STORIE
DI UN DIO CHE TESSE FILI
Non
dirlo ad alta voce. Troppi avrebbero da ridire. Soprattutto
quelli che sospettano dei sentimenti e delle emozioni. Teniamocelo
tra noi come un segreto. Non dirlo ad alta voce che Natale
è un Dio che tesse fili.
Da quando è nato tra noi tesse fili, mette in comunicazione
storie. Dentro l'umanità.
Questa, o anche questa, è la poesia del Natale. Se
scorgi i fili, fili leggeri, quasi invisibili, ti prende
emozione.
Cominciò nella notte con la storia di quei pastori.
E da allora non è più finita. Allora il filo,
che portò al bambino in fasce in una mangiatoia,
secondo il vangelo, fu un volo d'angeli, un bisbigliare
di luce e subito fu buio. Presero torce e andarono a vedere
l'accaduto. Poi la nascita, quella nascita, divenne un passare
di voci che raccontavano una storia incredibile. Da stropicciarsi
gli occhi. È venuto il Messia ed è nel giro
di poche fasce, nella ruvida paglia di una mangiatoia. Chi
va a cercarlo nei sacri palazzi non lo trova.
Gesù, un Dio che tesse fili. Se li scorgi, ti prende
emozione e anche un bisogno di stare in un angolo, un poco
in disparte, a contemplare. A contemplare, a prova di stupore,
i fili, i fili della sua incarnazione, che ancora non è
finita. E a ringraziare.
Mi è successo pochi giorni fa, vigilia di S. Ambrogio,
quando tra le montagne dell' Engadina, a duemila metri,
sul sentiero innevato, mi apparve il profilo di una piccola
chiesa che veglia, a misura di Dio, notte e giorno, i monti.
A restituire benedizione per la veglia, quel mattino, un
cielo di cobalto e scintillare di neve, sorpresa dal sole,
che ora scaldava dal rigore della notte il tetto spiovente.
La piccola, minuscola chiesa di montagna era, quel mattino,
terra di approdo e di uscita: Giuliana e Giovanni vi avrebbero
celebrato di lì a poco il loro matrimonio. In faccia
a Dio e in faccia ai monti.
Mi sorpresi a sospingere lentamente, quasi con venerazione,
il portone della chiesa. Lo spazio era sacro. Affreschi
del cinquecento a loro volta vegliavano dall'abside antica
in un abbraccio di secoli. Il sacro e l'abbraccio, quasi
un preludio al matrimonio.
E nella penombra della chiesa di Crasta, prima dell'affollarsi
dei volti, accucciato nel silenzio, mi sorpresi a ripercorrere
il filo che mi aveva portato quel mattino di dicembre in
Val di Fex, nell'alta Engadina. E a pregare il Dio che tesse
i fili, il più delle volte leggeri e quasi invisibili.
Ti confesso che sarei potuto andare più a ritroso.
Fin dove? Mi fermai invece, nella memoria, ad uno studio
medico, dove nella sala d'aspetto un amico lascia, a possibile
lettura, alcuni numeri di un notiziario strano, il nostro,
cui succede così di navigare a sua volta per vie
strane e giungere là dove nemmeno avresti immaginato.
Storie di fili.
Una ragazza prese così a leggere. E fu comunione
di pensieri. E poi desiderio di conoscersi. E poi la richiesta
da parte di Giuliana di partecipare con Giovanni ai nostri
incontri per fidanzati. Da Lecco a Milano, ogni venerdì
sera. Il casco nelle loro mani raccontava del lungo viaggio,
la luce negli occhi raccontava del loro entusiasmo: "una
magnifica occasione" scriveva Giuliana "per conoscere
meglio noi stessi, lei e gli altri amici. Una grande esperienza
che mi ha riempito di entusiasmo, mi ha dato molti spunti
di riflessione. Con questo entusiasmo ho contagiato molte
persone. Questo fine settimana non ho fatto che parlare
del nostro libretto di matrimonio. Quattro amici canteranno
alla fine un canto di Taizè molto bello, Jubilate
Deo, e molti altri parteciperanno alla lettura delle preghiere
dei fedeli".
Dove ti portano i fili! mi dicevo quel mattino nell'ombra
sospesa della piccola chiesa, i fili che Dio tesse nel silenzio.
Poi il portone cominciò ripetutamente a schiudersi
e fu un fluire ininterrotto di amici. Anche la piccola navata
prese la forma di un abbraccio. Anche la balconata dell'organo
là in alto. Ad abbracciare non erano più solo
i volti intensi degli affreschi dell'abside, ma volti reali
di carne, di passione e di amicizia.
Tutti insieme, mi sono detto, a celebrare il Dio che tesse
i fili, i nostri , ma anche quello che un giorno condusse
Giuliana a Giovanni e Giovanni a Giuliana.
Tutti insieme dentro un rito dove ogni parola era vera ed
abitata. E la musica del flauto e della chitarra classica
era vera ed abitata. E i gesti anche. E gli occhi abitati.
Come li vuole Dio,. Abitati.
Ora che ripercorro nel ricordo il rito, mi accorgo che per
strana avventura, a un brano della Scrittura Sacra, custodito
nel libricino, toccò la sorte di non essere commentato.
Forse, mi dico, perché era vissuto. Le parole erano
del Qoelet.
"Va', mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino
con cuore lieto, perché Dio ha già gradito
le tue opere. In ogni tempo le tue vesti siano bianche e
il profumo non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la
sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace,
che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è
la tua sorte nella vita e nelle pene che soffri sotto il
sole". (Qo 9, 7-9)
Il pane e il vino, le vesti bianche e il profumo, la tua
sposa, il tuo sposo. E Dio che prende dimora, silenzioso
come la luce, nel pane e nel vino, nelle vesti bianche e
nel profumo, nella tua sposa e nel tuo sposo. Vi prende
dimora come la luce. Silenzioso. E risveglia colori, fa
fiorire.
