articoli di d. Angelo


 

FACCIAMO ENTRARE UN PO' DI ARIA PURA


Qualche volta mi chiedo se reggerà il cuore. Forse a un medico è chiesto di tenere la distanza, come si dice: essere professionali. Ma conosco medici che proprio non la sanno tenere, o solo in parte, e le storie se le portano a casa la sera. Incise negli occhi. Storie a volte drammatiche.
Non so se anche a un prete è chiesto di essere professionale. Una cosa so: che non lo sono. Forse è chiesto, a saggezza, di tenere le distanze. Ma non ho saggezza.
E avvengono sradicamenti. Nel cuore. A volte nell'arco di poche ore. Stanno su una mano, come oggi. Celebri un matrimonio e poi un funerale, e poi un battesimo. E non è un vestito da cambiare, da smettere e da indossare: l'amore, il lutto, la nascita.
Misuri la distanza dei sentimenti. Misuri il reggere del cuore. Non è dissolvenza da una celebrazione all'altra, è sradicamento. Sradicati e piantati. Piantati in altre storie. E il cuore arranca, come per una fatica a reggere.
Due volti in contemporanea da giorni indugiano nel cuore. Quasi simbolo, incancellati, riemergono. Il volto di una ragazza, che è luminosa di suo, ma ieri i suoi occhi erano lago e raccontavano. Che le fosse capitato qualcosa di incontenibile era scritto sulla pelle. Trasalimento totale. E, insieme, il volto di una giovane mamma e il pianto soffocato nei suoi occhi, lei che più non sa. Non sa dov'è - dov'è con il cuore - suo marito.
Ti confiderò che a volte mi sento un risparmiato. Risparmiato da Dio, ora che dovrei denunciare un cuore che pompa sangue a fatica per via degli anni. Qualcuno - oso pensare - ci ha messo una protezione. Protezione agli sradicamenti.
E che non siamo più in un paese, ma in molti paesi - e dunque essere chiamati a sradicamenti quasi a ogni ora - te lo dice la storia delle relazioni. Una volta era un solo paese. O quasi. Il modello era unico, o così sembrava. E tu sapevi dov'eri.
I mutamenti nelle relazioni sono sotto gli occhi di tutti, anche se non abbiamo parole per descriverli nella loro vastità e pervasività. E tanto meno per suggerire cammini. Dal mio piccolo osservatorio vedo il frammentarsi della relazione, a volte il frantumarsi.
Nelle case il fenomeno più vistoso è quello delle separazioni, dei divorzi. Ma esiste anche il fenomeno di una vita familiare appiattita sul registro povero di uno scambio di prestazioni materiali. E non c'è luce negli occhi. Dentro una città, sempre più fagocitata dalla fretta, dall'onnipotenza del traffico. Sui marciapiedi, in coda l'uno dietro l'altro, e non a fianco. Quasi un simbolo, simbolo che sfonda il cuore.
E la chiesa, le chiese, non fuori, ma dentro l'insidia. Il crescere a dismisura della macchina organizzativa riduce spietatamente i tempi dell'incontro personale. Tempi lunghi consumati a parlare, a progettare, a fare. Tempo risicato, o quasi nullo, il tempo della tenerezza dello sguardo: "mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce". Abbiamo dimenticato che c'è un volto, più segreto, dell'altro, una voce più segreta da scoprire, la voce dei silenzi, la voce del "non detto". L'abbiamo dimenticato nelle case, nella società e perfino nelle chiese.
Di fronte al mutare vistoso dei modelli all'interno della relazione, tutti, chi più chi meno, siamo colti da un senso struggente di "spaesamento". Separazioni e divorzi, situazioni difficili non sono più realtà di altri, di mondi altri, toccano le nostre case, i nostri affetti e ci colgono per lo più impreparati. Come se non avessimo parole. E cresce, cresce il disagio.
Forte, forte e immediata la seduzione di reagire con l'ostracismo. Quasi che tutto fosse risolto alzando vecchi vessilli o facendo lamenti. Poi ti accorgi che non bastano vessilli e lamenti a cambiare il "paese". Occorre il coraggio di fare i conti con questa realtà. Probabilmente non ritorneremo più al "paese" di prima né ai modelli di prima. Questo è il "paese" che siamo chiamati ad attraversare. E non si tratta di "questioni", questioni senza volto su cui disquisire. Se fossero "questioni", basterebbero le formule asettiche che mettono il sabato prima dell'uomo. No, sono ferite e noi siamo cresciuti alla scuola di un Maestro che ha insegnato, a costo della vita: mai l'uomo in funzione del sabato, ma, al contrario, il sabato in funzione dell'uomo. Prima del sabato c'è l'uomo. C'è l'uomo, c'è la donna. Ci sono le loro ferite da curare. E il rimedio non può essere aggiungere peso a peso, né buttare in mare chi fa naufragio e arranca verso la riva.
