LE
RADICI E L'ALTROVE
La notizia mi raggiunge via e-mail. La firma un'amica. Gli
occhi corrono a leggere. A perdifiato e poi a piccoli, piccoli
sorsi. Come succede quando a scriverti sono gli amici.
La notizia sembra incrociare sorprendentemente questo foglio
su cui - l'idea può sembrare bizzarra - ho chiesto
a Ornella di appuntare nomi, una lunga serie di nomi di
amici, amici della comunità. Ognuno li troverà,
poco più avanti, quasi ci avesse colto il desiderio
di riservare loro una parte centrale, il cuore di queste
pagine e della nostra comunità.
Nel mio pensiero andavo in questi giorni immaginando Ornella,
china a disporre nomi, uno accanto all'altro, quasi accarezzandoli,
con la sacralità che alcuni di noi sorpresero anni
fa, in una sinagoga a Praga, nel gesto di chi su pareti,
bianche di luce, custode della memoria, scriveva con venerazione
nomi, nomi e nomi, di ebrei deportati, oggetto di sterminio.
E il nome rimaneva acceso sulla parete bianca, quasi una
sfida all'insolenza di chi lo voleva cancellato, cancellato
per sempre.
Lontano da noi la pretesa di confrontarci con quella parete,
inarrivabile nell'emozione, incancellabile nel ricordo.
La nostra è una parete povera, povera e fragile come
questi fogli, ma l'atto di scrivere i nomi su queste pagine
custodisce, sia pure in misura minore, un briciolo di quell'emozione,
di quella sacralità.
Sono volti di amici che hanno in questi anni visitato la
nostra comunità, amici e testimoni da cui ci siamo
sentiti accompagnati. E noi ne facciamo memoria.
Proprio a uno di questi nomi, a uno di questi volti a noi
cari faceva accenno l'amica. Per dire di un suo improvviso
ricovero in ospedale. Ti succede a volte di misurare dall'inumidirsi
degli occhi, dalla fitta al cuore, quanto i volti siano
scritti nella parete che è dentro. Nella misura di
un'emozione quasi il grado di appartenenza.
I
nomi accendono memorie: ricordi la piega degli occhi, il
timbro della voce, la sala in ascolto, l'intensità
del silenzio, le parole e i gesti abitati, l'emozione palpabile.
E, nel dipanarsi dei giorni a seguire, fessure come di luce,
squarci nell'ovvietà.
Ti accorgi quanto sia bene prezioso ricordare. Dentro una
generazione che rischia la smemoratezza. Ce ne andiamo distratti
e boriosi, quasi ci fossimo fatti da soli, mentre una parte
di noi, Dio solo sa quanto grande, vive di linfa che abbiamo
assorbito. Noi siamo come contagiati, e non solo da parole,
da incontri più che da parole. Contagio di vita.
Segnati da eventi. E le persone sono evento, per chi resiste
alla smemoratezza. Saremmo diversi, sconfinatamente diversi,
se non ci fosse stata offerta l'avventura di incontrarci.
Me
lo dicevo, sere fa, ritornando dopo anni nei sotterranei
della Stazione Centrale. Per un ritorno di memoria, memoria
di ebrei deportati, schiacciati, disonorati in umanità
in carri della vergogna, carri bestiame.
Lasciando le ombre di quel sotterraneo, che odoravano di
pianti, camminavo - me ne accorsi e ne chiedo perdono -
lungo le banchine della stazione quasi solitario, nella
compagnia di pensieri più che degli amici, insofferente
al rumore vuoto dalla stazione.
Dentro, nel pensiero, a toccare quasi con mano quanto della
mia vita fosse stato segnato da quella memoria: mi vive
negli occhi l'abbaiare dei cani, aizzati dalle SS per assalimento
di ebrei, costretti al convoglio, e poi al viaggio, quale
viaggio, poi al lavoro ma forzato, poi all'asfissia dei
forni del campo. Poi
in nuvole grigie pesanti di fumo.
Il tunnel della stazione assurge a simbolo, simbolo delle
memorie di cui noi tutti siamo segnati. Ognuno di noi ha
un tunnel. A memoria. A contagio, contagio di vita.
