IL
PROFUMO DELLA PICCOLEZZA
Chiedo
perdono, Marco. La tua lettera meriterebbe di diritto lo
spazio della interezza e non quello del frammento. Una pubblicazione
integrale, su questo foglio senza pretese. Lo meriterebbe
e non solo per i problemi che apre, ma anche per i sussulti
dell'immaginazione, per la vivacità dello stile,
per la bellezza dei riferimenti. Meriterebbe, sono un po'
partigiano, un posto in una antologia. Forse non lo troverà,
ma io ne tengo una presuntuosamente nella memoria, dove
di tanto in tanto mi capita di radunare qualche testo a
me caro.
La lettera in verità non era indirizzata a me, ma
a don Paolo, che, su tuo invito, qualche giorno fa me l'ha
passata. Ti dirò che l'ho letta e riletta. Godendomela.
Pur non essendo rivolta a me, mi chiamava comunque in causa.
Intelligentemente. Amichevolmente. Ammetto di impoverire
il tuo pensiero, stralciandone brani. Solo confido di non
tradirlo. Totalmente.
Per capire di cosa si tratta - scrivi a don Paolo - occorre
tornare indietro di qualche mese, al Maggio scorso, ad un
incontro di genitori in preparazione alle prime Comunioni.
Usiamo questo artificio letterario: ci troviamo dunque all'incontro
e tu ci parli della Comunione e della prima Confessione.
Tiri fuori uno scritto (del 2002) di don Angelo contro le
vestizioni, gli eccessi consumistici ecc. che ingombrano
questo tipo di cerimonie. Ne cito il passo che mi pare più
significativo: "Si stanno creando consuetudini sempre
più pesanti e opache intorno alla Messa di prima
comunione, consuetudini che non hanno nulla a che fare,
a volte persino fanno a pugni, con il gesto che si sta celebrando.
Parlo di una cornice sempre più vuota, vuota di vera
umanità e di mistero, per la quale il vestito dev'essere
elegante, i regali consistenti, le foto impeccabili, confetti
e partecipazioni quasi di rigore, quasi di rigore il rito
estenuante dei ristoranti. E forse neppure ci sfiora il
pensiero, quello decisivo: se l'eucaristia è vincolo
con Gesù, che ha a che fare tutta questa cornice
fastosa con il Gesù della cena, quello vero, quello
di Nazaret di Galilea?" Ogni tanto mi è venuto
in mente questo scritto di don Angelo (e il tuo commento,
tu eri d'accordo!) ma c'era un qualcosa che mi sfuggiva,
qualcosa che volevo rendere esplicita senza riuscirci. Oggi
improvvisamente, a Messa, ho capito quello che mi aveva
colpito nello scritto di don Angelo. Era lo scritto di un
giovane! Sì, di solito è un giovane che ha
quella tensione ideale, quella decisione assoluta, quasi
quella rabbia non mediata. Don Angelo aveva scritto una
cosa da ventenne! Si era ribellato, si era forse anche arrabbiato
mentre lo scriveva. E io che cosa ne penso, ora che mi si
è chiarito questo spiraglio, ora che ho capito che
don Angelo ha scritto una cosa da giovane?
E dopo aver evocato con un godibilissimo artificio letterario
una scalata del Politecnico da parte di tre contestatori
del Natale dei consumi in un lontano 25 dicembre 1986, tu,
Marco, tenti di dare spazio così alla tua riflessione:
Ma in fondo, riflettendoci con calma, siamo sicuri che noi,
con don Angelo e gli scalatori del Politecnico, abbiamo
proprio tutte le ragioni? Non è che l'eccesso di
anticonformismo è a sua volta una (seppur più
nobile) forma di conformismo? Un altro conformismo che invece
obbligherebbe magari tutti a novene, preghiere, comunioni,
discorsi impegnativi? Una dittatura del Vero (o quantomeno
del Nobile) in opposizione a quella dell'Effimero? Forse
vogliamo obbligare tutti a NON fare regali a Natale? A non
fare regali e pacchetti. A rinunciare al megapranzo coi
parenti che strepitano? E così, lasciami svolgere
questo - per me improbabile - ruolo di difensore delle tradizioni
e delle conformità, un ruolo che - credimi - svolgo
assai di rado. E che mi trova spaesato. Lasciami difendere
un po' l'araucaria del Lupo della Steppa, quella pianta
sul pianerottolo che nel capolavoro di Hermann Hesse simboleggiava
il tranquillo tran-tran della borghesia tedesca. Lasciami
dire che forse non è poi così male che i bambini
abbiano regali a Natale. Che le famiglie si incontrino,
che qualche parente ricordi delle ricette tradizionali.
