articoli di d. Angelo


 

SABBIA, POZZO, NIDO, CAREZZE


Scrivo, ma è come se avessi polvere in gola. Si è alzata a distanza. A distanza di migliaia di chilometri, ma ce la portiamo in gola da quando abbiamo visto con sgomento sfarinare una città. Quasi fossero i castelli di sabbia dei bambini sulla rena dei nostri litorali. E invece erano torri e mura e case, un paese e i sogni. E a soffocare erano occhi coperti di sabbia, bocche inghiottite di polvere. E quanti i giorni del lamento, quante le ore, se li volessimo piangere ad uno ad uno, ad uno ad uno dei cinquantamila.
Scrivo come avessi un male in gola. Per non dire nel cuore. Polvere e sabbia che nemmeno le piogge invasive, insistenti di questi giorni sono valse a spegnere o a placare.
Vado mendicando a conforto ricordi né so se è fuggire la realtà o tentativo di "rimettere al mondo il mondo" direbbe Maria Zambrano. Quasi una voglia di nascite, dentro notizie di morte.
E mi rimangono brandelli di immagini vive nello sfarinare di un mondo, quasi sussulti contro una potenza arrogante di morte che vanta strapotere. A distruzione. Sussulti, soffio di futuro il bambino di pochi respiri, che più fragile non c'è, e a sua difesa, difesa di vita, il seno di una madre, calore che non si consuma. E al limite dell'arco, al limite opposto, quasi confine all'arco, la vita che sguscia a fatica, ma viene, dagli occhi senza paura di una donna carica di anni e di preghiere. Sgusciare di vita da rughe e grinze che contano gli anni della donna.
E il cielo che incrocia la terra a un estremo e all'altro dell'arco: pochi giorni, novanta e più anni. Poco fiato o respiro lento.
E vivo. Vivo di immagini. Poco conta se piccole, purché riposino. A dimora nell'angolo segreto della memoria. Piccoli segni che ad ognuno di noi è dato custodire o forse anche sussurrare a colui cui la speranza vien meno né "ai nuovi giorni stanco non sa crescerla".
Ti racconto regali. Non sono i soli, ma sono regali che in compagnia di altri hanno varcato nella memoria la soglia, da un anno a un altro.
In vigilia di Natale due amici, molto cari, mi hanno regalato, quasi un simbolo, un piccolo pozzo di legno. E c'è la fune, la carrucola e il secchio pure di legno, che puoi tirare su e giù.
Accompagnavano, come suono, il regalo queste parole bellissime: "la stabilità e la profondità del pozzo che incontra la mobilità e la fluidità dell'acqua".
Il loro regalo e le loro parole alludevano, è vero, ad altro, ma in me hanno destato la memoria dei pozzi della Bibbia. Il pozzo era luogo della sete da arsura, ma era anche luogo dell'innamoramento, luogo di appuntamenti per innamorati. Mi sono detto, ricevendo il piccolo pozzo di legno, che al Natale avremmo potuto dare quella immagine, l'immagine del pozzo luogo di un appuntamento. Al pozzo c'è Dio e c'è questa umanità. Come al pozzo di Sicar. Si sono a lungo cercati. Al pozzo della nascita del Figlio dell'uomo si sono trovati.
E il pozzo dice stabilità: questa nascita dice che Dio per sempre è legato a questa terra. Inestricabilmente.
Questo "inestricabilmente" è la solidità del pozzo. Ti dirò che mi lascia più di un sospetto l'uso che si fa a parole e anche a fatti dell'immagine della solidità, quella di Dio e quella dell'uomo. Ti succede quando senti citare, dalle Scritture Sacre, che Dio è roccia. E ti prende paura che sia roccia che incombe o roccia glabra senza appigli. E ti prende paura che Pietro, lui pure chiamato roccia, sia immagine di una chiesa imponente e gelida, come certe costruzioni che abbiamo negli occhi. Senza calore.
Ed è triste fraintendimento, perché, se di solidità si parla, è unicamente per dire "io ci sono", il "ci sono" che dimora nel nome misterioso di Dio, nel suo tetragramma. Il "ci sono" dell'amore.
Puoi attingere al pozzo d'acqua: la fluidità. L'acqua non è a livello di strada né di deserto. È a livello di cuore. E per attingere non basta un ordine, né basta volerlo, né basta la nostra fretta che genera quasi sempre collisioni e non incontri.
È paziente, non conosce le nostre impazienze l'incontro di Gesù al pozzo, l'incontro con la donna di Samaria. E la carrucola della pazienza di Dio è un suono come di flauto nel silenzio teso del deserto, suono che accompagna l'ora dell'incontro, nell'assetato distesa di sabbie accecate di sole, fino ad arrivare al punto della sete, al punto dell'acqua viva.
Abbiamo tutti sete di incontri. E che siano veri. Al punto della sete e dell'acqua viva. Dentro una società che ci fa per lo più passanti, e non uomini e donne del pozzo, della sosta.
Miracolo sarebbe fermarsi. E parlarsi. Ma anche le parole possono risuonare vuote, un parlare per parlare, non attinte per carrucola al segreto del pozzo.
