articoli di d. Angelo


 

LA STRANEZZA DEL NUMERO TRE

Vorrei scrivere della stranezza del "3".
Il quartiere non è dei più tranquilli della città. Con un eufemismo -così fa meno impressione- lo collocherei tra quelli "problematici".
Qui le notti conoscono di tanto in tanto il lampeggiare delle auto civetta della polizia, conoscono pattugliamenti e qualche rastrellamento.
L'androne è disadorno, le buche delle lettere in parte divelte, il resto di fogli bruciacchiati per terra sono spia di drammi e disagi.
Se ti rimanesse la facoltà di scegliere casa, ci giurerei, la sceglieresti altrove. Qualcuno l'ha scelta proprio qui. Che strano, mi dico. Poi mi ricordo: non è forse questo che ha fatto il Signore?
Conosco l'androne e anche il grande cortile, dove ad esibirsi, più che le ortensie sono i bidoni grigi, allineati in rassegna, della spazzatura.
L'ascensore c'è da poco. L'ho visto in costruzione. Poi, per mesi e mesi, in attesa. Furono più di nove mesi, come se il parto si fosse arrestato.
Fisso i numeri nell'ascensore prima di schiacciare il pulsante. C'è la stranezza del "3". Il numero "3" sulla pulsantiera ha già perso colore. Come succede a qualcuno di noi, pochi giorni dopo il rientro dalle vacanze al mare o in montagna.
Come se il "3" fosse stato sottoposto a maggiore fatica, a continua pressione di dita.
La stranezza del "3" mi mette di buon umore: al terzo piano c'è una casa, una casa qualunque, dove si legge la Bibbia. E arrivano gruppi di amici, gente di confine -parlo del confine della fede- ad aprire il Libro.
La colpa dello scolorimento del numero "3" -lo potrei giurare- è loro. Il condominio potrebbe far causa. A loro.
La stranezza del numero "3" e il suo scolorimento fanno sì che, prima di premere il pulsante -è un attimo- mi senta sobbalzare il cuore. È vero, tu mi dirai, che mi sobbalza per poco -altro il sobbalzare del bambino nella donna gravida del vangelo- ma è il destino di chi va in cerca di segni se pur piccoli e se ne innamora.
Vallo a dire a qualcuno che c'è un ascensore che ha faticato per la Parola di Dio. Ti prenderanno, giocoforza, per matto.

Allarga la tenda. Si è allargata anche la casa. Non ha saloni. I metri quadri in una casa di ringhiera sono pochi, ma la differenza è che non sono avari. Anzi sono accoglienti. Accoglienti della diversità. Tengono conto, senza eccessi di insofferenza, degli imprevisti e dei ritardi di qualcuno: basta una partita, una finale di coppa campioni a mettere in ginocchio una città. A bloccare una città. Non a bloccare questo strano convenire.
La stranezza del "3", la stranezza dei metri quadri superoccupati e superaccoglienti. Ora la stranezza del discorso della sera.
La finestra è aperta, filtra la luce fioca, l'ultima, del giorno. Entra senza ferire, non acceca, non impone, riposa sui volti. Luce buona, senza arroganze. Passo in rassegna i volti, stanchi della giornata. Sempre lunghe le nostre giornate.

Dentro questa luce il discorso della sera, il discorso sull'angoscia, l'angoscia che raggela il cuore.
Una voce e poi l'altra vanno a segnalare il male che ci accomuna. Ci accomuna e ci consuma. E sei, così ti sembra, allo stoppino.
Angoscia per le piccole cose e angoscia per le grandi. Angoscia per l'insicurezza del domani e per la precarietà del presente. Angoscia di pochi, angoscia di tutti. Angosciati per se stessi, ma, forse, ancor più per gli altri, gli altri cui vuoi bene. Angoscia che oggi, più di ieri -anche questo, effetto della globalizzazione- ti si riversa dal mondo, dal mondo intero, globalizzazione dell'angoscia.
Angoscia che non è più debolezza dei giovani, ma anche dei meno giovani. Non è più affare delle donne, ora anche dei maschi. Da tutti, chi più chi meno, ingenuamente, ossessivamente rimossa e mascherata. Perché l'immagine che ha cittadinanza è un'altra, è quella dei vincenti.

