FIATO
SOSPESO E FIATO CALDO
Arrivo ogni anno a Natale con il fiato corto. Ma anche,
e forse ancor più, con il fiato sospeso.
Il fiato corto è fiato di fatica. Fatica a reggere.
Il fiato sospeso è fiato di contemplazione. Di occhi
sgranati. Il fiato lo sospendi o lo trattieni perché
neppure il più esile fruscio possa violare l'incantamento.
Penso al fiato sospeso nella grotta della nascita. Penso
al fiato sospeso di Maria, fiato delle mani che toccano
e non toccano il bambino. Era suo o non era suo? Baciava,
ma solo sfiorando.
Penso al fiato sospeso di Giuseppe. Né so se abbia
o no assistito al parto. Quello più sconvolgente
del mondo. Quel bambino era da proteggere, quella moglie,
ragazza madre, era da custodire. E teneva il fiato. Capiva
e non capiva.
Penso al fiato, dapprima sospeso, dell'asino e del bue.
Altre nascite avevano navigato nei loro grandi occhi. Ma
una come quella no, mai prima di allora, quella era nascita
da fiato sospeso. E poi "no" si dissero gli animali
nella notte "ora basta con l'incantamento. Questo neonato
in pianto per astinenza di latte e questa madre che se lo
attacca al seno sono degni di un fiato non più trattenuto,
ma di un fiato caldo. Caldo ad attutire il clima rigido
della notte". E fu fiato caldo. Nella notte.
Fiato sospeso, fiato caldo di una grotta che ogni anno veniamo
a visitare. Ma perché dura questo nostro fiato ancora
oggi sospeso, ancora oggi caldo? Perché dopo il migrare
di generazioni e generazioni nella storia?
Perché Dio ha visitato la nostra terra, ha cancellato
la distanza. Facendosi carne: "il Verbo si è
fatto carne".
E si gridò allo scandalo e non poteva non succedere.
Scandalo e buona notizia, evangelo. Ma se non patisci lo
scandalo, se l'evento non ti lascia con il fiato sospeso,
non è vero Natale. Sarai come tanti cristiani che,
a protezione di scandalo, pensano che Gesù fosse
un po' uomo e un po' no, che toccasse la terra e non la
toccasse. E invece no. La toccava, era fatto di terra. Come
noi. E il bambino si attaccava al seno, come i nostri bambini.
Un Dio che ha bisogno di latte.
Ti dirò che per me Natale fu anche un pomeriggio
di fine novembre quando entrai in una casa di piazza Bernini,
una delle tante case ospitali di questo avvento. Notai un
attimo di esitazione sul volto della mamma. "Nicoletta"
mi disse "sta allattando il bambino", ma subito
la vidi affacciarsi nella sala con il suo bimbo che le succhiava
il seno. Gli occhi erano bellissimi e felici. Come gli occhi
di una Madonna.
La mente mi corse quella mattina alle raffigurazioni della
Madonna del latte. "Una Madonna da nascondere"
così il titolo di un libro di uno scrittore lecchese
che parla di questa iconografia della Madonna che ebbe la
sua massima fioritura a cavallo tra il quattrocento e il
cinquecento, registrando poi una progressiva costante emarginazione
quasi fosse un soggetto religioso sconveniente, imbarazzante,
da accantonare (Natale Perego, Una Madonna da nascondere,
Cattaneo editore).
Si preferì dare a Maria gesti e movenze che forse
mai le appartennero e velare invece un gesto che di certo
fu suo. Ma ritenuto troppo umano, troppo terrestre, quasi
un eccesso di incarnazione.
Il bambino che succhiava il seno di Nicoletta mi riportò
al cuore la Madonna del latte, ora in esilio nell'iconografia
religiosa. Ma non solo. In esilio, mi sembra di capire,
anche nella spiritualità, legata per lo più
alle mani giunte e molto meno, quasi mai, a un seno che
allatta. Quasi un processo di disincarnazione, di disumanizzazione.
Di Dio e della spiritualità. E di conseguenza un
attentato alla buona notizia. Di un Dio che tocca la terra
ed è nutrito dalla terra.
Più volte, andando per case in questa lunga vigilia
di Natale, entrando, osservando, ascoltando, mi è
passato e ripassato nel cuore il sospetto che al Dio dell'incarnazione,
al Dio che prende casa si stia rispondendo con una religione
fuori dalle case, fuori da ciò che accade nella casa
e nel cuore. Con documenti e interventi nati nei palazzi
freddi e lontani e non nell'inquieta vita delle donne e
degli uomini del nostro tempo, fuori da una vera appassionata
frequentazione della loro vita.
E si ripropone la distanza. Proprio là dove buona
notizia era che la distanza era stata cancellata.
Forse è per questo che mi sembra di cogliere sempre
più nell'aria che respiriamo un invito urgente e
forte: ritornate a fare come faceva lui, Gesù, lui
non era l'uomo delle piazze, le piazze odorano di esibizione.
Era l'uomo delle strade, dove ci si fa compagni di viaggio,
compagni delle domande della vita, scrutatore di volti,
delle tristezze e delle gioie dei volti. Lui uomo delle
case: "Oggi voglio fermarmi in casa tua". E a
tavola lo trovi con i pubblicani e i peccatori.
Entrando nelle case, osservando ascoltando, avverto e misuro
con sgomento tutta la distanza che per colpa nostra si è
ricreata tra il Verbo e la carne dell'umanità.
