articoli di d. Angelo


 

"LA CITTÀ DI DIO TU VEDA FIORIRE..."

Ancora li sfiora un brivido di vento leggero, simile a quello che, ai tempi di Elia sfiorò il monte, l'Oreb. E fu il passaggio di Dio.
Oggi stranamente, in questa afosissima estate, a essere sfiorati da brezza leggera di vento sono gli alberi di Piazza Bernini.
Mi succede in questi tempi di indugiare a contemplarli, soprattutto al mattino quando apro le finestre o la porta della Chiesa. Sembrano dire: "abbiamo vegliato fedeli, anche nelle afose notti di agosto".
Loro non vanno in ferie: resistono inermi a ritagliare nella città spazi che sanno quasi di miracolo. Quasi una sfida impari al dilagare arrogante di asfalti e cementi.

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Corre voce che gli alberi di Piazza Bernini siano votati ad una morte precoce.
Le ragioni dell'ecologia, nulla possono contro le ragioni impietose dell'automobile.
Mors tua vita mea. La città del duemila, così pomposamente declamata dagli uomini della politica, ha decretato la morte degli alberi e la nascita di un parcheggio sotterraneo.
Strana razza -razza padrona?- questa dei politici! e persino esilaranti, se in gioco non fossero i nostri destini, le loro dichiarazioni.
È di turno l'intervista di un consigliere comunale che va confessando ai giornali che persino gli alberi gli si sono fatti odiosi, tanto ne hanno parlato a proposito e a sproposito i "verdi".
Quando è decaduta l'arte di governare, se le sorti della città sono ora affidate agli umori, alle emozioni, ai risentimenti e non invece alla lungimiranza dello spirito e all'intelligenza delle cose.
E poi tutti naturalmente a declamare la città del futuro; tutto a riempirsi la bocca di una città a "misura d'uomo".

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La città è a misura d'uomo -sembra di capire- se offre spazi al nostro correre convulso e impaziente. Che senso avrebbe disegnare o custodire spazi in cui fermarsi e parlare?
Una città è a misura d'uomo, se fuori dell'"appartamento prigione" subito ti è consentito di rinchiuderti, quasi senza soluzione di continuità, nelle lamiere di un'automobile.
Cancelliamo dunque ogni strazio dove ancora ci si possa fermare e incontrare.
Riduciamo la città -piazze e strade- a nastri di scorrimento, luoghi di paura.
E l'impero dell'automobile diventi il simbolo di questa nuova civiltà, dove non c'è più posto per l'uomo.
Disegniamo piazze e strade dove il sole batta implacabile. Aggiungiamo -se è possibile- qualche rampa e qualche sfiatatoio. Così non ci lasceremo mai più sedurre dalla tentazione di indugiare a dialogare, confortati dalle ombre di qualche albero amico.

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Forse sto esagerando. Ma la domanda è: la città per quale uomo?

Disegniamo quartieri accecati di sole, assediati da rumori e da inquinamento o, a costo di essere spacciati per sognatori impenitenti, resistiamo a pensare che alberi e fiori e prati e stornire del vento tra le fronde e lo stupore per l'avvicendarsi delle stagioni... educano, più di quanto qualcuno osi immaginare, il cuore dell'uomo?
Quale città? quale uomo?
Qualcuno ha scritto: se possiedi due denari usane uno per comprarti un tozzo di pane e usa l'altro per regalarti un fiore.
Sarà poesia. Forse lo sarà. Ma siamo poi così sicuri che una città senza poesia e senza stupori, senza il gusto dell'indugiare all'incontro e alla contemplazione, sia ancora una città o non sia per disavventura un deserto del cuore?
Costruiamo dunque deserti, per rimanere in attesa che un decennio il sociologo di turno venga a rimproverare la stoltezza delle nostre scelte?
Resta il problema -e nessuno intende rimuoverlo- dei parcheggi nella città.
Ma è poi vero che le soluzioni a portata di mano sono sempre le più indovinate?
O non sarà che alla nostra generazione sia chiesto un supplemento di intelligenza e di fantasia, a salvezza e salvaguardia della città del futuro?

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Che ne sarà degli alberi e dei nostri sogni? Temo purtroppo di risvegliarmi un mattino e di vederli travolti dall'avvento delle ruspe.
Per questo di tratto in tratto mi sorprendo a contemplare la macchia verde degli alberi di Piazza Bernini e l'ombra che si disegna mobile e discontinua sul prato, quasi nel tentativo disperato di fissare indelebilmente nella memoria un'immagine che prima o poi ci sarà strappata.
È mattino. La città si sta ancora pigramente svegliano. Eppure qualcuno è già seduto all'ombra sulla panchina: sfoglia un giornale, fresco di stampa, e ne discute di tanto in tanto con gli siede accanto.
Scampoli improbabili di un piccolo mondo antico: allora usava nei paesi sedere la sera sui gradini o cippi di pietra, subito fuori la soglia e la strada -incredibile!- era ancora il luogo del convenire. Le cose e pura il tempo li illuminava una misura che ora perdendosi, quasi un respiro di umanità.
"La città di Dio" -è scritto nel Salmo- "tu veda fiorire, di giorno in giorno per tutta la vita" (Sal. 127): è una speranza che non si arrende; è una preghiera.

don Angelo


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