CARO
CESARE, IO VORREI
Più di un motivo mi spinge a scriverti e a dare visibilità
a questa lettera.
Innanzitutto per ringraziarti: tu accompagni una rivista,
su cui appare un tuo articolo, con alcune righe in cui dici
di aver pensato a me nell'inizio della "lettera a un
parroco".
Ogni volta che uno si sente pensato è trasalimento,
sa di esserci per un altro. Se nessuno ti pensa, che vita
è? È come se tu non fossi. Il massimo del
trasalimento poi è sentirti pensato da Dio, proprio
da lui. Ci sei per lui. Non è poco.
E poi anche questo mi affascina, non sembra vero, ma succede:
essere pensati da uno che non hai mai avuto il dono di incontrare
da vicino. Fa trasalimento, se così si può
dire, ancora maggiore. È racconto dei fili invisibili.
Tu li hai portati a visibilità, ma spesso rimangono
segreti.
Anch'io ho pensato a te. Ti ho pensato, in questi anni,
leggendoti. Amici mi hanno passato soprattutto libri di
poesie. Alla tua attività di psicanalista sposi un
altro "mestiere", non so quanto oggi onorato,
ma ai miei occhi, già deboli, urgente, se non vogliamo
scadere nel piattume e nell'inaridimento, il "mestiere"
di poeta.
Città morte o città vive? C'è ancora
una cittadinanza per i poeti?
Gli occhi di chi guarda lontano mi hanno sempre intrigato,
me ne innamoro e tento, inseguendoli, navigazioni "fuori
coro".
Il
tuo articolo, lettera per un don, lettera per un parroco,
è lettera anche in cui tu chiedi: "quante cose
vorrei chiederti e capire sulla fede e sulla chiesa! Intanto
provo a scrivere qui qualcosa".
E io dopo giorni, ti confesso, rileggendoti, ascolto in
me più domande che risposte. Che sia un buon segno?
Tu parli delle nostre eucaristie domenicali. Mi sembra di
capire che, anche a partire dalle nostre liturgie domenicali,
ti prenda una sorta di spaesamento. Riprendi una citazione
folgorante di Rilke: "Cristo aveva lasciato con la
croce un indicatore, un segnale, ma i cristiani si sono
fermati, si sono accampati sotto la croce e lì hanno
fondato una chiesa".
Il nodo, come dici tu, è il passaggio da Cristo all'istituzione.
Ti confesso che anch'io spesso con te soffro una sorta di
spaesamento, come se il paese di Gesù, quello dei
suoi pensieri, dei suoi trasalimenti, dei suoi sogni, delle
sue prese di posizione, dei suoi gesti fosse un altro paese,
forse poco riconoscibile in tutto ciò che pesantemente
abbiamo istituzionalizzato. E mi sono sentito confortato
dalla voce di un pastore -tu dirai che è voce isolata,
ma rimane comunque, sia pur per poco, voce del nostro pastore-
che ebbe il coraggio di confessare e di scrivere: "Ciò
che stiamo facendo, ciò che sto proponendo, è
davvero secondo il Vangelo? Non stiamo per caso tradendo
il mandato di Gesù? Non corriamo il pericolo di trascurare
ciò che è essenziale? Non ci lasciamo forse
ingannare dalla routine, dalla pigrizia, dal vano timore,
dall'amore dei nostri comodi, dallo spirito mondano?".
La pesantezza -mi duole dirlo- ha affaticato anche il rito,
ora avvolto da tante, troppe parole, avvolto da tanti, troppi
gesti ridondanti. E il rischio è l'estraneità.
Il gesto che Gesù ci lasciava era semplice, leggero,
riconoscibile: prendete il pane, spezzatelo tra voi e mangiatene.
Prendete il calice del vino, passatevelo tra voi e bevetene.
Qui sono presente io. Vi parli questo gesto. Vi parli fino
alla fine del mondo. La mia vita è riassunta e custodita
in questo gesto. La vostra vita sia custodita e riassunta
nel gesto estremo, il gesto della donazione.
Tu,
nella lettera, ti soffermi a osservare i volti dei partecipanti
alla liturgia domenicale: "quanti volti mesti, compassati,
una serietà che sembra rivelare soprattutto l'adempimento
di un dovere, la ripetizione di un'abitudine". E aggiungi:
"Ma già questa impressione facilmente può
essere una valutazione esteriore e offensiva".
Sì, è sempre difficile attraversare il cuore,
il nostro e quello di chi ci sta accanto. Una cosa è
certa che oggi sono cadute le pressioni sociali che potevano
spingere in passato ad una partecipazione alla Messa.
A volte mi chiedo che cosa fa le nostre Messe ancora così
affollate, al punto che non riusciamo a ottemperare a un
invito che viene dall'alto, l'invito a diminuire il numero
delle Messe.
E mi sembra di cogliere -tu dirai che sono il solito impenitente
sognatore- un desiderio di non appiattimento della vita,
quel desiderio che abita e fa trasalire tanti tuoi scritti.
