articoli di d. Angelo


 

LE ACQUE DELLO TSNAMI E I VOLTI DELLA BENEDIZIONE

Ottavo piano. Da dove puoi guardare il cielo. Questo di Milano e oltre. Quasi senza barriere. Il mattino è pulito. Come gli occhi dell'amica che ti parla, chiari a dispetto dei suoi novanta e più anni. O forse in forza dei suoi novanta e più anni.
E scivoli, mentre ascolti, in un altalena continua, senza soste, dai suoi occhi alle viole colorate, brivido di colore, sul davanzale, quasi sussulto di resistenza, di gioiosa resistenza all'impero dell'inverno. Scivoli con gli occhi allo sconfinato dell'orizzonte, ma ancora più in là. Perché pensieri e discorsi, da otto giorni a questa parte, sono su altre terre, risucchiate dall'onda cieca e dall'insulto dello tsunami.
Anche i pensieri della donna, come forse i nostri, fanno resistenza e interrogazione. Nonostante la stabilità dei novanta e più anni, nonostante le tragedie umane di cui i suoi occhi furono testimoni nel tempo. Fanno resistenza.
"Il Papa di Roma" dice l'amica "ha ricordato a noi e al mondo, a consolazione, che Dio non ci abbandona. Ciò non toglie che ci rimangano brandelli di immagini negli occhi e volti, volti, volti di bambini". E la fatica, sì la fatica di comporre, di mettere insieme.
Qualcuno di noi, io per il primo, forse più di altre volte, ne patii il disagio, la sera dell'ultimo giorno dell'anno, quando fummo chiamati, come per tradizione, a cantare il Te Deum. Tutti, io per il primo, piccola misura, a confrontarci con il mistero che eccede. Quasi scosso, lo confesso, dall'eccesso del male.
Noi tutti, nella chiesa colma di luce, come affaticati, curvati da grave peso per l' immane tragedia che da giorni ormai abitava i nostri occhi e il nostro cuore.
A voler essere sinceri, cantammo sì nella sera il nostro Te Deum. Lo cantammo, ma lo sentimmo anche quasi soffocare nella gola. Nonostante tutte le nostre invenzioni teologiche, a qualcuno di noi, a me sì, lo confesso, era tremata la fede in quei giorni.
Non sarà certo Dio a volere questa spietata distruzione. Ma rimangono i "perché", i nostri "perché" inquietanti. Che la natura si scateni contro i più poveri tra i più poveri della terra! Non è forse scritto: "Monti e abissi del mare lodate il Signore"? E non abbiamo sempre detto che la creazione porta i segni della bellezza di Dio?
Fede non è, come spesso si tenta di accreditare, attenuazione del grido. Fede non è far tacere le domande con tortuose e consolatorie risposte, bensì porre le domande estreme e resistere nonostante tutto. Davanti a un Dio nascosto -dov'è Dio?- che tace.
Porre le domande a Dio e discutere con lui non sarà forse segno di fede molto più tenace che tentare di difenderlo nascondendo a noi stessi e a lui il grido che sale dall'umanità e dalla terra?
"Nel mondo cristiano" dice Paolo De Benedetti, carissimo amico "si fanno le domande ma si vogliono le risposte, possibilmente da un'autorità. Nel mondo ebraico l'importante è fare le domande e poi magari discutere. Comunque siamo convinti che il numero delle domande sarà molto maggiore delle risposte che potremmo avere. E questo è un bene. Anche perchè la vita del mondo che verrà -pensavano i maestri- consisterà nel fare domande a Dio e ricevere risposte. Nel Qoelet, libro biblico che getta infiniti dubbi su Dio, una delle parole chiave è "chissà", "chissà se…", "chissà che…".In un certo senso le domande fatte a Dio consolano Dio. Mi riferisco a Isaia 40,1: "Consolate, consolate il mio popolo!" che una interpretazione rabbinica legge anche così. "Consolatemi, consolatemi, o popolo mio". In che cosa possiamo consolare Dio? In tanti modi. Edgar Doctorow nel suo romanzo In principio, narra un bell'episodio. In un ghetto, finita la riunione, il rabbino si calcò in testa il cappello sgualcito, uscì e disse. "Vado a pregare Iddio per farlo esistere!". Dio ha bisogno che noi lo facciamo esistere. Anche il poeta italiano Giorgio Caproni, di convinzioni atee, invoca paradossalmente Dio perché esista. La cosa è molto strana e significativa".
Fede dunque non è cancellare il grido, ma tenere insieme. Tenere insieme il grido e la promessa.
Come facciamo fatica a capire, a comporre nella nostra povera mente frammenti di verità che sembrano così distanti, così lontani. Come a Giobbe, spesso anche a noi non rimane che il silenzio.
E al cuore ritorna il silenzio di Maria. Nel testo del vangelo letto proprio all'inizio dell'anno era scritto: "Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore". Ma nella versione greca il verbo "sumballo", più che meditare, significa "mettere insieme".
Che cosa cercasse di "mettere insieme" Maria non è facile per noi capire. Forse non è così azzardato pensare che anche per lei non fosse così ovvio mettere insieme l'annuncio dell'angelo: "lo darai alla luce, sarà chiamato figlio dell'Altissimo" e il fatto che per quel figlio dell'Altissimo si fossero mossi solo dei pastori, una razza di sospettati. C'era tanta fatica nel mettere insieme. Così come un giorno le toccherà fatica e quale! quando si tratterà per lei di mettere insieme che lui morisse in quel modo sulla Croce gridando "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" e fosse il figlio di Dio.
