SPIARE
DA INNAMORATI DALLE INFERRIATE
Il
mio Natale quest'anno ha avuto un anticipo di mesi, due
se ben ricordo. La celebrazione, come vedi, si fa lunga,
viene da lontano.
Era una mattina di fine ottobre, mattina a sferzate di piovaschi
e di vento. A stento, quasi impossibile il riparo fuori
del carcere, piazza Filangeri 2, S. Vittore. Aspettavo un'amica
e interpretavo volti. Di coloro che entravano e di coloro
che uscivano. Alla ricerca di che cosa li potesse portare
a quella soglia, dentro e fuori la soglia.
Poi arriva Francesca. Lei è una esperta, esperta
anche nelle burocrazie. Si entra per tappe, a sbarramenti
successivi, a sorveglianza di controlli. La verifica del
permesso, meticolosamente, prima a uno poi a un altro controllo.
E gli agenti a sfogliare carte alla ricerca della tua, che
guardacaso sembra non esserci e poi puntigliosamente appare.
E si apre l'ultima porta dietro uno sferragliare di chiavi.
Ti risuoneranno, a intervalli di sofferenza, per tutto l'arco
del giorno. E oltre. E tu sai che la porta si chiude ma
si riapre. Per altri no, si chiude né è dato
sapere se si aprirà né quando.
Sali le scale. Quante ne salirai, centinaia di gradini,
in un colpo solo, a misura di vecchiaia, in questo andare
per case, che precede il Natale, ma forse mai i gradini
furono più pesanti di questi.
Entri nel braccio femminile. Dal corridoio ora ti pesano
sulle spalle le celle, dove quasi non osi guardare. Ti vai
infatti chiedendo se un detenuto o una detenuta possano
sopportare con piacere l'essere guardati o salutati in simile
degrado. E ti si affacciano alla memoria parole, discorsi
da salotto, che osano evocare il carcere come un soggiorno
-e via!- non privo di conforti. Passi il corridoio. Gli
occhi ora portano il peso del disgusto.
Ma perché proprio lì, dietro la porta che
sordamente si chiude, cominciasse il mio Natale, ora mi
è difficile spiegare. Ti dirò che non fu solo
per accostamento di scale e gradini, scale e gradini che,
da che sono prete di parrocchia, fanno da vigilia al Natale.
Fu invece per via di alcune donne che incontrammo in un
locale lungo e stretto. La chiamano biblioteca. Da tempo
esse stavano leggendo il Cantico dei Cantici, un libro della
Bibbia, che a motivo del suo scoperto erotismo trovò
resistenza ad essere riconosciuto nell'elenco dei libri
canonici. Le donne ci avevano dato appuntamento per parlarne.
A cuore libero. E fu a cuore libero. Ora gli occhi, i miei,
passavano in rassegna i volti lentamente, con la lentezza
di chi indugia a scoprire. E non era più curiosità
che invade dagli spioncini delle celle.
Erano volti. Ed era un incrociarsi di occhi. E dietro i
volti, dietro gli occhi storie sconosciute che li avevano
scavati. Volti scavati ma non prosciugati. C'era riconoscimento
di terre di bellezza.
Erano volti. E furono parole calde di umanità, a
vibrazione di corpi, a trasalimento e sconfinamento di emozione,
di fedeltà.
Come se un amato le spiasse dalle inferiate. E non era spiare
da secondini, ma spiare dell'amore.
L'amata del Cantico dei Cantici mai più avrebbe pensato
che la sua canzone d'amore sarebbe stata letta al di dentro
di ben altre inferriate, quelle del carcere.
"Una voce, il mio diletto.
Eccolo viene
saltando per i monti,
balzando per le colline.
Somiglia il mio diletto a un capriolo
o ad un cerbiatto.
Eccolo, egli sta
dietro il nostro muro,
guarda dalle finestre
spia attraverso le inferriate".
Dietro
il muro, attraverso le inferriate il filtrare dell'unica
cosa che ci fa umani, ci fa grandi, l'amore, fuori dalle
sbarre della durezza, dell'indifferenza, del vuoto di sentimenti.
Il disamore, la durezza, è la vera drammatica, definitiva
prigione, prigione a segno di eternità, che ci fa
detenuti e detenute. Per sempre.
Furono parole e non furono parole. Era l'eco di storie lontane
e vicine. Accadevano storie nella cosiddetta biblioteca,
al secondo piano, braccio femminile di un carcere chiamato
S. Vittore.
E sul finire delle parole l'ultima, o la penultima, che
anticipò di due mesi il Natale, parola che abbracciava
tutto l'orizzonte dell'amarezza umana. "Ci giudicano"
disse "senza nemmeno guardarci in faccia, senza alzare
lo sguardo dalle carte, dai giornali". E la sofferenza
era giunta a inumidire gli occhi: "senza nemmeno guardarci
in faccia".
Sì, nella mente, come per un lampo improvviso, mi
si accese una parola del Libro, il primo della Bibbia. Là
dove si racconta della Torre di Babele, un tentativo folle
di falsa globalizzazione. È scritto un "ma",
che mette una fine all'arroganza: "Ma il Signore scese
a vedere la città e la torre che stavano costruendo
gli uomini".
