articoli di d. Angelo


 

SI È FATTO UOMO. SI FA PER DIRE?

Passa dilavata la "notizia buona", l'evangelo. Come dilavate spesso e ripetute le parole dei preti. Come bandiere scolorite dallo spiovere di giorni, di mesi, di anni.
È la notizia più sconvolgente e anche la più fascinosa. Ma ha perso colore per via della ripetizione e dell'abitudine, un'abitudine quasi ab immemorabili, dal latte della nascita o quasi, per tanti di noi.
La notizia ancora qualcuno la va ripetendo: "Dio è diventato uomo", ma è come se l'avessimo nel tempo svigorita, come se l'avessimo scippata d'ogni sussulto. E il sussulto era grande, quando l'abitudine ancora non l'aveva invecchiata.
È la notizia del cristiano, ma ora non fa più notizia. Nemmeno per i cristiani. Mentalmente l'hanno impallidita, con un'aggiunta non confessata: "si fa per dire". Dio si è fatto uomo, si fa per dire…
E così è rotto il Natale. È un Natale in cocci. E la cosa più grave è che sia un Natale in cocci e non ce ne si avveda. E siamo a un Natale senza notizia. Senza la notizia che "Dio si è fatto uomo... e non si fa per dire!". Uomo, uno di noi. Di noi così come siamo. In tutto, fuorché nel peccato, canta la liturgia.
Che Dio si fosse fatto uomo, che quell'uomo fosse Dio fu difficile crederlo per quelli del suo paese, che da un Figlio di Dio avrebbero preteso giustamente qualcosa di più. E invece nulla di eccezionale: figlio dell'uomo. "Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?" (Mc 6, 3).
Ma che Dio si sia fatto uomo non è così scontato nemmeno per i cristiani di oggi, che costruiscono presepi dove il bambinello sorride benedicente e la luce sembra disegnare una coltre soffice a difesa della ruvida paglia.
Esisterà nel mondo un presepe, un'icona del Natale, dove il bambino piange disperato, inconsolabile, come tutti i bambini del mondo? Forse sì, non sono esperto per escluderlo. Ma sarà, confessiamolo, caso raro. E la rarità ha una ragione: "si è fatto uomo… si fa per dire".
Che un figlio di Dio pianga disperato ai più "ortodossi" tra gli "ortodossi", ai difensori della fede, fa qualche problema. Come ai tempi di Gesù, faceva problema che quello fosse un semplice carpentiere.
Per rimuovere il problema c'è uno stratagemma a portata di mano: diciamo che fu una nascita di notte, ma non era poi così notte, che fu deposto in una mangiatoia, ma la paglia non era poi così ruvida, che il bimbo piangeva in assenza di latte, ma era perché aveva fame di un altro cibo, che nasceva sì rifiutato dalla città, in periferia della storia, ma pieno di visite, che portavano omaggi e doni. Come si addice, così pensiamo, a un figlio di Dio.
Così al vangelo, quello scritto, si è sostituito adagio adagio il vangelo immaginato, a un Gesù, quello della storia, si è sostituito silenziosamente il Gesù delle immaginette, o, per i più acculturati teologicamente, un Gesù assorbito, qualche volta esaurito, nelle sottili elucubrazioni teologiche, al linguaggio colmo di realismo e di poesia di Gesù si sono sostituite parole estraniate, senza paese e senza cuore, in cerca di vocabolari ecclesiastici per un possibile deciframento. Al vangelo abbiamo sostituito i documenti ecclesiastici. Come se leggere il vangelo non bastasse. Con la conseguenza sconcertante che oggi ci tocca dirci cristiani senza avere mai letto in vita uno dei quattro vangeli.
Lontani dal vangelo, si è purtroppo smarrita la notizia buona di un Dio che si fa uomo e non per modo di dire.
Enzo Bianchi, il priore del monastero di Bose, in un suo intervento, suggestivo e provocatorio a un tempo, ora apparso sul quindicinale Rocca (1 nov. 2002), scrive:
"Quanto tempo abbiamo sprecato a far battaglie per dire che era Dio. E non ci siamo accorti che se noi diciamo che era Dio è perché quelli che l'hanno detto per primi hanno visto una vita umana, un uomo, nient'altro che un uomo, un tale capolavoro d'uomo da dire: costui è Dio. È una vergogna che noi continuiamo a chiedere di deificare Gesù senza aver conosciuto la sua vita umana. Questa è una operazione da religione, fatta da uomini religiosi non cristiani. I cristiani, non dimenticate, i discepoli sono vissuti per tre anni insieme a un uomo, un uomo normale, quotidiano come tutti noi, non hanno mai visto in lui nulla di straordinario; ci dicono i Vangeli che non aveva neanche l'andamento ieratico di certi personaggi della nostra chiesa, era semplicemente un uomo. Ma coinvolti in quella vita per tre anni, vedendo come lui spendeva la vita, come lui giorno dopo giorno dava la vita agli altri, hanno detto che lui era Dio. Questa è la verità, questo è il cammino.
