagna, per l'odore del legno cha fa musica nella notte, per il profumo forte del cibo, delle grappe e del vino, per l'allegria un poco sbracata dei canti, per l'amicizia che perde ore a raccontare. È il calore del rifugio che ti fa ripartire rinato all'ultima veglia della notte, quando fuori ancora non è luce, per la seduzione delle vette. È il calore di un rifugio, di una casa che ci fa ripartire. Non è sempre infatti così facile nella vita ripartire. Benedetto sia Dio per nidi e rifugi.
Ancora una volta mi incantavo al materiale povero, umile, feriale dei nidi sulla mensola del camino: il calore di un nido non è in proporzione della raffinatezza dei materiali. Quasi per contrasto, nell'aria sospesa del tramonto, mi attraversò di striscio l'immagine di case dove i materiali sono pregiati, la raffinatezza al sommo grado, la ricchezza visibile, per non dire esibita, ma in assenza di calore, musei più che case, monumenti più che rifugi d'anima, il gelo di cose senz'anima. Nidi senza calore.
E se ci innamorassimo dei nidi degli uccelli, loro che, al dire di Gesù, non ammassano nei granai, ma hanno ali di vento e di libertà?

***
A tener desto di tanto in tanto il dibattito nella chiesa c'è l'esternazione. Ora dell'uno ora dell'altro. E più chi esterna è in alto più il dibattito si infiamma. Con la preoccupante, triste, deriva che la figura della chiesa sia per lo più sequestrata nell'immagine della gerarchia, l'immagine alta, quella dei vertici ecclesiastici.
E quando mai oggi, al suono della parola "chiesa", per immediatezza quasi congenita il pensiero corre non ai palazzi alti ma alle case comuni in cui gioisce, fatica e vive il popolo di Dio, gente comune che, con tutti i suoi limiti, con le fragilità confessate, ancora dà credito a Gesù e lo confessa vivente?
Ultimamente, per via di una prefazione a un libro, si è riacceso il dibattito se persistere ad ospitare nelle chiese altari rivolti al popolo o cancellarli, quasi forme spurie di architettura religiosa, e far ritorno agli altari rivolti all'abside. Perché, si dice dagli uni, l'assemblea deve essere rivolta al Signore. E si dice dagli altri, l'assemblea è convocata a una cena, la cena del suo Signore.
Confesso che mi sono chiesto perché dibattiti come questi non solo non mi appassionino ma anzi mi lascino in cuore tracce di disgusto e di insofferenza. Forse, mi son detto, per la sensazione, certo presuntuosa, che per queste vecchie strade non si vada al cuore del problema. Che non è, o,meglio, non mi sembra essere quello dell'altare rivolto all'abside o rivolto al popolo. Non finiscono di riecheggiarmi nel cuore le parole di Gesù alla donna del pozzo, anche lei a chiedergli dove mai si dovesse adorare Dio. In alternativa allora non era un altare o un altro, era un monte. Quello dei samaritani o quello dei giudei? "Credimi, donna" le risponde Gesù "è giunto il momento ed è questo in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre... È giunta l'ora ed è questa in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità" (Gv 6,21.23).
Come si può scordare le parole di Gesù? Non sarà forse vero che importante, comunque, resta dove sono rivolti gli occhi dello spirito? Mi chiedo se non sia possibile essere tutti in cerchio ed avere gli occhi perduti in Dio e se non possa, al contrario, accadere che gli occhi rivolti ad un'abside fissino senza trasalimenti il vuoto del vuoto. Siamo così sicuri che nelle Messe con gli altari al muro gli occhi di chi celebrava cercassero Dio? O non sarà che vogliamo sfuggire alla possibilità che l'assemblea oggi, ad altare rivolto al popolo, possa sorprendere occhi di celebranti che fanno spettacolo, più preoccupati di sé che di Dio? E poi la domanda forse decisiva, ma la più rimossa: dove erano rivolti gli occhi di Gesù la sera della sua cena?Certo a Dio. Eppure nessuno penso possa negare che nella stanza al piano superiore stavano tutti, lui e i discepoli, intorno a un tavolo. E non sarà che il vero problema non sia la posizione di un altare ma il significato di ciò che in sua memoria stiamo facendo?

