FACCIAMO
ENTRARE UN PO' DI ARIA PURA
Qualche volta mi chiedo se reggerà il cuore. Forse
a un medico è chiesto di tenere la distanza, come
si dice: essere professionali. Ma conosco medici che proprio
non la sanno tenere, o solo in parte, e le storie se le
portano a casa la sera. Incise negli occhi. Storie a volte
drammatiche.
Non so se anche a un prete è chiesto di essere professionale.
Una cosa so: che non lo sono. Forse è chiesto, a
saggezza, di tenere le distanze. Ma non ho saggezza.
E avvengono sradicamenti. Nel cuore. A volte nell'arco di
poche ore. Stanno su una mano, come oggi. Celebri un matrimonio
e poi un funerale, e poi un battesimo. E non è un
vestito da cambiare, da smettere e da indossare: l'amore,
il lutto, la nascita.
Misuri la distanza dei sentimenti. Misuri il reggere del
cuore. Non è dissolvenza da una celebrazione all'altra,
è sradicamento. Sradicati e piantati. Piantati in
altre storie. E il cuore arranca, come per una fatica a
reggere.
Due volti in contemporanea da giorni indugiano nel cuore.
Quasi simbolo, incancellati, riemergono. Il volto di una
ragazza, che è luminosa di suo, ma ieri i suoi occhi
erano lago e raccontavano. Che le fosse capitato qualcosa
di incontenibile era scritto sulla pelle. Trasalimento totale.
E, insieme, il volto di una giovane mamma e il pianto soffocato
nei suoi occhi, lei che più non sa. Non sa dov'è
- dov'è con il cuore - suo marito.
Ti confiderò che a volte mi sento un risparmiato.
Risparmiato da Dio, ora che dovrei denunciare un cuore che
pompa sangue a fatica per via degli anni. Qualcuno - oso
pensare - ci ha messo una protezione. Protezione agli sradicamenti.
E che non siamo più in un paese, ma in molti paesi
- e dunque essere chiamati a sradicamenti quasi a ogni ora
- te lo dice la storia delle relazioni. Una volta era un
solo paese. O quasi. Il modello era unico, o così
sembrava. E tu sapevi dov'eri.
I mutamenti nelle relazioni sono sotto gli occhi di tutti,
anche se non abbiamo parole per descriverli nella loro vastità
e pervasività. E tanto meno per suggerire cammini.
Dal mio piccolo osservatorio vedo il frammentarsi della
relazione, a volte il frantumarsi.
Nelle case il fenomeno più vistoso è quello
delle separazioni, dei divorzi. Ma esiste anche il fenomeno
di una vita familiare appiattita sul registro povero di
uno scambio di prestazioni materiali. E non c'è luce
negli occhi. Dentro una città, sempre più
fagocitata dalla fretta, dall'onnipotenza del traffico.
Sui marciapiedi, in coda l'uno dietro l'altro, e non a fianco.
Quasi un simbolo, simbolo che sfonda il cuore.
E la chiesa, le chiese, non fuori, ma dentro l'insidia.
Il crescere a dismisura della macchina organizzativa riduce
spietatamente i tempi dell'incontro personale. Tempi lunghi
consumati a parlare, a progettare, a fare. Tempo risicato,
o quasi nullo, il tempo della tenerezza dello sguardo: "mostrami
il tuo viso, fammi sentire la tua voce". Abbiamo dimenticato
che c'è un volto, più segreto, dell'altro,
una voce più segreta da scoprire, la voce dei silenzi,
la voce del "non detto". L'abbiamo dimenticato
nelle case, nella società e perfino nelle chiese.
Di fronte al mutare vistoso dei modelli all'interno della
relazione, tutti, chi più chi meno, siamo colti da
un senso struggente di "spaesamento". Separazioni
e divorzi, situazioni difficili non sono più realtà
di altri, di mondi altri, toccano le nostre case, i nostri
affetti e ci colgono per lo più impreparati. Come
se non avessimo parole. E cresce, cresce il disagio.
Forte, forte e immediata la seduzione di reagire con l'ostracismo.
Quasi che tutto fosse risolto alzando vecchi vessilli o
facendo lamenti. Poi ti accorgi che non bastano vessilli
e lamenti a cambiare il "paese". Occorre il coraggio
di fare i conti con questa realtà. Probabilmente
non ritorneremo più al "paese" di prima
né ai modelli di prima. Questo è il "paese"
che siamo chiamati ad attraversare. E non si tratta di "questioni",
questioni senza volto su cui disquisire. Se fossero "questioni",
basterebbero le formule asettiche che mettono il sabato
prima dell'uomo. No, sono ferite e noi siamo cresciuti alla
scuola di un Maestro che ha insegnato, a costo della vita:
mai l'uomo in funzione del sabato, ma, al contrario, il
sabato in funzione dell'uomo. Prima del sabato c'è
l'uomo. C'è l'uomo, c'è la donna. Ci sono
le loro ferite da curare. E il rimedio non può essere
aggiungere peso a peso, né buttare in mare chi fa
naufragio e arranca verso la riva.