Le rotaie infami, rotaie assordanti del disonore, oggi passano,
sono scavate dolorosamente nel cuore. E generano. Generano
resistenza, come se il convoglio partisse oggi. Ti fanno
resistente oggi. Contro tutti i convogli del disonore, contro
chi oggi ha l'insolenza di decidere per gli altri, di decidere
chi va mandato alla morte, per diversità di razza,
di cultura, di religione, di opinione.
Le
memorie - questo dobbiamo dire - non sono rami secchi, né
servono solo per le decorazioni, sono tronchi che si inteneriscono
a primavera. Le memorie sono come il seme gettato nella
terra. A destinazione di germoglio.
Per questo, fare memoria di amici o di eventi non è
operazione vuota, di nostalgia o di conservazione.
Se il seme rimane improvvidamente e gelosamente chiuso nel
buio della madia di casa non ha altra destinazione che il
rinsecchimento, un vuoto di futuro.
Getta il seme nel campo oggi, non farne un monumento immobile,
non fermare le memorie al passato. Accendile nell'oggi.
Di
questi tempi - lo confesso - questo a volte mi rende triste:
vedere le memorie svigorite, rinsecchite nella madia delle
case, ognuno nella sua casa, e non invece memorie, alla
prova dell'oggi, con l'esito paradossale della retorica
stantia delle parole, con la ricaduta pesante nella brutalità,
nella volgarità che quelle memorie pensavano di avere
una volta per tutte denunciato e allontanato.
La memoria non va fermata né va ingabbiata nel passato.
Ha come spazio l'"altrove", l'altrove della storia,
il cammino dell'umanità.
Per quale patologia dello spirito - me lo chiedo - succede
che oggi frange di popoli, che ancora portano nella carne
le cicatrici dello sterminio, si accaniscano per le vie
della violenza, del massacro, della distruzione? Abbiamo
già dimenticato gli occhi spauriti, interrogazione
da brivido, dei bambini all'ingresso dei campi dello sterminio?
Non ci sono oggi altri bambini, altri occhi?
L'oggi è l'"altrove" in cui le memorie
sono chiamate ad abitare, se non vogliono essere chicchi
induriti, rinsecchiti, con un unico destino, la decorazione.
Gli
amici che in questi anni ci hanno visitato - e da queste
pagine vogliamo attestarlo - sono stati per noi tutto fuorché
uomini e donne sequestrati nelle dimore del passato.
Una caratteristica li ha accomunati e li accomuna ancora
oggi: sono uomini e donne radicati profondamente, non hanno
radici scoperte o al vento. Ma con i rami abitano il futuro,
l'"altrove" del cielo.
L'essere radicati non ha mai spento in loro la passione
della ricerca.
Le
orme, quelle vere, spesso rimangono invisibili, perché
scritte sulle acque del cuore: "Sul mare passava la
tua via" - scrive il salmo 77 - "i tuoi sentieri
sulle grandi acque e le tue orme rimasero invisibili".
Le loro orme invisibili, le orme degli amici, furono incoraggiamento
alla navigazione, fuori dei porti troppo sicuri. Furono
incoraggiamento all'esplorazione più aperta. Di questo
siamo loro grati: non ci hanno consentito di rimanere nel
numero di coloro che preferiscono "stare con i piedi
per terra". La loro memoria, come il vangelo, non ce
lo consente.
Una cosa ancora sento il dovere di aggiungere: essi sono
stati per noi come simbolo. Di volti noti o meno noti che
hanno lasciato e lasciano quasi quotidianamente orme, orme
nel cuore. E forse non lo sanno. Come la ragazza che la
scorsa settimana è venuta in parrocchia a chiedere
una bandiera della pace. E mi diceva: "Se ci penso,
mi vien voglia di piangere". E le lacrime già
le inumidivano gli occhi. È corsa via. Forse per
nascondere gli occhi umidi di pianto. Anche lei nella mia
memoria, anche lei a segnalare un "altrove".
don
Angelo
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