Forse ci porta qui il desiderio della Parola, una parola
che ci rimette in cammino quando stanchezza e delusioni
spingerebbero ad arrenderci, una parola che da seduti ci
rimette in piedi.
A volte mi capita di pensare che cosa sarebbe oggi la nostra
vita se non ci fosse stata la cadenza domenicale a segnarla
pur in mezzo alle nostre apatie e ai nostri cedimenti. Quali
parole di Dio, di Gesù, rimarrebbero nella memoria
del cuore?
Proprio qualche giorno fa nel matrimonio di Angela e Pier,
nella nostra chiesa, è stato letto un brano di Italo
Calvino, tratto da "Le città invisibili",
dove si parla di una città, Eufemia, dove la vita
non è ridotta a "vendere e comprare", ma
ci si raduna la sera e ci si dà tempo a raccontare.
Emozionante diventa nella sera, fino a notte inoltrata,
parlarsi, raccontarsi, scambiare le memorie, le memorie
che ci fanno vivere, che non ci fanno appiattiti, inariditi,
ingrigiti nel "vendere e comprare".
E non potrebbero essere questo, o anche questo, le nostre
liturgie domenicali? Luogo della memoria che salva dall'inaridimento?
Vorrei
anche aggiungere che ora, sempre più, -e non sempre
ce ne accorgiamo- approdano alle nostre eucaristie domenicali
sorprendentemente uomini e donne in ricerca. Dovrebbero
trovare, come giustamente osservi tu, non volti annoiati,
spenti, non gente seduta, ma una razza di nomadi dell'assoluto,
nomadi e compagni di viaggio.
Mi è successo più volte, non poche volte,
in questi anni -mi è capitato anche ultimamente-
di sentirmi dire: "Erano anni, anni ormai che non frequentavo
più le chiese. Nella mia ricerca sono capitato qui
e sono stato conquistato dal clima della celebrazione. Era
come se mi sentissi accolto".
Tu mi capisci, quando una persona parla di un clima che
ha trovato, non parla di un prete. Non basta un prete per
fare clima, parla del clima che si respira in un'assemblea.
Un clima che va custodito, che va certamente reso più
intenso, che vibri, come dici tu, anche negli occhi, negli
sguardi, nel calore di un gesto che Gesù volle sotto
il segno di una cena.
Ma
tu, Cesare, poni un problema, un'interrogazione, che attraversa
gran parte della tua lettera e riguarda l'assenza dei giovani,
la fascia sotto i trent'anni.
Dici la verità. La nostra chiesa ha visto con gioia
in questi ultimi anni presenze sempre più numerose
di giovani coppie, dei loro bambini, che hanno il loro modo
strano, fuori regola, di lodare Dio.
Ma i più giovani -tu chiedi- perché sono assenti?
E dai un consiglio: "Da domenica prossima" -dici-
"devi indicare una scelta radicale e comunicare: cari
fedeli, da domani ridurrete le vostre spese a quelle necessarie,
darete tutto ciò che avanza a chi ha meno di voi.
Solo così potrete chiamarvi cristiani e varcare la
soglia di questa chiesa, sentendovi figli di Dio".
"I fedeli" -tu scrivi- "si ridurranno a un
decimo, ma vedrai che cominceranno ad arrivare i giovani
che adesso mancano".
Il
problema che tu poni è quello di un annuncio che
non impallidisca la radicalità del Vangelo, della
fine cioè di mediazioni e doppiezze.
Forse non mi appartiene il tono forte, fustigatore, per
fare un esempio quello di Giovanni Battista; anche perché
te lo puoi dare solo se tu per primo vesti peli di cammello
e ti nutri di locuste e miele selvatico.
Il tono può essere anche il mio forse, quello di
voce debole, ma l'annuncio non può essere debole.
Vorrei, Cesare, che abitasse sempre nelle mie omelie l'incandescenza
e la sovversione del Vangelo. E deve essere incandescenza
e sovversione innanzitutto per me e poi per tutti. Il problema,
se mai, non è di allontanare quelli che frequentano
le chiese, ma di lasciarci contagiare da questo fuoco. Che
nella voce debole abiti il fuoco.
Verranno i giovani, quelli sotto i trent'anni? Vorrei aprire
con te in un'altra lettera questo discorso. A volte ho la
sensazione, spero di sbagliare, che li abbiamo ampiamente
clonati. Sì, dico, loro che dovrebbero accendersi
alla profezia del Vangelo. Hanno seguito l'esempio. Purtroppo.
Buttare soldi nell'ultima moda, l'auto, il computer, i telefonini,
i vestiti, i viaggi stanno diventando anche per loro un
mito. Li abbiamo ingrigiti prima del tempo.
E forse non basta più stare nelle chiese. Dobbiamo
riprendere il gusto di attraversare, come faceva Gesù,
la città. E di ascoltare la voce e il vuoto. E che
il loro cuore e il nostro arda alla Parola.
don Angelo
L'articolo
di Cesare Viviani è apparso su "Vita Pastorale",
maggio 2002, pagg. 16-17.
don
Angelo
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