È molto importante percepire che Gesù è l'uomo per eccellenza: colui che ha vissuto per gli altri, colui che ha speso la vita per l'altro fino al dono della propria vita attraverso una morte violenta.
Dove l'altro designa in uno stesso movimento due realtà: l'altro, cioè gli altri uomini, quelli che incontriamo nel quotidiano e specialmente tra loro i poveri, gli ultimi, gli afflitti, e l'Altro designante la fonte dell'amore, questa fonte che lui chiamava Abba, Padre, Dio".
La memoria che noi celebriamo in questi giorni, la memoria di Dio che si è fatto uomo, può essere letta da ciascuno di noi, ed è stupore, come la firma di Dio, la firma sulla nostra umanità. Ha messo il suo nome tra i nostri nomi. Dio firma, firma per sempre, con firma irrevocabile, la sua compagnia con gli umani. E la firma non negli spazi della straordinarietà, ma negli spazi della normalità: i trent'anni e più consumati a Nazaret, consumati senza stupire, i trent'anni e più ignorati dalle catechesi ecclesiastiche, i trent'anni e più nella vita di tutti, dicono senz'ombra la vicinanza di Dio a ogni uomo, a ogni uomo per il semplice fatto di essere uomo, semplicemente perché uomo.
Alle labbra mi ritorna una preghiera del dodicesimo secolo, di Aelredo di Rievaulx:
Signore Gesù,
io sono povero e anche tu lo sei,
sono debole e anche tu lo sei,
sono uomo e anche tu lo sei,
ogni mia grandezza
viene dalla tua piccolezza,
ogni mia forza
viene dalla tua debolezza,
ogni mia sapienza
viene dalla tua follia.
E dopo lo stupore per questa immersione di Dio nell'umanità sembra accendersi ai nostri occhi - non c'è possibilità di fraintendimento - la segnalazione di una strada, quella del Figlio di Dio, strada indicata ai credenti. E non solo ai credenti.
Il bambino vero, quello del presepe, quello che Maria copriva dal freddo nella notte scaldandolo al seno, sembra dire a chi lo guarda: sono diventato uomo, diventa anche tu uomo. Diventa anche tu uomo a immagine e somiglianza del Figlio di Dio.
L'invito può sembrare strano agli occhi di tanti di noi che sono soliti pensare che uomini si è per il fatto stesso di nascere. Uomini si è o uomini si diventa?
Non so se oggi più di ieri, ma certamente anche oggi, ci ritroviamo a confessare che ci sono squarci - ognuno sa quanto ampi e dolorosi - di disumanità e ad augurare a noi stessi e al mondo che si possa diventare finalmente umani.
Come possiamo dirci uomini, definirci umani in un mondo dove il volto dell'altro conta meno, molto meno, dell'arroganza delle leggi economiche, dove la soluzione dei conflitti è affidata alla logica spietata della guerra con il suo corteo indecoroso di innocenti uccisi, dove le armi di distruzione di massa sono illegali in casa altrui ma legali in casa nostra, dove i beni essenziali, la casa, il lavoro, la cultura, la trascendenza sono rivendicati per sé e non per gli altri, dove legge è l'accelerazione e chi sta al passo sta al passo, chi sta indietro peggio per lui, dove ognuno di noi nei rapporti quotidiani, se è sincero, confessa quasi quotidianamente ombre di disumanità?
Guardiamo in faccia il Figlio che si è fatto uomo e diventiamo a nostra volta uomini. Non continuiamo a persistere in parole che per dirsi cristiane stanno a mezz'aria, in riti che per dirsi spirituali stanno fuori dalla vita. Non continuiamo lo spettacolo di credenti che presumono di essere tali perché sono un po' meno uomini, senza passioni e accensioni, sopra le righe, mentre Dio si è messo nelle righe, uomo tra gli uomini.
Ogni anno, per una delle mie stranezze, scelgo un'icona per il Natale. La scelgo tra le immagini di vita che nel lungo Avvento mi hanno incrociato e sedotto.
L'icona che mi sono scelta quest'anno è quella di una giovane mamma, occhi neri e vivi, che in una domenica di Avvento è arrivata al confessionale: un bambino le stava in braccio, l'altro non riusciva a scollarselo dal fianco, il terzo si affacciava curioso al vano del confessionale. Quella mamma, occhi neri e vivi, emozionati fino al pianto, e la sua confessione "pubblica" mi hanno raccontato del Natale come immersione.
I benpensanti della religione, con i loro codici alla mano, avrebbero da ridire di quel rito così poco "spirituale", così umano. Ma avrebbero da ridire anche di Gesù, fuori posto nella mangiatoia, fuori posto in trent'anni e più consumati nel silenzio di Nazaret.
Io mi sono incantato. Anch'io avevo l'emozione negli occhi. Per me è stato Natale.

don Angelo

 
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