Ebbene i rabbini a commento di "Dio scese a vedere"
scrivono: "Dio non aveva bisogno di scendere, però
ha voluto in tal modo insegnare ai giudici che essi non
devono dichiarare colpevole l'imputato prima di aver esaminato
e considerato il caso di persona".
Fu così che celebrai, in anticipo di mesi, il Natale.
E se Dio fosse sceso per guardarci in faccia, per annullare
la distanza che ci fa giudici impietosi, per spiarci non
alla maniera dei secondini, ma da innamorato attraverso
le inferriate? E se avesse voluto insegnarci che occorre
spiare ogni volta, con il trasalimento degli innamorati?
E che finisse una volta per sempre il guardarsi dall'alto
in basso, senza poi vedere niente, niente di umano? E se
Natale fosse guardarci in faccia, come ci ha guardato in
faccia Dio, scendendo, non a semina di paura e di condanna,
ma di speranza, passi di innamorato che spiano dalle inferriate.
E noi, pure noi, a vedere la salvezza sui volti, nessuno
escluso, perché è scritto: ogni carne, ogni
fragilità degli umani, vedrà la salvezza di
Dio.
E se Natale fosse, per grazia, accorgerci che spesso purtroppo
abitiamo occhi spietati, senza pietas e dunque senza nascite,
senza natali? E se ci sentissimo un po' tutti innamorati,
meno spietati, meno indifferenti? E se ci guardassimo come
ci guarda Dio? Sarebbe una grazia, forse la grazia delle
grazie, una grazia a portata di tutti. Per altre grazie,
per altri miracoli accusiamo la nostra impotenza. Nemmeno
a Dio, quando scese, riuscì di operare tutti i miracoli
che erano nel suo desiderio. Ma chi lo incrociò rimase
conquistato dal suo sguardo. Arrivava fino alla punta del
cuore.
Quante volte anch'io, in questo mio andare per case per
lunga vigilia, accuso impotenza, impotenza davanti a volti
scavati da drammi, davanti a occhi che a fatica nascondono
tristezza e angoscia. E che sia grazia, forse piccola, l'unica
a portata di un prete piccolo, questo incrociarsi degli
occhi, a trasalimento di amicizia e di vicinanza?
Mi chiedo se non sia anche questo un costume da ricreare:
guardarsi, ma con tenerezza. Per le case e per le strade.
Così che il vangelo non rimanga nelle chiese. Ammesso
poi che nelle chiese non ci si guardi dall'alto in basso
o da disamorati.
Passavamo per strada, giorni fa, un'amica ed io, un po'
frettolosi come sempre. Il tempo di percorrere via Pinturicchio
e svoltare in via Plinio, poche centinaia di metri. E Gabriella
a dire: "non fai un passo che ti salutano tutti".
Le ultime a salutare Claudia e Annamaria. Forse parlavano,
all'angolo, troppa era la festa negli occhi, dei loro bimbi
adottati.
E il pensiero mi corse ai primi mesi di questo ormai lungo
ministero in città. Allora passavi e nessuno salutava.
Era la sofferenza che prendeva al cuore padre David Maria
Turoldo, ospite per mesi nella mia casa a S. Giovanni di
Lecco quando usciva per le strade e nessuno salutava. Al
punto che, un po' triste, volle un giorno dedicarmi una
poesia.
Perché
nessuno saluta?
Sulla stessa via
tutti stranieri.
Una
minuta pioggia ti isola,
appena qualche uccello dalle piante
sospira al tuo rumore.
Una
pecora sola,
sul clivo di Rancio
bela al tuo passaggio:
gemito
più che umano,
a segnare
la solitudine di tutti.
Siamo
soli,
soli, amico, né vale che tu grida
"fratelli" dall'altare,
o che tutti s'affollino
allo stesso ciborio.
Nessuno,
nessuno saluta
in questi terminai che sono le nostre città.
Tutti
murati in selve di condomini
più soli di quanto
lo siamo nei deserti
dove
pare non abiti più
neppure Iddio.
Forse
la città è anonima, indifferente e dura anche
per colpa nostra. È un andare senza guardare in faccia.
È salire e scendere scale senza guardarsi negli occhi.
E così scompare Dio. Scompare il Natale.
Giorni fa, quando don Paolo mi chiese di parlare ai ragazzi
che riceveranno la Cresima, mi venne spontaneo invitarli
a una "piccola" cosa, a sgelare con il loro sorriso,
con la loro prorompente spontaneità i nostri murati
condomini, il silenzio pesante dei nostri ascensori, dove
ognuno guarda lontano, chissà dove, quasi timoroso
di uscire da prigione, dalla sua prigione.
Per annunciare che il Messia era venuto, Gesù diceva:
i prigionieri escono dalle prigioni. Forse, benché
straziante, S. Vittore non è ancora la più
buia prigione del mondo. La più buia è quella
che ci tiene barricati dentro. E se imparassimo per grazia
a uscire? Per grazia di Natale. A guardarci come Dio da
questa mangiatoia ci guarda? Con gli occhi di un bambino.
don
Angelo
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