Ma forse è proprio in questo chiarore che noi troviamo una misura di consolazione al nostro cuore: in un Dio che il dolore, la tragedia, l'angoscia non l'ha guardata dall'alto, ma l'ha attraversata, l'ha sperimentata tragicamente nella sua carne, condividendo il nostro grido e insieme la fiducia nella Promessa.
Ecco perché anche in giorni di lutto e di tragedia ci fu possibile, senza ipocrisie, cantare il nostro Te Deum e ringraziare: "Soccorri i tuoi servi, Signore, che hai redento con il tuo preziosissimo sangue". Hai attraversato la tragedia, la tragicità del vivere. Come noi. Come noi hai portato il peso. Non sei semplicemente un Dio cui fare domande e noi non finiremo di fartele, ma sei un Dio che condivide con noi le nostre domande. Fino a quella estrema, quella che viene dalla sensazione di essere abbandonati dal Padre che è nei cieli. Ed eri Figlio di Dio! "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"
Ma il passo successivo, quello che immediatamente segue le nostre pur giuste, legittime, sacrosante domande a Dio, il passo che ci salva dalle nostre interminabili dispute teologiche è quello del prenderci cura delle ferite.
Questo, lasciatemi dire, è forse il vero miracolo, quello di credere che, nonostante ciò che i nostri occhi hanno visto e vedono -vedono l'orrore- rimane tanto, proprio tanto da venerare sulla terra. Venerare i morti e venerare i viventi, venerare le case e venerare i volti, venerare le tracce del bene.
Venerare! Un verbo, questo, un po' dimenticato, poco esercitato. O forse, per lo più, riservato ai simboli sacri. Da quando il Signore Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza, sua immagine e somiglianza per il solo fatto di essere uomini e donne, da allora c'è tanto da venerare in ogni essere vivente sulla terra. Ci accompagni nella nostra vita quotidiana questo sguardo di venerazione. Venerare, un verbo da reimparare. Troppo l'abbiamo dimenticato.
Se veneri, non puoi lasciarti prendere dal desiderio del male. Questo il messaggio che ci ha lasciato la giornata mondiale della pace. L'invito di quest'anno è un'esortazione della lettera di Paolo ai Romani. Eccola: "Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male " (Rm 12, 21). "Non rendete a nessuno male per male" dirà ancora Paolo. Pensare di vincere il male con il male, dice il Papa, è una menzogna. "La violenza distrugge ciò che sostiene di difendere: la dignità, la vita, la libertà degli esseri umani".
Non la violenza, ma la venerazione.
"Vinci con il bene il male". La catena di solidarietà, cui stiamo assistendo in questi giorni, va in questa direzione. Ci è difficile capire il mistero di questo male. Non perdiamo tempo. Vinci con il bene il male.
Con la sua aggressione spietata lo tsunami ha messo davanti agli occhi di tutti, o se non altro di coloro che secondo il vangelo hanno occhi per vedere, anche un altro male che inconsciamente o consciamente allontaniamo dai nostri occhi e dalle nostre riflessioni: questo convivere drammatico di terre e spiagge dorate, celebrate ed esibite in tutti i modi dai nostri operatori turistici con situazioni ad uscio di una povertà disperante, raggelante. Il paradosso dell'esibizione dell'opulenza in contesti dove silenziosamente urla l'assenza di ciò che minimamente necessita a una vita che ancora voglia dirsi umana.
Vorremmo augurarci che quanto di questa incongruenza è andata svelandosi ai nostri occhi in questi giorni, quanto di assurdo e di paradossale ci è stato rivelato, non si cancelli dalle nostre memorie in breve tempo..
Sembra poco, troppo poco e in qualche caso scandaloso, che di questi paesi ci si ricordi solo perché sono i paesi della nostra festa e non della festa di chi da sempre li abita e a cui appartengono o ci si ricordi solo quando a investirli è uno tsumani che poco o tanto investe anche noi. Anche quelle terre vanno venerate, i loro abitanti vanno venerati, le loro tradizioni sono degne di venerazione.
Dentro giorni che qualcuno ha chiamato giorni di maledizione è risuonata nella liturgia del primo giorno dell'anno questa parola che ci lasciamo quasi come un augurio. La parola è custodita nel libro dei Numeri: "Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare su di te il suo volto". Dove la benedizione è legata al volto.
Innanzitutto il volto di Dio, il volto luminoso, non corrucciato, non sdegnato, ma benevolo, accogliente, fiducioso di Dio, che ci è apparso in Gesù di Nazaret. Ci accompagni lungo l'anno e sia una benedizione per tutti noi.
E benedizione, benedizione vera sia anche il tuo volto. Sia benedizione il tuo volto per la benevolenza, la vicinanza, l'accoglienza che lo abitano. Sia una benedizione per quanti ti incroceranno, dentro una società che sembra non aver più tempo di indugiare e sostare. Ritornino i volti. E sia una benedizione il tuo volto.

don Angelo


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