A volte la società stessa con i suoi ritmi ci costringe, quasi un'espropriazione. Leggevo questo dolore, giorni fa, nella confessione di un amico: "non abbiamo quasi più il tempo di parlarci. E se ci parliamo, ci diciamo che cosa dobbiamo fare e non che cosa proviamo dentro". E la carrucola finisce per rimanere con la corda a metà.
E non sarà già questo un vangelo, una buona notizia, notizia da nascita, che ci sia un incontro e non solo un passare, passanti. E ci siano parole che toccano il segreto del pozzo. E scorra acqua viva. Parole, oserei dire, innamorate. Secondo il ricordo di tempi lontani, quando nel gergo, del nostro dialetto, di due che si erano innamorati, si diceva "si parlano". La Parola si è fatta carne: scrive Giovanni nel prologo del suo vangelo. Si è fatta incontro e non puro passaggio. Parole come incontro e non come puro passaggio.
La parola che ci ferma e accende l'incontro è la parola che diventa carne. Le altre parole ci lasciano passanti, le senti e te ne vai. Forse anche per questo nella nostra chiesa, dopo la lettura del prologo del vangelo di Giovanni, ci viene spontaneo pregare perché Dio ci liberi dalle frasi fatte che non toccano il cuore, dalle parole arroganti che generano distanza, dalle dichiarazioni solenni che ignorano i problemi veri della vita, parole che non generano incontro ma distanza, lontane dalle parole del pozzo. E che i corpi, i nostri, finalmente lontani da disprezzi e sospetti, ritornino ad essere spazio di comunione, terra di avvicinamenti, intensità di svelamenti.
Pensieri nati da un pozzo. E pensieri nati da un nido che un'amica mi ha dato come suo regalo, regalo emozionante a Natale, un nido di merli. Mi disse. "Il nido che è in alto, per tappe poi scende, quando è inverno è a terra". Una discesa, mi sono detto, a salvezza. A difesa da raffiche di vento e di gelo. Una discesa, quella del Figlio dell'uomo, non certo a difesa da raffiche di vento e di gelo che non appartengono forse ai cieli nuovi e alla terra nuova. A prova di gelo sì la grotta della discesa, secondo le parole di una canzoncina che, ridestando nella memoria albe di vita, canta la grotta, il freddo e il gelo.
Eppure mi va di interpretare il Natale nell'immagine di un nido. Sarà perché mi perdo a guardare. Forse anche tu hai visto un nido da vicino, capolavoro del nulla, o, forse meglio, delle piccole cose, costruito con la virtù dei certosini. E fili e muschi e foglie e minuscoli legni a intreccio d'arte. E, quasi a togliere pericolo di ruvidezza, fili sottili e delicati nel concavo del nido che guarda il cielo, perché, si sa, i piccoli sono implumi.
Mi sono perso a pensare che anche la nascita di Gesù fosse un nido e che nell'intrecciarsi minuto dei fili, nell'intrico delle piccole cose, fosse scritta una parola per ciascuno di noi, fosse scritto: Dio ha un pensiero per te.
E poi l'immaginazione cominciò a volare, come succede ai frequentatori di nidi. Il Natale che è nido caldo per una notte e per un giorno di vento diventa infine trampolino da cui trasvolare, come i rifugi di montagna che sono vigilia di parete. E dunque ora ci tocca volare.
Mi capitò un giorno, in una parrocchia che è finestra sui monti, di incantarmi davanti ai ragazzi nella messa della loro prima comunione e di paragonarli ai piccoli del pettirosso cui la mamma porta cibo nel caldo del nido. Ma non certo per farli rimanere nel nido in eterno, come sembra a volte succedere nelle nostre case, ma perché abbiano forza, coraggio, entusiasmo di volare per i cieli.
Di volare alto o di volare basso? Di volare alto, se alto significa lontani dalle visioni meschine, dalle piccinerie del cuore, dagli intrallazzi, dai compromessi e dagli intrighi.
Ma forse di volare basso, se volare basso significa prendersi a cuore, prendersi cura, fermarsi davanti a uomini e donne feriti dalla vita.
I pensieri volavano tra un pozzo e un nido. Il Natale era passato. Era nato Pietro e, come succede spesso nella nostra chiesa, i bambini te li portano che sono di pochi fiati. Anche Pietro, il più piccolo dei nostri bambini, stava arrivando. La Messa era appena finita, le luci erano spente. Nella penombra della chiesa, nei pressi dell'altare, ci trovammo così più di uno, in cerchio, intorno a una carrozzina. E c'era Eugenia, la sua mamma, c'era un ragazzone bello e alto dei nostri ed altri ancora. E tutti a contemplare. Ora potevamo anche andare in pace da quella carrozzina. Aveva per noi l'immagine dì un nido. Che possa volare, mi dissi nel cuore. E, nel salutarmi, una mamma, un'amica, mi volle sfiorare con una carezza. Mi dissi che forse così è l'amore di Dio, un amore che non ti usa e non ti consuma, come una carezza.
Il Natale come carezza? Volli mettere fine al gioco, al gioco dei pensieri che erano andati di volo in volo. Finisco con la carezza. Ma nella gola, ti dirò, mi rimane, se pur tenue, il sapore della sabbia. Per il pianto soffocato di altri bambini.

don Angelo


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