articoli di d. Angelo


 

NAUFRAGI E BUONE NOTIZIE


"Come stai?": ti chiedono. "Bene": rispondi. Un attimo di sospensione. Nel pensiero e nel cuore. E subito avverti una sorta di ipocrisia. La risposta ti è venuta come per inerzia. Di questi giorni non stai bene. È diventato un rito rispondere "bene". Si adeguano anche gli altri, al rito, quando chiedi loro come stanno. Poi guardi i loro occhi. Navigano visioni nei loro occhi incancellabili, navigazioni di naufragio, con una tristezza trattenuta, alla piega degli occhi.
Gente di naufragio, naufragio in umanità, e quasi un bisogno, incontenibile, di notizie buone. Dentro il naufragio. Di buone notizie abbiamo bisogno noi che ce ne andiamo in questi giorni con le spalle ricurve, come gravati da peso invisibile, peso non certo commensurabile a quello di coloro che oggi la follia e la distruzione le vivono non a distanza, ma sulla loro terra, nella loro pelle.
E ti chiedi come sarà Pasqua. Se oseremo festeggiare. Come ritrovare voce per i canti nella notte di veglia. Come vincere questa voglia di chiudere gli occhi - gli occhi e il televisore - per non vedere.
Chi mi condurrà alla Pasqua? Ho bisogno di notizie buone, ma che non siano la solita turlupinatura, in una parola la pace degli struzzi, a cancellare la visione nella sabbia. Ora che la sabbia odora di naufragio.
Buone notizie, ma non a cancellare, le ho ritrovate. E le consegno sottovoce come cosa non mia, ma ricevuta nei vangeli di queste domeniche che ardono verso la Pasqua, orme luminose. Tracce visibili nella sabbia, la forma dei piedi. I piedi dell'uomo che cammina, Gesù. Orme dei suoi piedi prima che i chiodi lo fissassero al legno. E il legno fiorisse.
Orme di Gesù. Sono innamorato delle orme di Gesù, le orme così come sono rimaste nella sabbia dei vangeli.

Orme, gesti e parole, fuori del tempio, sulla strada della città. E lui, il cieco, dalla nascita cieco, ad occhi vuoti sentiva il calpestio, era folla ed erano voci.
"Mentre passava", è scritto nell'incipit del capitolo nono del vangelo di Giovanni. Incipit da buona notizia che Dio passi.
Che Dio passi, che Gesù passi è già una buona notizia. C'è proprio bisogno che Gesù passi. Pasqua significa passaggio: c'è bisogno di Pasqua. Quest'anno ancora di più. Buona notizia che Dio passi, che non se ne stia sulle sue, ritirato.
Altra buona notizia è che Gesù passi e veda. Sì, perché noi a volte, troppe volte, passiamo e non vediamo o passiamo e facciamo finta di non vedere.
Gesù ci ha raccontato da dentro la sua carne, con la sua umanità, di un Dio che vede, di un Dio non distratto, non indifferente. Di un Dio che vede. Anche oggi vede.
E si intenda come "buona notizia" il vedere di Dio! Che non è un vedere minaccioso, sbandierato a terrore nel passato, quando a paura si scriveva sui muri: "Dio ti vede". È un Dio che non ti cancella dai suoi occhi, tu sei la pupilla dei suoi occhi: "Custodiscimi come pupilla degli occhi": è scritto nel salmo (Sl 16, 8).
Che Dio poi si fermi, anche questa è buona notizia. E che abbia saliva. La saliva, nell'immaginario degli antichi, veniva collegata all'energia della vita. Che Gesù faccia della saliva e della terra una mescola, una mescola a guarigione di quegli occhi, anche questa è buona notizia.
Gesù con il suo gesto - saliva e terra - ci ha raccontato di un Dio che si ferma e si prende cura. Ecco dov'è Dio. E dove non è Dio. Non è nelle chiacchiere, nelle chiacchiere religiose, quelle dei discepoli: "chi ha peccato, lui o i suoi genitori, per nascere cieco?".
Gesù era appena fuggito dalle dissertazioni teologiche su "essere figlio di Dio", su "essere discendenza di Abramo", le dissertazioni dei suoi oppositori nel tempio: "si nascose e uscì dal tempio".
E ora le dissertazioni le trova sulle labbra dei suoi discepoli: "chi ha peccato?". Dio non è in tanti nostri discorsi religiosi, dove non si fa altro che parlare di peccato.
In un libro, uscito in questi giorni, di un autore francese, poeta e filosofo che amo, ho letto un pensiero dal quale mi sono sentito come strattonato in prima persona. Ve lo trascrivo. È molto vicino all'interrogazione: dov'è Dio e dove non è Dio.
Scrive Christian Bobin: "Ho trovato Dio nelle pozzanghere d'acqua, nel profumo del caprifoglio, nella purezza di certi libri e persino in certi atei. Non l'ho quasi mai trovato presso coloro il cui mestiere consiste nel parlarne".
Per me è un esame di coscienza bruciante: fare di Dio, e dell'uomo aggiungo, un'occasione di chiacchiere, di salotto!
Hanno davanti uno che porta da una vita negli occhi la negazione della luce e loro, i discepoli, fanno accademia. È disgustoso. Ma non è altrettanto disgustoso, da voltastomaco, quanto sta succedendo in questi giorni, i salotti, i salotti del nulla, delle chiacchiere vuote, questa logorrea infinita sulla guerra? E ci sono stragi, ci sono massacri! E noi facciamo salotto.
Dio non è lì, Dio è dove ci si prende cura, Dio era in quella mescola di saliva e di terra, il cieco lo sentiva. Sentiva Dio in quelle dita che, spalmando, accarezzavano i suoi occhi, quelle dita erano Dio. Gesù ha raccontato con le dita Dio. Così come il primo libro della Bibbia racconta di Dio parlando delle sue mani, quando di Dio dice che "plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita" (Gen. 2, 7).
Dov'è Dio? Non nelle parole vuote degli uomini religiosi, ma nelle mani che si prendono cura.
E il cieco vede. Vede due volte. Vede finalmente ciò che prima tastava con le mani, ma era una realtà senza colori. Vede il colore della vita.
Ma vede anche l'invisibile. Lo vede nel Rabbi di Nazaret, con una progressione che vorremmo fare nostra, una progressione di fede: "Tu luce dei miei occhi, Gesù, tu il profeta della nostra vita, tu l'inviato dal Padre a raccontare con le tue mani di Dio, tu il Figlio dell'uomo, tu l'unico Signore".
Siamo qui a chiedere questo miracolo per i nostri occhi. Che noi vediamo, che tutti vedano, questa è buona notizia.
Non è una buona notizia, anche se vogliono farla passare per tale, che ci sia qualcuno che veda per tutti, che ci faccia vedere le cose che vuole lui e che gli altri possano seguire come ciechi.
Il vangelo succede, accade, non quando gli occhi si chiudono, ma quando si aprono. Questa è Pasqua.
Un mio amico prete, Don Abramo Levi, un giorno così scriveva: "Io ricordo una liturgia domestica della mia infanzia, incommensurabilmente più incisiva di ogni futura liturgia, quando al suono delle campane della risurrezione, il sabato santo, la mamma segnava gli occhi di noi piccoli con l'acqua presa dal secchia di cucina, perché - diceva - Gesù risorgendo aveva benedetto tutte le creature, e non occorreva né acqua santa né prete per benedire".

