NON
SOLO FOTOCOPIE
Forse
è un pensiero strano e te ne chiedo scusa. Uno di
quei pensieri che ti filtrano nell'anima per una fessura,
a dispetto della corazza che ti porti addosso, la corazza
di Davide, corazza imponente agli occhi turlupinati, vuoti
di criticità.
Le parole sono dell'Apocalisse e mi sono filtrate nell'anima
questa sera, quando nella penombra della chiesa, la nostra,
abbiamo celebrato la memoria di Alfredo e di tanti ragazzi
che ci sono stati strappati, brandelli di carne, in questi
anni. Portiamo cicatrici.
Sono stato ancora una volta sedotto dalle immagini, le immagini
custodite nelle parole sacre. Se vuoi le puoi trovare rapidamente:
è l'ultimo capitolo dell'Apocalisse, ultimo capitolo
della Bibbia, l'incipit dell'ultimo:
"Mi mostrò poi un fiume d'acqua viva, limpida
come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello.
In mezzo alla città e da una parte e dall'altra del
fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti,
produce frutti ogni mese, le foglie dell'albero servono
a guarire le nazioni" (Ap 22, 1-2).
Mi sono incantato. Mi sono fermato, come se qualcosa mi
struggesse dentro. Poi sono rientrato, troppo presto, nel
ruolo, quello di commentatore. Penso di aver sciupato l'incanto.
Ora che rileggo le parole, forse in un altro contesto, il
contesto di una casa, di un foglio, di un articolo, vorrei
limitare il danno, quello da cui un amico tra i più
cari vorrebbe salvaguardarmi, quando mi dice: "Leggi
alla tua gente il Vangelo. E taci. Non aggiungere. È
già detto tutto. Non rovinare".
Un
fiume d'acqua viva, limpida come cristallo, e l'albero dei
dodici raccolti. E la mia interpretazione in eccesso, oltre
le righe, forse bizzarra.
Le immagini dell'Apocalisse certo evocano l'approdo, l'approdo
futuro per uomini e donne consumati dalla sete, sete di
infinito, ma oggi, e ancor più domani, consumati
anche dalla sete dell'acqua che placa le gole riarse.
Noi che a fatica spiamo un raccolto all'anno non possiamo
non patire il fascino dell'albero dell'Apocalisse, l'albero
dei dodici raccolti, il fascino dell'inimmaginabile.
Ma-e ora vengo all'interpretazione bizzarra-l'albero dell'Apocalisse
è albero che sprigiona potenza e bellezza solo nel
futuro di Dio, o è anche albero che suscita energie
e nuova immaginazione nell'oggi, anche qui, su questa terra?
Non è forse un invito anche per noi a suscitare,
già da ora, da qui, l'inimmaginabile?
Possiamo
dunque immaginare qualcosa di nuovo, di diverso, tracciare
strade nuove, inesplorate o dobbiamo rimanere aggrappati
ossessivamente, spenti di ogni fantasia, a ciò che
dura da secoli?
Qualcuno va dicendo che questo, il nostro, non è
un tempo di pensatori, di grandi pensatori. È tempo
di organizzatori, di programmatori, tempo di aziende e non
di cattedrali, uomini dei calcoli e non uomini dell'inimmaginabile,
uomini del rattoppo e non uomini del vestito nuovo, uomini
degli otri vecchi e non degli otri nuovi.
"Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito
vecchio, altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio
e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa vino nuovo
in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli
otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi"
(Mc 2, 21-22): così Gesù.
E
se l'albero dei dodici raccolti fosse stato raccontato anche
per aprire porte ad immaginazioni nuove, per suscitare energie
nuove oggi? E se fosse invito ad uscire dalle secche del
"si è sempre fatto così, da che mondo
è mondo"? Ma siamo così sicuri che questo
è il mondo che sogna Dio?
Qualcuno, ai tempi di Gesù, avrebbe anche potuto
dire che si era sempre fatto così. Che nel giorno
di sabato non era lecito farsi curare. Ma Gesù chiamò
l'uomo nel mezzo "e guardando tutt'intorno con indignazione,
rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo:
stendi la mano. La stese e la sua mano fu risanata"
(Mc 3,5).
Il "si è fatto sempre così" può
dunque corrispondere a una durezza di cuore.
Posso
sbagliarmi, l'impressione che se ne ricava è che
per certi aspetti, i nostri siano tempi di rattoppi, rattoppi
su vestiti vecchi, proprio quando siamo chiamati urgentemente
da Dio a pensare, a pensare in grande, ad alzare l'attesa.
Il Cardinale, il nostro, ha invitato più volte a
guardare lontano, a immaginare. Anche per il carcere. Ma
noi abbiamo spento.
L'immagine della nave da guerra della Marina, messa a guardia
delle nostre coste, sta diventando un simbolo, checché
se ne dica. Se ci rimane un briciolo di fantasia, non può
che avere l'aria di un grande rattoppo. Facciamo rattoppi,
fotocopiamo il passato.
La soluzione è da secoli la guerra: è dottrina
sacrosanta. Chi oggi esplora altre strade? E la guerra va
poi per inerzia. Va anche quando non ha più ragione
di andare. Facciamo rattoppi, fotocopiamo il passato.
La soluzione è da secoli il carcere, è sempre
stato così da che mondo è mondo. Rinchiudere,
con un ritorno alle gabbie. Ma dove sta scritto -se lo chiedeva
a Natale l'Arcivescovo- che non possiamo inventare qualcosa
di diverso? La nostra fantasia è ferma al passato.
Persistiamo nei rattoppi. Fotocopiamo il passato.