E fu vino, fuori nel sole. E, tra gli invitati, anche la
neve e le vette dei monti. Anche loro testimoni di nozze.
E fu vino fuori della piccola chiesa, sulla neve. E fu un
fitto parlarsi, ora con gli occhi, ora con le parole. Anche
le parole sulla neve erano abitate. Oggi, tra le tante,
ricordo quelle di un uomo ormai maturo, quasi un'eccezione
in uno straripare di gioventù. A un tratto mi si
fece vicino. Ricordo, teneva in mano un bicchiere colmo
di vino. Mi disse: "Io non sono un frequentatore di
chiese. Ma le dirò che questa mattina nel rito che
abbiamo celebrato non c'era niente che non sentissi anche
mio". Gli sorridevano gli occhi e intuivo che non era
solo per il bicchiere di vino e per l'allegria della neve.
Ma anche per altro.
Il filo era arrivato, leggero e invisibile, anche a lui,
al non frequentatore di chiese. E benedetto Dio che tesse
fili e beati coloro che li dipanano senza violentare, con
sacro rispetto. Pensieri del mattino, pensieri della sera,
quando sulle montagne scesero nel silenzio le ombre e qualcuno
accese le torce per la discesa. Quasi a dire: tieni accesa
la luce.
La luce di questo Dio che, incarnandosi, crea fili e ora
abita le tante storie, le più comuni, come ci insegna
la sua nascita. Non dovremmo dimenticare, è a memoria,
il modo in cui si è fatto uomo. È vero che
la novità della nostra fede sta nell'evento inaudito
di un Dio che si fa uomo. Ma forse non è ancora tutto.
Poteva anche scegliere di venire su questa terra e passeggiarvi
alla maniera degli dei pagani, come un vincente. Sposò
invece la condizione dei piccoli e degli umili. Restituì
luce e bellezza e poesia alla vita degli sconosciuti. Dirà
don Michele Dò, anche lui prete delle montagne: "È
il farsi della poesia di Dio nella concretezza di ogni giorno.
L'obolo della vedova nel vangelo, il vaso spezzato di Maria
di Magdala, le sue lacrime, il chinarsi del samaritano sul
viandante ferito sono momenti di altissima poesia, poesia
divina".
E appartengono alla vita, fatta sacra dal Dio che ha messo
la sua tenda in mezzo a noi e tesse fili.
Se oggi assistiamo rabbrividendo a segni inquietanti di
disumanità, a una sorta di imbarbarimento di un mondo
cosiddetto civile, non sarà perché abbiamo
dimenticata la modalità del farsi uomo di Dio, abbagliati,
sedotti e accecati dal mito dei vincenti? A quale prezzo!
Dio tesse fili. Nelle piccole storie. E lo stile non cambia.
Non è quello di chi alza la voce e grida nelle piazze.
È quello di chi cuce per noi un vestito, di chi fascia
la canna spezzata e dà olio al lucignolo dalla fiamma
smorta.
I verbi, verbi del suo passaggio in mezzo a noi, verbi che
i veri credenti in lui dovrebbero riprendere ad onorare,
cancellando superiorità e arroganze, verbi del suo
passaggio, sono: "curvarsi" e "prendersi
cura", i verbi della lavanda dei piedi. Ottavo sacramento.
Dimenticato.
Curvarsi. Per raddrizzare i curvati, i troppi curvati dalla
vita, così come Gesù raddrizzò la donna
curvata da tanti anni, troppi anni.
Con una infinita delicatezza. Quella di cui parla Charles
de Foucauld, anche lui piccolo, piccolo fratello, in un
passaggio di un suo scritto che tengo a memoria dal giorno
in cui lo ebbi, quasi un dono, da un monaco amico di Bose.
"Sforziamoci di avere una infinita delicatezza nella
nostra carità. Non limitiamoci ai grandi servizi,
ma coltiviamo quella tenera delicatezza capace di curare
i dettagli e che sa riversare con gesti da nulla tanto balsamo
nei cuori. Entriamo, con coloro che vivono accanto a noi,
nei piccoli dettagli della loro salute, della loro consolazione,
delle loro preghiere, dei loro bisogni. Consoliamo, rechiamo
sollievo con le attenzioni più minute. Anche noi,
per quanto ci è dato, dobbiamo sforzarci di somigliare
a Gesù, passando per le vie di questo mondo santificando,
consolando, recando sollievo il più possibile agli
uomini".
L'infinita delicatezza si sposa alla leggerezza dei fili
che Dio, sognatore impenitente, va tessendo. Oggi, ricordando
la piccola chiesa di Crasta e l'allegria dei volti sulla
neve, mi rimormora in cuore la preghiera, a me cara, di
Sr. Marie-Pierre de Chambarand.
Rendimi
fedele, Signore,
a questo filo di speranza
a questo minimo di luce
sufficienti per cercare.
Rendimi
fedele, Signore,
a questo vino del tuo calice
e a questo pane quotidiano
sufficienti per campare.
Rendimi
fedele, Signore,
a questo briciolo di allegria
e a quest'assaggio di felicità
sufficienti per cantare.
Rendimi
fedele, Signore,
al tuo Nome sulle labbra,
a questo grido della fede
sufficienti per vegliare.
Rendimi
fedele, Signore,
all'accoglienza del tuo Soffio,
a questo dono senza ritorno,
sufficienti per amare.
don Angelo
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