articoli di d. Angelo


 

LA FESTA DELLA CAPANNE
E IL SOGNO DEL MANDORLO

Invano mi affatico a riordinare le carte - le molte carte - che si sono accumulate, l'una sull'altra, nel mio studio. Invano mi affatico - e questo mi fa soffrire molto di più - a riordinare i ricordi - i molti ricordi e le emozioni - del pellegrinaggio nella Terra dei Padri, la Terra Santa.
Affido a Ersilia e alla sua prosa pulita il compito arduo, la fatica di fare cronaca del pellegrinaggio. Io mi limito a evocare due suggestioni: una festa e un albero.

UN FIORIRE DI CAPANNE

La festa che qui vorrei ricordare è quella ebraica dei Tabernacoli o delle Capanne o Sukkoth ( da sukkah, tenda in ebraico). Il nostro pellegrinaggio infatti coincise in gran parte con i sette giorni delle festa delle Capanne.
Era come se le case degli ebrei si fossero in quei giorni dilatate. Ed ecco apparire, accanto alle case, nei giardini, sulle terrazze e sui balconi, delle capanne, generalmente intrecciate con giunchi; e rami di palme a fare da tetto.
Oggi mi chiedo perché mi sia rimasta nel cuore l'immagine di quelle capanne. Forse perché - come ci suggeriva Pia Compagnoni - "non una stabile e solida dimora, ma l'apparente fragilità della capanna diviene il luogo più proprio per accogliere la divina presenza e i giusti che l'accompagnano. La fragilità della capanna diventa così nel contempo segno d'esilio e di presenza".

LA CONDIZIONE DELL'ESILIO

Gli ebrei sono così ricondotti ogni anno a rivivere il tempo della fuga dal paese d'Egitto e il loro dimorare sotto le tende. Secondo il comando del Levitico:
"Celebrerete questa festa in onore del Signore, per sette giorni, ogni anno. E' una legge perenne di generazione in generazione. La celebrerete il settimo mese. Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d'Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio" (Lev. 23,41-43).
E nella capanna il mistero di una presenza. Così infatti prega entrando nella capanna, il pio israelita: "Possa essere la tua volontà, Signore mio Dio e Dio dei miei padri, far sì che la tua Shekhinah (presenza) abiti in mezzo a noi. Diffondi su di noi la capanna (sukkah) della tua pace e inondaci con la tua gloria maestosa, santa e pura. A coloro che hanno fame e sete dai cibo e bevanda. Concedi lunghezza di giorni nella terra santa cosicché possiamo servirti con riverenza. Il Signore sia benedetto per sempre. Amen".

LA PROVVISORIETA'

"Siate come viandanti" avrebbe detto Gesù, stando al vangelo di Tommaso. E, ancora secondo un antico "agraphon": "Il mondo è un ponte. Attraversalo, ma non abitarvi sopra".
A sessant'anni dalla fondazione della nostra parrocchia, all'inizio di un nuovo anno pastorale, alla vigilia della rielezione del Consiglio pastorale della nostra comunità, questo dobbiamo ricordare: che la parrocchia non è un assoluto, è una fragile tenda.
Ricordare la provvisorietà umana, così spesso negata, nei fatti, dalla ricerca ossessiva di sicurezze, quasi appartenesse alla natura delle cose il segno dell'assolutezza: quante volte ci scandalizziamo per la nostra fragilità, per il nostro vedere e non vedere, per la labilità degli incontri, per i distacchi della vita, per la precarietà di tutto ciò in cui inconsciamente diamo crisma di assoluto.
Dimentichiamo che siamo pellegrini, in terra d'esilio. Forse anche noi dovremmo di tanto in tanto uscire dalle nostre case, immagine della stabilità, e dimorare sotto le tende. Per ricordare la fragilità e insieme il mistero.
Custodire il mistero: il mistero della presenza di Dio nella tenda fragile della nostra parrocchia, nella tenda fragile delle nostre case, nella tenda fragile della nostra vita, nella tenda fragile della carne del Signore.
Non nasceva forse da qui lo stupore che ci accompagnò lungo tutto il pellegrinaggio, lo stupore per un Dio, che, in Gesù di Nazaret, prese dimora nella fragile tenda della nostra umanità?

