POSSIAMO
ANCORA INCANTARCI?
Era
arrivata in compagnia. Inattesa.
Ecco, mi dissi, l'"inatteso" della vita. Sta perdendo
terreno l'"inatteso". Nella vita. Tutto, o quasi,
è rigidamente programmato. In agenda. L'agenda, come
evoca la parola, dice "le cose da fare", il programmato,
gli incontri previsti. Anche se poi, lo devo confessare,
un incontro, se è vero, se non è formale,
raramente si rassegna nel territorio del "previsto",
nei confini stretti del "programmato". Fuoriesce.
L'arrivo di Federica muoveva, senza che lei lo volesse,
riflessioni su "atteso" e "inatteso".
Non era in agenda, tra i nomi assiepati.
La sorpresa dunque. La sorpresa dei suoi occhi che ti leggono
come amico. Amico da lunga data. "Ricordi" mi
dice "il giorno in cui mi desti la prima comunione?".
E la memoria corre a un giorno in cui mi capitò di
paragonare i ragazzi in attesa del pane del Volto ai piccoli
dei passeri in attesa di cibo nel nido. Un cibo per imparare
a volare, un cibo per volare via.
Federica era volata via. A farla volar via, il pane della
sua casa, ma anche il pane del Signore, che, contrariamente
a quanto si pensa, non è pane di insediamento, ma
di esodo. A farla volare via un'educazione che mai e poi
mai avrebbe accettato di configurarsi come un trattenere.
Trattenere nei nidi. Siete fatti per volare. Per volar via.
Le era stato insegnato nella casa e persino nella chiesa.
Federica è giovanissima, ma è già fuori
nido.
Arrivava inattesa, con un suo amico. La sorpresa dell' "inatteso".
Ma poi, subito dopo, quasi senza cesure, il fascino del
sorriso. Perché sedotto dal suo sorriso? Forse, mi
dissi, perché il suo non era un sorriso di un momento,
di un momento solo. Conosco i sorrisi di un momento, di
un momento solo. Senza fascino. Vanno e vengono. Quelli
di circostanza, quelli di coloro che vogliono far mostra
di sé. Quando i riflettori li perdono di vista, si
perde il sorriso.
Sorrisi di un momento anche quelli non di circostanza, veri,
ma subito inghiottiti senza pietà da altri pensieri
che assalgono. Vedi accendersi un sorriso. Ma subito si
spegne.
Il sorriso di Federica non era di quelli che vengono e vanno.
Non era una meteora. Rimaneva. Come lo Spirito che il Battista
vide un giorno scendere su Gesù di Nazaret nelle
acque del Giordano nella fila dei peccatori. Non era uno
Spirito che andava e veniva. Era Spirito che rimaneva. "Vidi"
disse Giovanni "lo Spirito scendere su di lui e rimanere".
Poi, ascoltando Federica, mi sembrò di capire da
dove nasca il sorriso che rimane. Si parlava della malattia
delle città, le città dei grandi insediamenti,
una malattia che avverti meno forse negli insediamenti minori,
ma è nell'aria. Anche fuori città. A insidiare.
Una sorta di aridità, frutto di prosciugamento, che
non ti consente il "sorriso che rimane", ma solo
quello comandato, forzato.
Tutti di corsa. Tutti ingrugniti. E pure i bambini, un paradosso,
stanchi di quello che hanno. A pretesa d'altro. Anche loro
programmati. Gli occhi sono in avanti. Quasi le case e le
cose dell'oggi fossero vuote, disabitate.
Se non fosse per il timore di essere recensito tra i lodatori
del tempo passato, ti verrebbe spontaneo riandare nella
memoria alla gioia dei bambini che un tempo si divertivano
inventando giochi sublimi con la povertà del nulla.
Non sarà, me lo chiedo, perché gli occhi si
sono fatti opachi, opachi per cataratta dello spirito, e
di conseguenza perdono il colore, la bellezza, il mistero
che abita le cose? Non c'è più il tempo dell'incantamento.
C'è il tempo della fruizione, del consumo.
Ai tempi di Gesù tutti vedevano gli uccelli dell'aria.
Lui si incantava. Vedeva il Padre che li nutriva. Ai tempi
di Gesù tutti vedevano i gigli del campo. Lui si
incantava. Vedeva il Padre che li vestiva. Li vestiva di
un fascino che Salomone neppure in sogno sfiorava.
Noi non ci incantiamo. In qualche modesta esile misura si
incantano ancora i bambini. E Dio li preservi. Per questo
rimane loro ancora il miracolo, se pur compromesso, di sorridere
e di farci sorridere.
E se il nostro frequentare chiese non ci lascia nell'anima
questa capacità dolce di incantarci, a che vale frequentarle?
Se gli occhi rimangono spenti, vitrei, sequestrati nell'opacità
delle cose? Buon esercizio sarebbe frequentare chiese per
tenere custodita la capacità di incantarsi. E resistere
alla corsa. Alla corsa che nega l'incantamento.
Questa corsa che consuma e ci consuma. Perché cose
e persone finiscono per essere strumentalmente finalizzate
a un bisogno e non accolte per il dono che custodiscono.
Giorni fa su un quotidiano Roberta De Monticelli, una donna
che molti di noi stimano per la lucentezza del suo pensiero
filosofico e per l'emozione delle sue poesie, parlava del
riposo con parole che per un attimo mi parvero incrociare
nel mio cuore il tempo ormai maturo della estate e insieme
il volto di Federica e il volto di tutti coloro che sostano,
non sfuggono, alla dolcezza del momento. Ne godono e sorridono.