Angoscia di cui ora una voce, ora un'altra, vanno a ricercare il cuore, il cuore freddo. E lo intravedono nella perdita dell'altro, nella solitudine, nell'assenza di relazione. "Perdita" e "assenza" sembrano fare il nome dell'angoscia.
"Ognuno sta solo sul cuore della terra
trafitto da un raggio di sole
ed è subito sera" (S. Quasimodo).
Versi del poeta, percorsi e ripercorsi nel cuore, nel cuore e nella vita, e non in un'ora soltanto, versi non consumati, portano orme, le nostre.
Dalla finestra ora non filtra più luce. Filtra l'ombra, quasi oscura, della sera. I volti sono segnati, ma non sono arresi. Nascono interrogazioni nella casa al terzo piano.
Perché oggi? Perché oggi più di ieri angoscia e depressione? Da dove l'occupazione del territorio?
Qualcuno va sussurrando che causa è la scomparsa del sacro. Altri va suggerendo che in crisi è la relazione. Altri ancora vanno dicendo che i miti del tempo, quando sono menzogna, generano mostri.
Ci angosciamo se non siamo all'altezza, ci angosciamo se non abbiamo tutto sotto controllo, ci angosciamo se non possiamo prevedere con certezza, ci angosciamo se rimangono ombre e non è tutto chiaro, ci angosciamo per le opere delle mani che hanno la misura della nostra debolezza.

E nascono, nella casa al terzo piano, intorno al tavolo, suggestioni, tracce da sperimentare.
Quasi un invito a riconciliarci con la vita, con l'esistenza così com'è. La nostra è un'esistenza segnata dalla contradditorietà: "c'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante…" (Ql. 3, 2-3).
La nostra è un'esistenza segnata dalla incompletezza, dall'incertezza e dal dubbio. Forse che un figlio perché non è perfetto, perché non è a tua immagine, non è bello, non l'ami?
E chi mai può farci credere che c'è una soluzione a tutto? Chi mai può venderci il mito dell'onnipotenza, radice segreta di tante frustrazioni e infinite angosce?
Bisogna uscire al più presto dall'inganno. Non è forse vero che "la bellezza della vita è nella sua imperscrutabilità, è nel gioco intricato dei suoi enigmi che non si concedono a facili soluzioni"? (U. Galimberti).
L'enigma della vita, del presente e del futuro, può essere vissuto nell'angoscia o come il labirinto delle ininterrotte scoperte, degli spiragli di luce. E noi sedotti, sedotti da brividi di luce.
Gesù, grande conoscitore del cuore degli umani, ci aveva messo in guardia dall'inganno dell'eccesso della preoccupazione: "E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?" (Mt. 6, 27).
E non ce lo diceva -come alcuni purtroppo ci hanno insegnato- per togliere colore alla vita, ma perché, salvati dall'affanno, potessimo incantarci davanti al nascere quotidiano del sole, che splende sul campo dei buoni e dei malvagi, ai gigli del campo vestiti meglio di Salomone, agli uccelli del cielo nutriti sorprendentemente da Dio. E diceva: "A maggior ragione voi".

Medicina vera all'angoscia, medicina che non ha nulla a che vedere con altre, contrabbandate come miracolose, è far memoria, nel cuore, del Padre, che è nei cieli ma anche sulla terra, lui che non dà dimostrazione di paternità togliendo dal cammino dei figli la durezza della vita, ma dà dimostrazione sostenendo i figli perché non vengano meno.
Medicina all'angoscia -è un coro di voci- è la relazione.
Non sempre puoi togliere un peso dalle spalle degli altri, quello che puoi augurarti è che la tua vicinanza consenta all'altro di non rimanerne schiacciato, che la sua vita non rimanga per sempre devastata e segnata.
Ascoltare l'altro, essergli vicino, toccarlo, camminare insieme, entrare in relazione abbattendo le formalità, dando intensità, passione, sentimenti alla relazione, sembra segnare strade non dico per l'eliminazione di ogni angoscia, ma certo per il contenimento della sua azione devastante.
In un suo commento al miracolo di Gesù sull'indemoniato di Gerasa, Eugen Drewermann scova un'interpretazione, che forse può far torcere il naso a molti esegeti, ma rimane comunque affascinante:
"È uno dei rari esempi nella Bibbia in cui Gesù comanda a un demonio senza avere il potere di farsi ubbidire. Gesù deve perciò ricominciare un'altra volta tutto da capo, chiedendo il nome dell'ossesso. È questa infatti l'unica via che conduce fin dentro il ghetto dell'angoscia. Tutti gli altri finora erano venuti da quest'uomo di Gerasa con catene e ceppi e avevano fallito contro la sua furia di libertà o, forse meglio, contro l'anarchia della sua vulnerabilità. Anche l'ordine autoritario di Gesù si infrange contro la resistenza di questo malato. Se vi è una chiave che dà accesso alla sua vita distrutta e scissa, questa consiste nella domanda di Gesù: "Tu, come ti chiami? Qual è il tuo nome?". È questa l'unica domanda in grado di guarire davvero".

Chiamare per nome. E comprare un campo, ultima suggestione della Bibbia. Dio chiede a Geremia di comprare un campo proprio nel territorio invaso dai nemici. E se fosse invito a dar vita a un gesto nuovo e bello, non importa se piccolo, proprio nei giorni della paura? Forse avremmo rotto l'incupimento una volta per sempre.

Si è fatto tardi nella casa al terzo piano. Qualcuno ha acceso il forno. E la casa fu piena del profumo della focaccia.

don Angelo


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