NATALE, LA DEBOLEZZA DI DIO
Natale, ovvero il mistero della debolezza di Dio. E verrebbe
da dire che è scomparsa la debolezza di Dio, perfino
dai presepi, qualche volta anche dalle chiese.
Si è voluto, per un eccesso di turbamento, abbellire
la nudità dell'evento, quasi ci creasse troppa sospensione,
troppo disagio. Accendiamo qualche luce in più. Troppo
faticoso fare i conti con il buio e chissà forse
anche con il freddo della notte. E poi questo silenzio del
bambino, questa afasia di Dio, e nessuno che si accorga:
pochi pastori, razza perduta, gente poco raccomandabile,
indesiderata
Ci sembra insopportabile. No, è
potente Dio. E il bambino fa finta, fa finta di avere bisogno
di latte, fa finta di piangere, fa finta di essere dipendente,
anzi è un bambino che dirige. Fa finta di essere
debole. Riempiamo i presepi. Il vuoto è struggente.
Ci distrugge.
E così il mistero subisce una riduzione, una riduzione
letale. Dalla tragicità di una parola forte al patetico,
una parola leggera, il bambinello sorridente, parola quasi
vuota, bruciata in poco tempo. Quanti natali bruciati in
poco tempo, perché è accaduto, e non ce se
n'è accorti, un attentato al mistero della debolezza
di Dio.
C'è uno strano modo di difendere Dio da parte di
alcuni "osservanti". Ed è quello di attenuare
l'umanità di Gesù: se è Dio, si pensa,
la paglia non sarà così ruvida e del latte
della madre avrà bisogno per modo di dire. E si svuota
l'evangelo, la notizia buona. Perché la notizia buona
è che Dio ha messo la sua tenda in mezzo a noi. Non
ha tenuto, anzi ha cancellato le distanze. Non ci ha guardati
dall'alto in basso, dall'alto della sua onnipotenza, ma
ha fatto suo lo spazio basso, dal quale ci si potesse guardare
negli occhi, lui e noi, dalla stessa terra, come succede
tra persone che si dicono il bene.
Dio, facendosi carne, si è come rannicchiato pur
di fare spazio a noi e questa è una buona notizia.
In un monastero, quello di Bose sulla morena di Ivrea, dietro
una icona della visita dei Magi, ho trovato la citazione
di questo bellissimo testo di Pietro di Celle, che canta
il natale della debolezza di Dio:
Vieni presto, Signore,
vieni nell'umiltà e non nella potenza,
nella mangiatoia e non sulle nubi,
nelle braccia di tua madre
e non su un trono di maestà,
su un asino e non tra i cherubini;
vieni verso di noi e non contro di noi,
per salvarci e non per giudicarci,
per visitarci nella pace
e non per condannarci nel furore.
Se tu verrai così, Signore,
noi ti verremo incontro per vivere con te,
il Padre e lo Spirito Santo
nei secoli dei secoli. Amen.
Questo
mistero del Verbo che si è fatto carne, dell'infinito
dentro un guscio di umanità, dell'immenso che ha
contenuto la sua universalità in uno spazio piccolo,
ristretto, in un regno sperduto dell'impero, che ha trattenuto
la sua onnipotenza in una vita debole e limitata, viene
a ricordare a noi stessi che, anche se piccoli, limitati,
anche se incompiuti, noi siamo raggiunti e toccati, accompagnati,
abitati da questo mistero di luce.
Il congiungimento - dice questo mistero - è avvenuto
non nei piani alti della perfezione, ma ai piani bassi della
nostra piccolezza e debolezza.
Rimane comunque lo scandalo, lo scandalo della debolezza
del Natale, scandalo della debolezza di Dio.
Oggi qualcuno va sussurrando che la debolezza di Dio è
l'ultima trovata di un uomo debole, che si costruisce -
è l'accusa - un Dio a propria immagine e somiglianza,
un Dio debole a copertura e giustificazione della propria
debolezza, un Dio, dopo tutto, comodo.
Posso sbagliarmi, a me sembra tutt'altro che accomodante
l'immagine di un Dio che, per amore, si ritrae e dà
spazio. E dice: "Fate questo in memoria di me".
Molto meno esigente, più accomodante l'immagine di
un Dio che, spinto dalla sua onnipotenza, invadesse, occupasse
spazio, e dicesse: "Fate questo in memoria di me",
e dunque occupate, invadenti. Occupa e invadi il mistero,
occupa e invadi la vita, occupa e invadi l'altro, occupa
e invadi la terra.