Anche se, lo sappiamo, c'è una pressione sociale
a volte un po' fastidiosa, l'obbligo di sorridersi per persone
che non sempre sanno amarsi. Certo, tu ce lo dici, l'essenza
del giorno di Natale è la Messa di Natale. È
lì che bisognerebbe superare le nostre divisioni,
non davanti al panettone. Ma lo sappiamo, non per tutti
il Natale è una festa religiosa, per molti è
una festa e basta, una consuetudine o l'inizio di una settimana
bianca. E il Natale di un ateo che Natale è? Non
riesco molto a capirlo, forse è un giorno difficile
per un ateo. Un giorno da superare in fretta, per arrivare
al 26 Dicembre e poi partire con un rassicurante e prosaico
paio di sci sul tetto della macchina. (
) . Lo so,
naturalmente, che il Natale lo viviamo ciascuno a suo modo,
e ciascuno in modo diverso. Ciascuno dà il suo peso
e la sua importanza alle cose; quello che don Angelo ha
chiamato con forza "vuota cornice" per un altro
diviene invece "buona tradizione". Ahimé,
destino di noi umani, vivere le cose in modo così
diverso! E mi ricordo ancora de L'instostenibile leggerezza
dell'essere, delle parole fraintese, di quando Tomas e Teresa
visitano un cimitero. Per Teresa luogo mistico di raccoglimento
e pace e per Tomas semplice deposito di spazzatura in forma
di ossa. Qual è la mia risposta a tutto questo? La
mia strategia di quarantacinquenne? Lasciami allora esprimere
qualche parola di benevolenza per la tradizione, per la
ricetta tradizionale, che a volte porta anche il ricordo
di un antenato o rievoca luoghi e situazioni care. E questa
Festa, anche per chi non crede, assume in questa forma un
significato comune di continuità e di appartenenza,
lo stabilire un ponte tra gli anziani e i piccoli, nel radunare
e conferire identità a nuclei famigliari. E poi spiegami,
perché dovrei sempre fare il difficile, l'intellettuale,
e, nel momento in cui tutti si godono il pandoro, dire che
sbagliano? Sì, certo, è vero, la giusta iconografia
del Natale sarebbe forse la povertà, la capanna.
Ma in fondo questa tradizione di regali comunque ha preso
piede e costituisce momento di riposo e allegria per i bambini
(e non solo).
Leggevo. Rileggevo e ringraziavo. Perché è
dono degli amici spalancare orizzonti diversi, stimolare
pensieri che vanno oltre.
Scorrendo la tua lettera, mi è sembrato di capire
che la mia riflessione sulla cornice delle Messe di prima
Comunione poteva prestarsi a qualche equivoco e fraintendimento,
quasi fosse la mia una censura totale sul dono o la cancellazione
dell'ebbrezza della festa.
La vita di Gesù, cui spesso va il mio cuore, si muove
tra banchetti.
E, lui, l'eucaristia l'ha lasciata anche nel segno del vino
che dice ebbrezza, poesia e festa. "Anche quando digiuni"
diceva "profumati, sia sul tuo volto il segno della
festa". E non era certo un invito all'ipocrisia, uno
dei peccati contro cui Gesù ha tuonato più
duramente. Ha pure difeso la donna che l'aveva accarezzato
e unto. Con un profumo che le era costato un patrimonio.
La difese. Erano giorni, quelli, di grave turbamento per
uno come lui che si sentiva braccato dalla morte. Quell'unguento
era come abitato. Da un pensiero, da un affetto, da una
estrema compassione. Era un dono. Parlava.
Guai se mutassimo il volto dei credenti in figure spente,
in manichini grigi, in affabulatori del nulla, in fantasmi
senza passione. Tradiremmo il fascino incontenibile dell'umanità
di Gesù. L'umanità viva, attraverso la quale
ci ha raccontato Dio. Tradiremmo Dio.
Dove è in agguato, a mio avviso, un pericolo? E su
che cosa dunque dovremmo vigilare? Il vigilare della passione.
Fiuterei un pericolo là dove la cornice facesse così
mostra di sé da incorniciare se stessa o il vuoto,
il nulla.
Forse la domanda da osare alla tavola dell'Eucaristia o
alla tavolata del Natale, la domanda estrema che per pudore
forse non osiamo, è: "per che cosa oggi facciamo
festa?". Non sarà che non l'osiamo per il timore
di ritrovarci senza parole, o senza quelle decisive?