***
Mi ci ero abituato. A sentirli vociare dalla mattina alla sera. I ragazzi che nella seconda metà di giugno frequentavano l'oratorio feriale estivo. Una musica che ti accompagnava per l'intera giornata. Erano per me l'immagine della voglia di vivere. E non c'era sosta. Le urla laceranti anche a sera.
Qualcuno venne a lamentarsi dalle case vicine. E posso anche capire: stai preparando un esame, già ne hai del tuo, grida e urla ti rintronano nella testa.
Forse, mi son detto, è lo scotto che paghiamo alla vita, che non è vita di singoli, ma un vivere dentro una comunità e l'altro per il fatto stesso di esistere è nello stesso tempo ricchezza e limite. La ricchezza e il limite delle urla. Oggi che non le sento, mi ci ero abituato, mi prende la paura di un mondo ingrigito. Ma so anche che oggi, non sentendole, lo studente della porta accanto troverà sollievo nella fatica. Appartiene al gioco del vivere sociale che gli interessi degli uni a volte confliggano con gli interessi degli altri. E non dovremmo portare con un supplemento di pazienza la contraddizione?
Non me ne voglia chi stava preparando un esame o qualche anziano che nel pomeriggio d'afa faticava a prendere sonno. Non ho lezioni da impartire né strategie da indicare. Vorrei semplicemente confessare ciò che più di una volta mi è capitato nei giorni passati. Quando le voci assordanti mi sembravano strizzare come un panno il cervello, mi bastava perdermi a guardare ora l'uno ora l'altro dei ragazzi, perdermi a guardare il volto stanco ma felice di don Paolo o di chi, in uno spazio povero come il nostro, inventava per loro cose. Anche la felicità dei ragazzi è a caro prezzo. O forse dovremmo accarezzare i volti stanchi?

***
Settantacinque anni, i tempi di una consegna. Avrei dovuto al settantacinquesimo anno consegnare la parrocchia, ma l'Arcivescovo prolunga il mandato. Per due anni.
Confesso che non era senza stretta al cuore: non consegni carte, libri contabili, edifici. Consegni gente di cammino, la tua carovana, quella che hai amato. La stretta, dico la stretta al cuore, è solo rimandata.
Mi sono chiesto perché, tra le voci, che in mille modi mi hanno detto la gioia dei due anni in cui ancora camminare insieme, senza nulla togliere ad altri amici, due in modo particolare mi abbiano colpito.
La prima fu il dono di un vaso con un piccolo esile fusto di quercia. Avrei voluto confessare ai due amici e ai loro bambini che non mi sento quercia. La quercia è forte, è a prova di vento e io non lo sono. Ma poi ho pensato che mi volessero dire che il miracolo lo fa Dio e che si può essere quercia con la debolezza, con la fragilità, con la piccolezza. Piccolo esile fusto di quercia.
Il secondo dono furono le parole di una donna anziana, i suoi occhi di commozione. Se ora mi chiedi perché su tutte mi abbiano toccato il cuore, ti confesserò, e forse ti sorprenderà, che fu per via delle sue parole così sgrammaticate. A uno che più volte è preso dal dubbio di essere un po' troppo intellettuale, gli occhi di quella donna erano riconciliazione. Le parole sgrammaticate? "Errore in grammatica" direbbe Erri De Luca "ma non in amore".

***
Confesso il mio eccesso di criticità. Mi è capitato oggi, sfogliando un favoloso libro regalo. Ripercorro pagina dopo pagina le opere emozionanti di Michelangelo. Chissà perché, gli occhi mi corrono a una cacciata dal paradiso terrestre. La spada fiammeggiante dell'angelo punta a terrore alla nuca di Adamo, mentre la donna si ritrae impaurita e curva. Volti dolenti, spalle ricurve per eccesso di vergogna. Ora gli occhi mi corrono a un particolare: il terrestre e la donna sono ritratti nudi. Se la memoria della Bibbia non mi tradisce, Michelangelo, ma non solo lui, è in errore. Dio al terrestre e alla donna aveva cucito teneramente tuniche di pelle. E perché l'insistenza, non solo dei pittori, sulla spada fiammeggiante e non sulle tuniche che Dio ha cucito? Sono innamorato di un Dio che cuce tuniche. Di pelle.

don Angelo


torna alla home