articoli di d. Angelo


 

STORIE DI PADRI, DI MADRI E DI BAMBINI

Oggi scrivo di padri, di madri e di bambini. E non solo perché le sere stanno allungando le ombre e l'aria odora, come già fosse vigilia di Natale. Scrivo di padri, di madri, di bambini perché questi miei giorni sono affollati di volti. Di padri, di madri e di bambini.
Oggi mi sono incantato, ultimo e non ultimo di innumerevoli incantamenti, per come Stefano teneva tra le braccia Maddalena, la sua piccola cucciola, e per come Elisa, la madre, la teneva negli occhi neri. Dopo giornate a sapore di attese e di nascite, di grembi colmi e di sconfinamenti alla luce di bimbi. Dopo visite in chiesa di giovani donne incinte, a rischio di nascita, che affidano un grembo alla tua preghiera -mancano pochi giorni, mancano solo ore- ecco ora gli annunci che bucano lunghe attese: è un bimbo, è una bimba, è una coppia di gemelli. Ora tutti messi alla luce e hanno un nome. E anche lui, come tutti, ed era figlio di Dio, messo alla luce, lui che era la luce, dopo avere abitato nove mesi di tenerezza d'ombra. Anche lui in un gesto di affidamento, che è la vita. E ci furono mani quella notte, ci furono fasce e la mangiatoia. Come se Dio non avesse chiesto di più per nascere. Come se volesse insegnare che la vita è consegnarsi ad una promessa. Se non ti affidi, muori in un grembo. Se, prima di uscire alla luce, vuoi il programma, non uscirai mai. Esci affidandoti. "È uscita" dice Stefano "e ci guardava, senza piangere, dritto negli occhi."
Senza un atto di fiducia rimaniamo nel grembo. Senza un atto di fiducia nella vita, la vita senza aggettivi, la vita così come accadrà. Insegnamento prezioso che sta nell'umido degli occhi di ogni bambino, in quello sguardo senza ombre e senza pretesa. Insegnamento urgente per un tempo come il nostro che sta segnalandosi come la stagione di una accentuata diffidenza, come la stagione del calcolo esasperato, del controllo ossessivo. Anche per questo le barche rimangono a riva. Non si accetta l'avventura di traversate a rischio di vento e di flutti, a rischio dell'imprevedibile. A riva, le vele afflosciate, senza respiro di vento, senza trascinamento di passione.
Mi sembra oggi di leggere una sorta di esitazione a confidare, ad abbandonarsi. Non voglio entrare nei motivi di questo disagio che sono molteplici e possono avere anche una loro serietà. Può essere una sfida lasciare il sicuro, la terra in cui stai, il paese conosciuto, per un viaggio che non puoi immaginare. Abbandonandoti. Ma immaginiamo come sarebbe triste, triste e spenta, una generazione che si muovesse solo a una condizione: avere una garanzia in mano. La vita, dicevo, ha nel suo "dna" l'abbandonarsi. Gesù ci propone il bambino, non certo per la sua innocenza che non potremmo imitare, ma per la sua capacità di abbandonarsi. È così che si cresce nella vita. Se da piccoli non ci fossimo affidati, saremmo ancora al nastro di partenza. È dando fiducia che noi cresciamo e viviamo. Viene dagli occhi umidi dei bimbi questo invito a lasciare, a rischiare, ad aver fiducia. Pena l'intristirsi in un porto da cui non si ha mai il coraggio di salpare.
Ma la Nascita, le nascite ci fanno chini anche su un altro mistero, quello delle fragilità. Su un mistero di fragilità si chinarono nella notte Maria e Giuseppe. Ogni madre e ogni padre chini, come ad adorare una vita che è soffio in pochi palmi di mani, le tue mani. Sfiori e quasi è paura di stringere, tanto la carne ha segno di debolezza. Ma il mistero della fragilità, che abita ogni nascita di un cucciolo d'uomo, si inarcò a dismisura, la notte delle notti, e sembravano chinarsi i cieli in un trasalire di stelle. O era forse dare nomi di cieli e di stelle al trasalire degli occhi e del cuore che navigavano nel mistero delle notte? Mistero di una fragilità umana sposata da Dio. Che Dio avesse scelto per la sua visita alla terra non la modalità fragorosa e solenne, accecante, privilegio degli dei pagani, ma l'ingresso nel segno della debolezza e della fragilità, era sì segno da far stupire gli occhi e il cielo.
Da quella notte Dio diede appuntamento nella fragilità degli umani. Purtroppo lungo i secoli si persistette a cercarlo da altre parti, anche le chiese lo cercarono e ancora lo cercano da altre parti, nel segno di modelli vincenti, in modelli disumani di perfezione. Ma è perdere l'appuntamento. Che è nella debolezza e nella fragilità.