E che l'ateo o il buddista faccia festa a Natale, anche
senza pensare minimamente a Gesù, non può
che riempirmi di stupore ed emozione. È come annusare
che qualcosa di lui, di Gesù, è rimasto impigliato
nell'aria. Qualcosa di lui e di quello che lui ci ha insegnato
con la sua vita.
Troppo poco, penso, invece, per chi dice di avere una passione
per Gesù. Troppo poco che l'aria sia di festa solo
per i regali, regali senza memorie. Un pericolo, questo,
già intravisto e registrato, con una certa sofferenza,
da Gesù nel vangelo. E fu il giorno dopo la moltiplicazione
dei pani. La folla si diresse alla volta di Cafarnao in
cerca di lui. E Gesù ebbe parole da cui traspare
la tristezza del cuore. "Voi" disse "mi cercate
non perché avete visto dei segni, ma perché
avete mangiato di quei pani e vi siete saziati" (Gv
6,25). Sentirsi cercati non per sé, ma per i regali!
Che amarezza!
Per la folla quello era stato sì un pane, ma come
disabitato, pane senza la memoria di colui da cui veniva.
Non era dono, era una cosa.
Riconoscere il dono che abita le cose significa contrastare
alla radice la civiltà o l'inciviltà, perdonami,
dei consumi. Il prodotto si consuma e lo getti. Il dono
ha dell'inconsumabile. Una memoria vi arde, come brace silenziosa.
Il dono non lo getti. Custodisce per te un volto, che lo
rende inconsumabile. Arde un volto. Il volto non si consuma.
E, paradossalmente, meno vistoso è il dono, più
ci lascia intravedere il volto. Più vistoso è
il dono più forte è il rischio che sia in
ombra il volto, in ombra l'emozione di essere stati pensati.
Da qualcuno.
La festa non è nella fastosità dei doni. Ho
visto bambini sommersi dai doni e non avevano la festa negli
occhi, erano come consumati da una inquieta voracità.
Mi accadde di paragonarli ai bambini di un tempo cui bastava
un piccolo mandarino o la lucentezza di una biglia per far
tremare loro gli occhi. Di gioia. Non sarà che gioia
faccia rima, più forse di quanto pensiamo, con sobrietà?
O non dovremo educarci ed educare al dono? A percepire la
sottile magia che fa diverso, immensamente diverso anche
se uguale, il fiore che tu hai comprato da quello che ti
è stato regalato da una persona che ami.
Un bambino in questi giorni mi ha regalato un suo disegno,
figure lunghe e colori e ci ha messo pure il mio nome. Non
interessa al gallerista che pesa le opere a milioni o miliardi.
Sorriderebbe se qualcuno gli dicesse che lo vuole incorniciare.
Non è certo un Picasso, ma è abitato. Ho visto
disegni di bambini esposti nelle case, gallerie dell'araucaria.
Non c'è, Marco, qualche filo d'erba o forse un nido
d'uccelli tra i doni nella tua casa?
Che pena quando nel tran tran della vita si perde il colore
del dono, tutto è dovuto, tutto scontato. E più
si ha, più è dovuto, più è scontato.
E il pane, la lampada accesa, i vetri illimpiditi, le coltri
del letto, ridotte a cose, defraudate del profumo delle
persone che ogni giorno te ne fanno regalo.
Ma vorrei, Marco, lasciarti un'ultima domanda, e spero che
non sia domanda da ventenne. È la domanda sull'eccesso.
Sull'eccesso e sulla condivisione. Perché c'è
banchetto e banchetto, quello del pandoro ma anche quello
della cieca ricchezza. Proprio lui, il rabbi di Nazaret
che amava i banchetti, un giorno inventò una parabola
in cui si parlava di un uomo ricco, che vestiva di porpora
e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Il povero
giaceva alla sua porta. Ma non gli arrivavano nemmeno le
briciole del banchetto. Solo un cane, diceva Gesù,
a leccargli le ferite.
Costa poco, 20 euro, un mese di cibo per un bambino in Brasile.
Ma se di bambini ne hai ottocento? La lettera di Padre Clovis,
che me ne parla, è di oggi. Lo sento triste.
Celebriamo l'araucaria di chi non si accorge che stanno
gasando gli ebrei della porta accanto o l'araucaria che
soffia rami fino in Brasile?
Un
abbraccio, Marco.
don Angelo
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