Che questo, delle relazioni, sia un problema che non tocca semplicemente i libri, ma la vita, che tocca profondamente le comunità che non vivono al chiuso ma percorrendo le strade con gli uomini e le donne del nostro tempo, l'ho misurato dalla forza con cui il problema dei divorziati, dei risposati, delle famiglie in situazioni cosiddette non regolari, è entrato in questi ultimi mesi nell'agenda del nostro Consiglio Pastorale, dalla libertà, dalla sofferenza, dalla passione con cui è stato dibattuto.
Quando poi vai a ipotizzare non dico soluzioni ma strade e percorsi, intuisci che non si tratta già, primariamente, di dire parole o dettare regole. Se mai la parola, la regola da dire, da rimettere al centro è e rimane Gesù, lui la parola che non condanna - "non sono venuto a condannare" - ma salva.
Abbiamo osato dire insieme che prioritario è ascoltare, è capire. Venuta meno l'uniformità dei modelli, sarebbe segno di imperdonabile sufficienza e superficialità sputare drasticamente e disinvoltamente giudizi. Si finirebbe per sputare, forse senza volerlo, sui volti.
Si tratta primariamente di capire le storie. Le mille storie. Sfuggendo alla genericità dello stereotipo, uno stereotipo che impoverisce.
Lo stereotipo, per esempio, dei giovani che convivono, un fenomeno in crescita, che può, negli uomini e nelle donne della mia generazione, indulgere all'immagine di persone immature, superficiali, quelli - si dice - della vita comoda e facile, quelli che sfuggono alla responsabilità. Così, prima di aver ascoltato. Ascolti e il più delle volte ti accorgi che non è così. Che c'è dell'altro. Ma ti accorgi solo dopo aver ascoltato.
Condizione primaria allora, nelle comunità, nelle nostre case, nelle nostre chiese, tra gli amici, diventa il clima: se esiste o no il clima per cui le storie, quelle vere, quelle che ti segnano dentro, possano uscire, timidamente uscire, ed essere raccontate.
Posso star certo: se appartengo alla razza degli stroncatori facili e acidi, nessuna storia, vera, mi verrà mai raccontata. In compenso avrò uomini e donne sull'attenti. O in fuga. Come la volpe a rintanarsi, quando l'aria odora di cacciatori.
Nell'ascolto forse, dico forse, ci sarà dato misurare o solo intuire drammi e lacerazioni. E ti prenderà timore di riaprire ferite, di rivisitare impietosamente drammi, di aggiungere peso a peso.
E se sei un uomo o una donna del vangelo, se hai imparato dal Maestro che non gridò sulle piazze, ma fasciò la canna incrinata e diede olio al lucignolo fumigante, se hai imparato dal Maestro, davanti ad ogni situazione ti verrà spontaneo chiederti quale possibilità di bene e di grazia, nella sua incontenibile fantasia, lo Spirito possa aprire. Succede di scoprire tra le rocce sferzate dal vento dei monti fiori di colori mozzafiato che nelle serre più protette non è dato rinvenire.
E dunque ciò che conta è scoprire insieme, anche nelle relazioni più sofferte, il passo che ci è possibile fare.
Abbiamo sventolato vessilli e siamo al lamento. Forse abbiamo dimenticato che non basta declamare. Se bastasse la declamazione, la relazione non soffrirebbe oggi di così grave disagio.
Non è bastato - oggi ce ne rendiamo conto - sventolare il principio della indissolubilità. Andavano pazientemente segnalati i passi perché, per grazia, potesse accadere. Così come si appongono segnali su rocce lungo i sentieri dei monti. E non sono percorsi obbligati, ma rinvenirli qua e là è salvezza da smarrimento.
Quali segnali quotidiani? Un tempo vedevi un solo paese. Eri fedele, quasi per una necessità, a quel solo paese. Oggi scopri innumerevoli paesi. E allora come custodire il paese del tuo cuore senza cancellare dal cuore altri paesi?
Non basta declamare, occorre accompagnare. E dare cura alla relazione che chiede tempo e ascolto, chiede accoglienza della misura fragile del volto dell'altro, della debolezza che senza eccezioni ci segna, chiede tenerezza e compassione, chiede affidamento a un Mistero che ci abita e ci sospinge.
A quarant'anni dalla sua morte, dentro queste riflessioni povere, che sfiorano ferite e disagi, mi sono tornate al cuore due parole di un Papa lungimirante, Giovanni XXIII, parole da custodire in tempi di visioni corte e di fiato corto.
La prima parola fu durante una sessione preparatoria della grande assise del Concilio. Stordito dall'accanimento dei partecipanti a difendere la loro verità, si alzò, andò alla finestra, l'aprì e disse: "Facciamo entrare un po' di aria fresca".
La seconda parola è tra le più ricordate da un mio amico, quasi un'ossessione, l'ossessione di chi ha trovato un tesoro. Diceva il vecchio Papa: "Quando incontro qualcuno non gli chiedo da dove viene. Non mi interessa. Gli chiedo dove va. Gli chiedo se posso fare un pezzo di strada insieme".
E dunque aprire la finestra e fare un pezzo di strada insieme.

don Angelo


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