Ma
l'arte dei rattoppi non è arte praticata solo in
campo civile, è ampiamente conosciuta, amata e praticata
anche in campo ecclesiale.
Vado per accenni e non sono quelli nodali, ma dicono. Dicono
qualcosa, pur dalla periferia.
La liturgia -ognuno di noi lo sa- parla attraverso i segni,
la bellezza dei segni, segni che dovrebbero far sognare
i cuori.
Da tempo qualcuno si sta chiedendo che segno possa essere
del pane l'ostia rotonda e bianca che tutti conosciamo.
I bambini guardano come se gli occhi fissassero il vuoto.
E vallo a spiegare loro che quello è pane!
La soluzione? Usiamo un' "ostia maior", un'ostia
più grande! Tant'è oggi a colpirci sono le
cose grandi. In memoria -memoriale!- di un Dio che si è
fatto piccolo. La fotocopia, un poco più grande,
per favore, visto i tempi che corriamo. Facciamo rattoppi,
fotocopiamo il passato.
E
continua la fotocopia dei sacramenti. La prima comunione
(ancora si fa fatica a dire "Messa di prima comunione")
a fotocopia del giorno del Matrimonio: i vestiti, se possibile
bianchi, i confetti, i pranzi, i regali
In aumento,
se non vedo male, la fotocopia. E, ora, i battesimi a fotocopia
della prima comunione: siamo arrivati ai confetti per il
Battesimo. Facciamo rattoppi. Fotocopiamo.
Non potremmo immaginare qualcosa di diverso, di più
evangelico soprattutto?
Siamo ai rattoppi, i rattoppi che allargano paurosamente
lo squarcio.
So,
e chiedo perdono, di aver esemplificato su temi minori.
Le questioni, i nodi sono ben altri, quelli che il Cardinal
Martini aveva sfiorato al sinodo dei vescovi, chiamandoli
sogni, i suoi sogni. Ma, sia pur per fessure minori, l'intento
vorrebbe essere quello di dar forza all'immaginazione dei
"piccoli", quelli che Erri De Luca chiama i "pedoni".
C'è da scommettere sulla fantasia dal basso e resistere
alle clonazioni dall'alto.
"Tempo di pedoni: i pezzi grossi della scacchiera chiamano:
"chi ci ama, ci segua", e i vassalli si accodano.
È tempo di pedoni, maggioranza dei pezzi. È
tempo di pedoni, pedine di nessuno. Se l'appoggio di un
corpo sta nei piedi, loro, i pedoni, sono l'equilibrio del
mondo".
Dopo
le storie dei nove mesi, potremmo raccontare altre storie,
storie di pedoni, che, in mezzo a noi, danno ancora spazio,
imprudentemente, alla fantasia. I segnali sono piccoli,
come i loro protagonisti, come il seme del vangelo interrato
nel campo.
Vanno i piccoli per le vie dell'immaginazione, resistendo
alla clonazione dall'alto, figure per lo più nascoste,
sconosciute agli occhi dei più. E io me ne innamoro.
Sanno inventare gesti.
Storia di una bisnonna di nome Maria, che, questo Natale,
ai pronipoti fece trovare regali dimezzati, perché,
era scritto, l'altra metà andava ai bambini afgani.
I pronipoti, non clonati, a condividere la gioia. Bisnonna
e pronipoti fuori dal coro. E non furono i soli. Ora cresce
la rete a Natale.
Storia di un ragazzo e una ragazza, sposi dall'estate, che,
sere fa, mi dicevano: "Sai, don Angelo, noi convivevamo
da qualche tempo ormai e la nostra era una casa attrezzata
cui nulla mancava. Che bisogno c'era di regali? Abbiamo
aperto un conto e a parenti e amici abbiamo detto che la
somma sul conto l'avremmo destinata ai poveri della terra.
Abbiamo raccolto milioni. Ci dici a chi possiamo destinarli?".
Ragazzi fuori dal coro.
Storia di ragazzi e ragazze, avviati -così si dice-
a brillante carriera, che hanno avuto il coraggio di tagliare.
Il lavoro e la carriera se li sentivano salire come droga
negli occhi fino all'accecamento. E ora sono in cerca di
spazi più umani. Meno soldi, ma salvi in umanità.
Fuori dal coro.
Storie di uomini e donne, piccoli sognatori: nell'impero
del grande mercato loro a inventare spazi di un commercio
che non affossi l'ultima speranza dei senza eredità
della terra. Fuori dal coro.
Storie di uomini e donne inimmaginabili. Ti accade di trovarli,
sempre loro, quasi un appuntamento, con la speranza dei
folli, su tutte le strade dove urla la fame e la sete di
giustizia. Fuori dal coro.
Storie quotidiane di piccoli, irriducibili come Dio li ha
creati, non fotocopie, non uomini di corte, irripetibili.
Sarebbe onore, massimo onore per un prete, che questi fossero
per poco, per qualche emozione trasmessa, anche suoi figli.
Sommo onore avere figli fuori dal coro, irriducibili sognatori
come Dio li ha creati.
Ed ora qui, nella notte, mi ritrovo a leggere la storia
del fiume d'acqua come cristallo, la storia dell'albero
dei dodici raccolti.
Qui a ricordare l'emozione per le parole sacre che questa
sera ho sorpreso negli occhi di Piero, di Marta, di Luca,
di Emanuela.
L'acqua ci disseta. Le foglie dell'albero ci guariscono.
E sia quaresima. Se quaresima è attingere al pozzo,
al pozzo del corteggiamento, del corteggiamento di Dio,
se quaresima è sostare all'albero che guarisce, ben
venga. E sia quaresima per noi tutti.
don
Angelo
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