Scrive Roberta De Monticelli: "Forse possiamo osare
di più e dire che il riposo vivo è un luogo
di nascita e di crescita dell'anima. Il riposo è
libertà dalla pressione di dover rispondere. È
pausa che differisce le risposte immediate alle esigenze
poste dal reale, cose da fare, libri da leggere, lettere
da scrivere, eccetera. È differimento di qualunque
reazione immediata, è sospensione dell'immediatezza
del vivere. Si può sorbire un caffé in stato
di riposo, o no. Lo stato di riposo è quello che
permette al caffé di liberare il suo aroma e il suo
sapore, come se questo presente non mi comportasse più
uno diverso a venire".
Oggi non si gode né delle persone né delle
cose e nemmeno forse di Dio. Li si consuma. Persone, cose,
Dio stesso. Con la testa altrove.
Varrebbe, penso, la pena recuperare la sapienza proposta
nelle pagine del Qoelet che è invito a godere delle
cose della vita, non importa se segnate da piccolezza e
fragilità:
Va',
mangia con gioia il tuo pane,
bevi il tuo vino con cuore lieto,
perché Dio ha già gradito le tue opere.
In ogni tempo le tue vesti siano bianche
e il profumo non manchi sul tuo capo.
Goditi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della
tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole, perché
questa è la tua sorte nella vita e nelle pene che
soffri sotto il sole.
Qoelet 9,7-9
Alla vigilia della pausa estiva come non augurarci questo
riposo dell'anima, questo sguardo, incantato e disincantato,
che ci permette di riprendere ad essere umani? Resi umani
dal sapore del dono che abita le cose, un sapore che ti
ridesta, ti fa rinascere, come il sapore inebriante del
pane che profumava angoli delle nostre strade, nei giorni
ormai lontani, ma non cancellati della nostra fanciullezza.
Al profumo del pane che respiravi a godimento è subentrata
quest'aria pesante dei volti che più non sorridono,
più non sanno attendere, pretendono, volti che non
lasciano il passo a nessuno, volti che hanno cancellato
la mitezza evangelica.
Che ad accusare l'invivibilità delle città
fosse uno vecchio d'anni, come me, me lo sarei aspettato,
ma che ad accusare l'invivibilità fosse una giovane
donna mi sorprese.
Soffriamo la pesantezza e persistiamo su strade che generano
pesantezza. Condanniamo la violenza e assumiamo, fino a
giustificarli, gesti quotidiani di violenza.
Ci spintoniamo per le strade, tagliamo il passo all'altro,
occupiamo gli spazi degradanti dei marciapiedi, ideati a
rispetto dei più deboli, parliamo al cellulare rovesciando
sull'intero autobus le nostre cose private, leggiamo messaggini
mentre l'altro ci sta parlando, violiamo la seduzione del
silenzio con il rumore straripante dei suoni, sporchiamo
strade e giardini come fossero discariche di una città.
Urliamo. Il tono si è fatto alto. I giudizi sono
duri come pietre. Si grida a coprire la pochezza delle ragioni.
Urliamo. Politicamente. Ecclesialmente. Se non nei toni,
urliamo nei giudizi, basti scorrere pagine di giornali,
anche ecclesiastici, o ascoltare radio che si dicono di
chiesa. Abbiamo abbandonato la mitezza della fede. E insieme
la mitezza della ragione. La mitezza non cancella, sta in
ascolto delle ragioni dell'altro. Imperversiamo, occupiamo,
spodestiamo, imponiamo.
È in atto un involgarimento. Che fa scuola, purtroppo
non raramente, dall'alto. La volgarità dove meno
ce la saremmo aspettata. In alto.
Ora il rimedio sarà resistere al fascino spento.
E che non faccia scuola la volgarità. Anche se occupa
posti alti.
Il rimedio sarà ritornare al vangelo e credere, nonostante
tutto, credere a dispetto di quanto ci dicono, che saranno
i miti a ereditare la terra. "Beati i miti" disse
un giorno sul monte "perché erediteranno la
terra". E le parole rimasero a memoria nel cuore di
qualcuno, pur se apparivano parole sconfitte. Rimasero e
furono scritte. A memoria. A memoria dei sognatori. I sognatori
di Dio. Quelli che persistono a credere che i violenti la
terra l'avranno, ma come paese d'occupazione, l'avranno
in maledizione. I miti al contrario l'avranno come eredità,
come dono insperato della loro mitezza, l'avranno in benedizione.
Rimedio sarà dunque guardare più in alto.
Più in alto di dove si è insediata la volgarità,
la volgarità del pensare, del dire, del vivere.Una
terra, una città, una vita disegnate e costruite
a misura di "Altro", di un'altra terra. È
come se avessimo perso quelle misure. Sono da ritrovare.
Sono nell'attesa di molti.
Scalpellino
era il monaco
sul monte.
Smussava
assorto e paziente
pietra su pietra.
Stupito fissava
il volto di Dio.
E fiorivano tra le mani
misure e armonie
oggi smarrite.
Abitava gli occhi chiari
la sapienza delle cose,
armonia segreta
di terre lontane.
Federica
se ne va, la mano nella mano. Lasciandomi pensieri ed emozioni
per un'estate. E per oltre l'estate.
don
Angelo
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