UN MAZZO FESTIVO

Quante volte, nei giorni della festa delle Capanne, per le strade di Gerusalemme ci siamo incantati a contemplare gli ebrei della stretta osservanza - abito nero, camicia bianca, cappello nero dalle larghe tese - procedere quasi ritualmente, portando tra le mani un mazzo festivo, formato da una palma, un ramo di mirto, due rami di salice, un ramo di cedro.
Ciascuna delle quattro specie - spiegano e rabbini - rappresenta il popolo nel suo insieme: il cedro ha sapore e odore, rappresenta coloro che conoscono la Legge e ne compiono le opere; la palma invece ha sapore e non ha odore: c'è chi conosce la legge , ma non compie le opere; il mirto al contrario ha odore e non sapore: rappresenta coloro che compiono le opere buone, ma non sono istruiti nella legge; c'è infine il salice che non ha né odore né sapore: rappresenta chi non compie le opere buone e non conosce la legge.
Ebbene tutte queste categorie, senza distinzione, sono chiamate a stare insieme. Quasi un simbolo per la nostra comunità, dove importante diventa stingersi insieme, sostenersi l'un l'altro, sapersi aspettare, cadenzando il proprio passo su quello degli altri, dei più deboli soprattutto.

HO CERCATO UN MANDORLO

Di ritorno a Milano, la mia città, per qualche giorno mi è capitato di camminare per le strade e di immaginare che qua o là, su un balcone o su una terrazza o all'interno di un improbabile giardino, all'improvviso apparisse la sagoma di una capanna. Era solo un sogno.
Tra le case ho cercato anche un mandorlo, un mandorlo in fiore. Nemmeno in Israele mi fu dato vedere un mandorlo in fiore: non era quella la stagione. Ma perché il mandorlo?
Perché - ci spiegava la nostra preparatissima guida - Dio lo puoi raccontare con l'immagine dolcissima del mandorlo:

"Parlami di Dio
dissi al mandorlo.
E il mandorlo fiorì"
(Kazantzakis Nikos, lettera al Greco)

Il mandorlo è il primo a fiorire e l'ultimo a perdere le foglie. Mandorlo, l'albero che veglia: un gioco segreto di parole e di suoni unisce "mandorlo" ( in ebraico "sahqed") a "io vigilo" (in ebraico Shoqed).
L'immagine del mandorlo, che attende la fine della stagione delle piogge, per essere il primo a fiorire, parla di Dio che - come dice Geremia - sempre vigila:
Mi fu rivolta questa parola dal Signore: "Che cosa vedi, Geremia ?". Risposi: "Vedo un ramo di mandorlo". Il Signore soggiunse: "Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla" (Ger. 1,11-12).
Mandorlo è Dio - diceva Pia - mandorlo è un Vescovo - colui che vigila -, mandorlo è un parroco, mandorlo un marito, mandorlo è chiunque veglia, chiunque protegge, mandorlo è una presenza affettuosamente vigilante.

AD OCCHI APERTI

Ho sognato ad occhi aperti. Ho sognato che potesse essere piantato un mandorlo all'ingresso della nostra chiesa e che fosse il primo a fiorire e l'ultimo a perdere le foglie.
Un sogno! E poi la dura realtà: qui domina incontrastato l'asfalto. Non c'è posto per un mandorlo.
Forse c'è posto nel nostro cuore: essere il primo a fiorire e l'ultimo a perdere le foglie. E ogni casa un mandorlo, ogni parrocchia un mandorlo, l'albero che è il primo a fiorire e l'ultimo a perdere le foglie!
E io, prete, - lo volesse il Cielo - il primo a fiorire e l'ultimo a perdere le foglie, mandorlo per chi varca e per chi indugia sulla soglia.

don Angelo


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