Penso sia venuta l'ora, e sia questa, in cui si debba riprendere
con serietà e coraggio la via che il Verbo facendosi
carne ci ha lasciato. Meno esternazioni e più condivisione
delle speranze e delle gioie, dei drammi e delle sofferenze
delle donne e degli uomini del nostro tempo. La Madonna
del latte.
Ma l'anticipo di Natale quest'anno non fu solo nella casa
di piazza Bernini, fu anche in un mattino di metà
novembre in faccia ai monti della Val d'Aosta, a Champoluc,
dove ci demmo appuntamento da ogni dove per dare l'ultimo
nostro saluto a don Michele Do prima che il suo corpo fosse
consegnato alla terra.
Una vita, la sua, passata in un luogo marginale. E la terra
d'esilio si trasformò in un incrocio di mondi, divenne
casa dei cercatori.
"A te inquieto cercatore" così ti parlò
Giancarlo Bruni e già tu lo ascoltavi dal cielo "a
te inquieto cercatore venivano gli inquieti come te, da
ogni luogo e da ogni condizione. E tu donavi il tuo racconto
che amavi definire "chiarezza" e non "certezza".
Noi salivamo da te perché vedevamo in te l'amico
dalla parola incandescente e dal volto trasfigurato, dal
portamento composto e rigoroso e dall'ospitalità
accogliente".
E l'addio, l'a-Dio, a te, Michele, fu tra la cerchia innevata
dei monti, la tua "piazza S. Pietro", chiari quei
monti come i tuoi occhi. L'addio fu tra i boschi fiammeggianti
del rosso dei larici nell'inoltrato autunno, ardenti nel
sole, come le tue parole, senza sconti, senza scorciatoie,
senza menzogne religiose.
E tutti noi a tenere stretto nel cuore il tuo racconto,
Michele, "chiarezza e non certezza", così
vicino al racconto del Dio che si fa carne. Per questo fu
anticipo di Natale.
Un Dio che si fa carne oggi, perché, dicevi, oggi
la luce del suo spirito penetra silenziosa dentro di noi,
come quella del sole, scende nella terra e riemerge nella
luminosa bellezza dello stelo d'erba e del fiore, nella
luminosa bellezza dei volti. "I volti degli amici"
dicevi "icone benedette, frammenti di luce. I volti
santi valgono più di mille ragionamenti."
Racconto da custodire il tuo. Gelosamente. Per questo Giancarlo,
monaco di Bose, lo volle ricordare, a memoria, prima che
tu fossi affidato alla terra per riemergere nella luce.
"Il racconto di un filo d'erba che, consegnato alla
luce, riflette e espande luce; il racconto di una zolla
che, consegnata al seme, diventa spiga e grano; il racconto
di un bruco che diventa bozzolo, crisalide e farfalla; il
racconto di una donna, la samaritana, che, consegnata all'acqua,
diventa sposa casta e bella.
Il racconto di Cristo-luce che dimora nella tua profondità.
quel tuo insistere, Michele, sul cristianesimo come religione
dell'interiorità, che illumina la tua profondità.
Quel tuo insistere sul cristianesimo come trasfigurazione
del cuore, costituito dimora del pensiero di Cristo; che
si lascia raccontare dalla corporeità. Quel tuo insistere,
Michele, sul volto come il riflesso della Luce-Cristo, sulla
bocca come eco del luminoso Vangelo di Cristo, sui piedi
come passaggio della passione e della compassione di Dio
in Cristo. Un Cristo sotteso a ogni coscienza, a ogni religione
e a ogni Chiesa, la Radice delle radici, per portare a bellezza
ogni creatura, in un rapporto di libertà filiale
e creativa con Dio, in un rapporto di libertà fraterna
e creativa con l'uomo, di libertà chiara che non
si nega all'interrogativo nei confronti di una morte, mai
letta come l'ultimo capitolo dell'esserci.
Di queste cose, Michele, hai parlato con gli amici fino
all'ultima ora, sulle orme del Verbo-Luce: "Avendo
amato i suoi... li amò sino alla fine" (Gv 13,
1). La morte donata come compimento dell'amore, come gesto
estremo di vita che introduce nella Vita. Amare fino all'ultimo
respiro, donando alla terra l'ultimo respiro, di nome amore."
Era testamento, testamento in faccia ai monti ed era già
messaggio, augurio e preghiera, per un vero Natale. Che
la luminosità della vita di Cristo, quella raccontata
dal vangelo, dimori nel segreto della nostra memoria e come
il fiore del campo possiamo anche noi rivestirci di bellezza
e bontà per la gioia di quanti incontriamo sul nostro
cammino.
E sia fiato caldo e non parole ruvide e spente. Siano parole
di passione, quella passione che abitava le parole di Gesù.
Prima che dalle parole, più che dalle parole, riconosciuto
dalla voce: "le mie pecore conoscono la mia voce".
Era voce di un pastore che condivideva le notti fredde e
i pascoli alti. Succede sempre più raramente di sentirle.
Non erano parole che spezzavano. Diceva: "non spezzate
la canna incrinata".
Ho guardato con infinita tristezza gli alberi e i rami della
mia città spezzati da una neve troppo pesante. Gesù
non venne come neve pesante. Venne come luce.
E sia fiato sospeso a contemplare il mistero. E sia fiato
caldo ad addolcire il rigore delle notti.
don
Angelo
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