Non vergognartene. Né della tua né di quella degli altri. Dio l'ha sposata, sposata per sempre, quella notte. E tutta la vita, la sua - leggi il vangelo - fu un chinarsi sul mistero della fragilità. Ha dato appuntamento, non cercarlo altrove, mancheresti l'appuntamento con Dio. Che è nella fragilità della carne di un neonato. Guardalo, non occorre altro per amarlo. È ancora nudo dei mille orpelli umani, non ha altro titolo che quello di un essere umano, un titolo che appartiene a tutti, il vero grande titolo, il solo che Dio ha onorato. Ogni essere umano da onorare dunque nella sua fragilità e debolezza, da amare nudo, per come è, soffio del vivente in una fragile tenda di carne.
Non ti è chiesto altro, non altri prerequisiti, perché tu possa chinarti e adorare il mistero. Anche questo è un insegnamento urgente, in controtendenza in stagioni di disprezzo o di obnubilamento del rispetto. Sacro per ogni creatura. Va custodita una luce negli occhi. Anche i bambini ne possono essere defraudati. Mi colpì la storia di Giacomo, il fratellino di Maddalena. Avvenne d'estate in un campeggio, dove ragazzini più grandi di lui per gioco si misero a incidere un albero. E lui, piccino di tre anni, si parò davanti alla pianta, le braccia allargate a protezione, gridando: "non fatele male!".
La Nascita, le nascite raccontano, ogni volta che accadono, questo mistero di una fragilità d'amare, di cui prendersi cura, da custodire.
Confesso che per associazione - o dissociazione? - di pensieri e di emozioni, più di una volta la mente mi corse in questi giorni ai drammi che portano al contrario il segno di una disumanità. Là dove siamo soliti immaginare il colmo della tenerezza per la fragilità della carne di un bambino. La cronaca ci ha ampiamente raccontato in questi mesi vicende e vicende di bambini violati e uccisi da mani di madri. E ogni volta che le cronache raccontano l'antinatale misuri sulla tua pelle la contrazione di una tristezza esistenziale, quasi fosse una devastante invasione. E si grida alla belva, si fa lamento e indignazione. Sacra e giustificata indignazione. Ma da un po' di tempo a questa parte abitano il mio cuore interrogazioni cui non so dare sicurezza di risposta. Vengono dal fatto che spesso, troppo spesso, di queste madri che chiamiamo disumane, le cronache vanno dicendo che erano fino a quel giorno, donne insospettabili.
E a me batte in cuore e non so scollarmelo un pensiero che diventa domande. Come si può arrivare a tanto? È solo segno di ferocia? O la devastazione dell'animo, la stanchezza e la disperazione, la fatica di vivere sono giunte in alcune creature a un livello di insopportabilità dell'animo umano?
E la domanda, la più inquietante, che non intende essere accusa, ma invito a pensare, è questa: come e perché può succedere che si viva accanto a persone che portano dentro il peso di fatiche inenarrabili senza che ci sfiori il più piccolo dei presentimenti? Lontana da me la pretesa di generalizzare, ma non può essere anche questo il segno di una stagione dove ci si sfiora, ma non ci si guarda negli occhi, non si legge la piega della sofferenza che segna un volto, non si misura la fatica di una madre. Si fanno declamazioni sulla famiglia, magari aggiungendo richiamo a richiamo, e non ci si china a sollevarne il peso?
"Era" diciamo "una persona insospettabile" e non ci accorgiamo che con le nostre stesse parole silenziosamente, incoscamente, mettiamo sotto accusa un muro d'ombra che ci divide, un muro che qualche volta dovremmo chiamare col suo vero nome, "indifferenza".
Come rompere il muro? Come far sì che una creatura possa dirti il peso insostenibile che le agghiaccia il cuore? Sembra che la Nascita, le nascite indichino una strada. I cuori si aprono e si raccontano se ti fai vicino, se il tuo volto non dice estraneità, lontananza o, peggio ancora, accusa, ma vicinanza.
La nascita, nella notte delle notti, racconta la vicinanza di un Dio che ha sposato la nostra fragilità. Quella vicinanza solleva.
Creare vicinanza sembra essere invito buono, profumo di pane nei nostri inquieti giorni. Non sempre, quasi mai, ci sarà dato di togliere dalle spalle dell'altro il peso della vita. Neppure a Gesù riuscì tanto! Non sempre poté i miracoli, ma sempre raccontò con i suoi occhi la vicinanza. Ora tocca a noi raccontarla. Con i nostri occhi.

don Angelo


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