Non so se misuriamo quanto sia in controtendenza il Natale
che dice: Dio è nel debole, Dio è nell'infinitamente
piccolo, un Natale che ancora una volta ci seduca con l'invito:
"Guardate e lui e sarete raggianti, non saranno confusi
i vostri volti".
Se i nostri volti oggi sono confusi, se è confusa
l'immagine di questa nostra umanità, non sarà
perché non guardiamo più Dio o forse perché,
se pur diciamo di guardare Dio, non guardiamo dove Dio ha
messo la sua gloria? L'ha messa nella carne fragile di un
bambino, nel piccolo.
E dunque guardate il piccolo, il fragile, il disprezzato.
Pensate la carica rivoluzionaria di questo invito in una
società dove ad attrarre attenzione, in tutti i modi,
con le arti più raffinate, fino all'ossessione, sono
i grandi. Sotto i riflettori loro e le loro grandi scenografie.
La seduzione del grande. Le storie dei piccoli, se le mandano
in onda, le mandano nelle ore del sonno.
Pensate, in una società in cui vali non per la tua
carne di uomo e di donna, ma perché hai un titolo,
perché hai una laurea, perché sei apparso
in televisione, perché hai fatto carriera, perché
sai gridare, che forza dirompente ha il Natale, quello vero,
che ha dirottato l'attenzione sul piccolo, sul bambino,
che non ha altro titolo che quello di essere un umano, un
cucciolo di uomo. E basta questo, basta essere un umano,
perché uno abbia tutta la sua dignità, tutto
il nostro rispetto, tutta la nostra difesa. Non occorre
altro. Non occorre altro dal giorno in cui Dio ha messo
la sua gloria nella piccolezza e nella debolezza.
Purtroppo anche il più luminoso dei messaggi può
essere sporcato. E dunque bisogna essere vigilanti e custodirlo
nella sua inviolabile autenticità e purezza.
Penso a un bambino, uno dei nostri, che nell'anno del Giubileo,
osservava il presepe. Dentro, per l'occasione, avevano messo
le sagome dei crociati, dentro avevano messo il calco di
una mastodontica basilica di S. Pietro. E il bambino a dire
- pensate, un bambino! - che nel presepe crociati e basilica
stonavano, proprio non c'entravano. Che cosa sia fedeltà
e che cosa sia infedeltà lo capiscono anche i bambini,
soprattutto i bambini.
Non contaminiamo di potenza il mistero della debolezza.
Non sarebbe un servizio buono né per Dio né
per questa terra che amiamo e che lui ha amato.
C'è nell'aria, purtroppo anche ai nostri giorni,
un'immagine di potenza che uccide. O sei al massimo livello
o sei pietra di scarto.
Una società che avanza pretese sulla vita. E tu devi
stare al passo delle pretese: non l'attesa, ma la pretesa,
la prepotenza della pretesa. Di questa prepotenza porta
segni spesso tragici il tempo in cui viviamo: tanti delitti
che oggi ci lasciano sgomenti, forse anche perché
mai li avremmo immaginati nel paese dell'adolescenza o preadolescenza,
sono l'esito amaro della prepotenza, la prepotenza della
pretesa, che ha contagiato spiagge che pensavamo fuori contagio.
È il rifiuto dei nove mesi, della debolezza dei nove
mesi; ma per il Figlio di Dio ci vollero nove mesi e non
uno meno per essere messo alla luce. E Maria, la madre,
si è gonfiata dolcemente, a poco a poco, come ogni
madre. Neanche Dio fa salti mortali, nemmeno lui brucia
le tappe, anche lui accetta la legge della gradualità,
cresce a poco a poco e non senza fatica.
A un mondo che avanza pretese, che forza forsennatamente
i tempi, che esige prestazioni sempre al massimo, il mistero
della debolezza di Dio nei nove mesi, ci ricorda che le
nascite vere, non quelle inventate dalle nostre immaginazioni,
chiedono tempo, chiedono pazienza, chiedono rispetto. Dentro
i segni poveri cresce il regno di Dio.
Oggi alcuni studiosi vengono a dirci che la mangiatoia di
cui parla l'evangelista Luca forse non era la greppia delle
nostre stalle, forse era la cesta che serviva ai pastori:
dentro portavano il cibo per le lunghe soste nei pascoli.
Ecco il segno cui siamo rimandati: un Dio nella cesta da
viaggio, tra le cose quotidiane, umili e necessarie. Il
pane e il vino. E una luce impigliata per sempre.
don
Angelo
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