Che questo, delle relazioni, sia un problema che non tocca
semplicemente i libri, ma la vita, che tocca profondamente
le comunità che non vivono al chiuso ma percorrendo
le strade con gli uomini e le donne del nostro tempo, l'ho
misurato dalla forza con cui il problema dei divorziati,
dei risposati, delle famiglie in situazioni cosiddette non
regolari, è entrato in questi ultimi mesi nell'agenda
del nostro Consiglio Pastorale, dalla libertà, dalla
sofferenza, dalla passione con cui è stato dibattuto.
Quando poi vai a ipotizzare non dico soluzioni ma strade
e percorsi, intuisci che non si tratta già, primariamente,
di dire parole o dettare regole. Se mai la parola, la regola
da dire, da rimettere al centro è e rimane Gesù,
lui la parola che non condanna - "non sono venuto a
condannare" - ma salva.
Abbiamo osato dire insieme che prioritario è ascoltare,
è capire. Venuta meno l'uniformità dei modelli,
sarebbe segno di imperdonabile sufficienza e superficialità
sputare drasticamente e disinvoltamente giudizi. Si finirebbe
per sputare, forse senza volerlo, sui volti.
Si tratta primariamente di capire le storie. Le mille storie.
Sfuggendo alla genericità dello stereotipo, uno stereotipo
che impoverisce.
Lo stereotipo, per esempio, dei giovani che convivono, un
fenomeno in crescita, che può, negli uomini e nelle
donne della mia generazione, indulgere all'immagine di persone
immature, superficiali, quelli - si dice - della vita comoda
e facile, quelli che sfuggono alla responsabilità.
Così, prima di aver ascoltato. Ascolti e il più
delle volte ti accorgi che non è così. Che
c'è dell'altro. Ma ti accorgi solo dopo aver ascoltato.
Condizione primaria allora, nelle comunità, nelle
nostre case, nelle nostre chiese, tra gli amici, diventa
il clima: se esiste o no il clima per cui le storie, quelle
vere, quelle che ti segnano dentro, possano uscire, timidamente
uscire, ed essere raccontate.
Posso star certo: se appartengo alla razza degli stroncatori
facili e acidi, nessuna storia, vera, mi verrà mai
raccontata. In compenso avrò uomini e donne sull'attenti.
O in fuga. Come la volpe a rintanarsi, quando l'aria odora
di cacciatori.
Nell'ascolto forse, dico forse, ci sarà dato misurare
o solo intuire drammi e lacerazioni. E ti prenderà
timore di riaprire ferite, di rivisitare impietosamente
drammi, di aggiungere peso a peso.
E se sei un uomo o una donna del vangelo, se hai imparato
dal Maestro che non gridò sulle piazze, ma fasciò
la canna incrinata e diede olio al lucignolo fumigante,
se hai imparato dal Maestro, davanti ad ogni situazione
ti verrà spontaneo chiederti quale possibilità
di bene e di grazia, nella sua incontenibile fantasia, lo
Spirito possa aprire. Succede di scoprire tra le rocce sferzate
dal vento dei monti fiori di colori mozzafiato che nelle
serre più protette non è dato rinvenire.
E dunque ciò che conta è scoprire insieme,
anche nelle relazioni più sofferte, il passo che
ci è possibile fare.
Abbiamo sventolato vessilli e siamo al lamento. Forse abbiamo
dimenticato che non basta declamare. Se bastasse la declamazione,
la relazione non soffrirebbe oggi di così grave disagio.
Non è bastato - oggi ce ne rendiamo conto - sventolare
il principio della indissolubilità. Andavano pazientemente
segnalati i passi perché, per grazia, potesse accadere.
Così come si appongono segnali su rocce lungo i sentieri
dei monti. E non sono percorsi obbligati, ma rinvenirli
qua e là è salvezza da smarrimento.
Quali segnali quotidiani? Un tempo vedevi un solo paese.
Eri fedele, quasi per una necessità, a quel solo
paese. Oggi scopri innumerevoli paesi. E allora come custodire
il paese del tuo cuore senza cancellare dal cuore altri
paesi?
Non basta declamare, occorre accompagnare. E dare cura alla
relazione che chiede tempo e ascolto, chiede accoglienza
della misura fragile del volto dell'altro, della debolezza
che senza eccezioni ci segna, chiede tenerezza e compassione,
chiede affidamento a un Mistero che ci abita e ci sospinge.
A quarant'anni dalla sua morte, dentro queste riflessioni
povere, che sfiorano ferite e disagi, mi sono tornate al
cuore due parole di un Papa lungimirante, Giovanni XXIII,
parole da custodire in tempi di visioni corte e di fiato
corto.
La prima parola fu durante una sessione preparatoria della
grande assise del Concilio. Stordito dall'accanimento dei
partecipanti a difendere la loro verità, si alzò,
andò alla finestra, l'aprì e disse: "Facciamo
entrare un po' di aria fresca".
La seconda parola è tra le più ricordate da
un mio amico, quasi un'ossessione, l'ossessione di chi ha
trovato un tesoro. Diceva il vecchio Papa: "Quando
incontro qualcuno non gli chiedo da dove viene. Non mi interessa.
Gli chiedo dove va. Gli chiedo se posso fare un pezzo di
strada insieme".
E dunque aprire la finestra e fare un pezzo di strada insieme.
don
Angelo
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