E ancora le orme di Gesù, la forma dei piedi, orme di incantamento, sulla strada poco fuori Betania. Non era ancora entrato nel villaggio del suo amico e delle sue amiche, viaggio verso un amico morto, Lazzaro. E nell'aria, fatta di silenzi e di tenero singhiozzare, quelle parole a sfida e a promessa: "Se credi, vedrai la gloria di Dio".
Dov'è la gloria di Dio?
Gloria di Dio è questo Figlio dell'uomo che si commuove, profondamente si commuove, fino al pianto. E non gli riuscì di nasconderlo: "vedi come lo amava", dissero.
Gloria di Dio è quando ancora sai commuoverti, quando non ti riesce di nascondere il pianto. Non dite: "gloria di Dio", quando siamo spietati, senza pietas, quando siamo duri in un mondo dove è un vanto essere duri o quando cancelliamo la commozione.
Dov'è la gloria di Dio? Gloria di Dio è quel Figlio, figlio di Dio e figlio dell'uomo, che alle parole di vita e risurrezione fa seguire i gesti, gesti di vita, gesti di risurrezione. Gesù non appartiene alle istituzioni gelide. Non lo si può collocare tra coloro che proclamano dall'alto grandi parole, e più sono grandi più sono vuote. Gesù è dentro, Gesù è gesto: va nel villaggio, si specchia nel volto di Marta e di Maria, tocca le lacrime della sua amica, si fa portare alla grotta. E non si ferma. Non si ferma davanti a chi dice: è sempre stato così, il mondo è sempre andato così. Lui no, lui dice: cambiamo il corso. "Togliete la pietra, Lazzaro vieni fuori, scioglietelo e lasciatelo andare".
I gesti della vita. Non bastano le parole della vita. Le abbiamo proclamate forse anche troppo. Dall'alto. I gesti: commuoversi, piangere, andare vicino, contemplare i volti, accarezzarli, togliere le pietre della morte, sciogliere e lasciare andare. Qui si rivela la gloria di Dio. Non si rivela quando a distruzione si aggiunge distruzione, a tomba si aggiunge tomba. È una bestemmia mettere il nome di Dio vicino al suo contrario: "gloria Dei" - diceva Ireneo, antico padre della Chiesa - "vivens homo", gloria di Dio è l'uomo che vive.
Il resto non è, non è gloria di Dio. Qualcuno potrà anche vantarsene come di una sua gloria. Ma non è gloria di Dio.

don Angelo


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