articoli di d. Angelo


 

EFFATÀ "APRITI"


"Effatà": è il titolo che l'Arcivescovo ha dato alla sua lettera sul "comunicare".
"Effatà" è la parola di Gesù: "Apriti".
E come non desiderare subito e intensamente che Il Signore ridica la parola su di me, su di noi, su questa società, su questa chiesa?
Sottotitolo: "Lettera per il programma pastorale "comunicare"". Sottotitolo dovuto e giustificato, ma non esente da possibili fraintendimenti.
Qualcuno potrebbe infatti dedurre che la lettera è per coloro che si interessano ai programmi pastorali, una specie di consorteria degli addetti ai lavori nella diocesi e nelle parrocchie.
No. La lettera può stare nelle mani di chiunque. Oserei aggiungere con una punta di malignità: per come l'ha scritta l'Arcivescovo. Forse un po' meno per quello che si è voluto introdurre in aggiunta. Ma è poco.
Nelle mani di tutti: anche di quelli che stoltamente persistiamo a ritenere "lontani": la leggeranno appassionandosi.
Non tocca infatti problemi di gestione interna della chiesa. Tocca un problema che sta a cuore a tutti, credenti e no, praticanti e no, giovani e non più giovani: quello del comunicare.
E provi una sensazione leggendola: quella di sentirti raggiunto nell'aria aperta della strada e non nell'aria chiusa delle sagrestie o dei problemi di politica ecclesiastica.
Per strada. E cioè nei problemi di ogni giorno. E soprattutto nel cuore


LA PARABOLA DI UN ARCIVESCOVO

Già questo raggiungere la gente per strada diventa, a mio avviso, una parabola del comunicare. La comunicazione è vera, quando ti raggiunge nei problemi della vita.
Forse andrebbe raccontata, magari sottovoce, questa parabola di un Vescovo -il nostro- e della sua sorprendente capacità di comunicare all'aria aperta, al di là dei rigidi confini della chiesa istituzionale.
Mi si accendono nella memoria decine e decine di volti: uomini e donne che, sedotti dal cammino di questo Arcivescovo, hanno imparato a frequentare per ora la Bibbia: li accomuna un'attenzione tesa e sorprendente alla sua voce di pastore, alle sue parole e ai suoi gesti: contemplano e conservano nel cuore.
Decine e decine di volti che fanno la parabola del Vescovo, una parabola che sembra suggerire che il Vangelo, se coniugato, come dovrebbe, al rispetto e all'ascolto dell'uomo, trova udienze insospettate e desta cammini dello spirito inattesi.
A uno di questi volti -volto di amico- devo queste riflessioni che vorrei introdurre, quasi prima reazione, forse affrettata, alla lettura.
L'amico è rimasto subito conquistato dalla esegesi dell'Arcivescovo sul brano del Vangelo di Marco che dà il titolo alla lettera: il brano annota il passaggio del sordomuto da un mistero di incomunicabilità a un mistero di apertura.
Quel giorno le mani di Cristo lo avevano toccato, prima alle orecchie chiuse, poi sulla lingua muta. Quasi a suggerire che, solo dopo che è caduta la barriera della sordità, la parola si espande "come l'acqua che ha rotto le barriere di una diga".

IN ASCOLTO

Potremmo scrivere a lungo sui disturbi della comunicazione, a livello internazionale, familiare, sociale, ecclesiale. E potremmo fare lamento a non finire sulla Babele dei linguaggi che generano le folle delle incomprensioni e delle solitudini.
Ma illusione sarebbe credere che al problema si dà soluzione escogitando in prima istanza nuove parole, nuovi linguaggi, nuove tecniche di comunicazione.
Il primo disturbo da sanare è la sordità, cioè questa diffusa incapacità ad ascoltare.
Di parole ce ne sono troppe. Anche nella chiesa. Si sprecano le parole, si sprecano i documenti. Con la conseguenza che, bersagliati da mille messaggi, per una sorta di autodifesa, si corre ai ripari, quasi fossero proiettili da cui salvarsi: altre volte si coprono di indifferenza, quasi si assistesse disgustati alla fiera delle ovvietà.
Il primo miracolo da invocare è che le orecchie si aprano e noi tutti si ritorni ad ascoltare, nelle case come nelle chiese, nelle scuole come nelle strade.
Se non stai in silenzio davanti al tuo Dio, in silenzio ad interrogare il suo volto e il suo mistero, aprirai sì le labbra, ma a dire il vuoto.
Se non stai in silenzio davanti alle creature, in silenzio ad interrogare il loro volto e il loro mistero, aprirai sì le labbra, ma a dire lontane astrattezze.

LA PRETESA

Non c'è ascolto dove c'è la pretesa che deve accadere tutto e deve accadere subito. Siamo simili a quei bambini che si illudono di aprire le corolle dei fiori forzandole con le loro dita né hanno la pazienza di attendere il miracolo del sole che le schiuda.
C'è una pretesa nel comunicare che rivela -scrive l'Arcivescovo- una soggiacente mentalità di dominio e di possesso, quasi l'altro fosse "una cosa fa smontare e rimontare a piacere", simile atteggiamento "tradisce la voglia oscura del dominio".
"Come la tura ha dei ritmi che non si possono sforzare se non a prezzo di ritorsioni, così, e a maggior ragione, la persona non può essere avvicinata se non nel rispetto della sua soggettività e iniziando un dialogo rispettoso che permetta una comunicazione profonda.
Alla radice di tanti fallimenti comunicativi sta un atteggiamento di fondo che pervade il rapporto umano, anche quello con le cose inanimate, che è una deviazione del vero concetto del comunicare: un voler possedere, dominare, sfruttare, identificare con sé. Tutte scimmiottature della vera comunicazione".
L'esito è l'invasione dell'altro: e l'invasione genera occupazione, non comunicazione. L'occupazione -la guerra del Golfo insegna- non genera certo spontaneità e dialogo, genera paura, ritorsioni, chiusure.

STARE SULLA SOGLIA

La premessa ineludibile di ogni vero comunicare è auroralmente custodita in un atteggiamento dello spirito che potremmo racchiudere in un'immagine: "Stare sulla soglia", che è il contrario dell'invasione.
A partire da questa immagine ognuno di noi potrebbe già avviare un esame delle sue capacità comunicative e dei suoi fallimenti nella comunicazione: nella mia vita ho il volto di chi sosta rispettosamente sulla soglia dell'altro o il piglio arrogante di chi si sente in diritto di entrare e uscire a suo piacimento?
Davanti all'arroganza e alla rozzezza viene spontaneo rintanarsi -rintanarsi una volta per sempre-; davanti a chi sta sulla soglia, concedendo tutto il tempo dell'attesa e della fiducia, ci viene spontaneo uscire a poco a poco e svelarci.
Questa verità è narrata mirabilmente nella favola della volpe e del piccolo principe che ho avuto la gioia di sentire ricordare ultimamente al matrimonio di due miei amici.
Le favole, come le poesie, spesso custodiscono messaggi di una concretezza affascinante, ma noi, sedotti da un pragmatismo cieco e vuoto, le liquidiamo, dicendo: sono favole, sono poesie, stiamo con i piedi per terra… e con i piedi per terra, con l'aria di chi ha tutto capito, tutto definito e concluso, accade sì qualcosa di concreto: accade la Babele dell'incomunicabilità.

Stare sulla soglia, rispettando la distanza e onorare la diversità e la libertà.
"Gli altri passi" -dice la volpe al piccolo principe- "mi fanno nascondere sotto terra. I tuoi mi fanno uscire dalla tana, come una musica".

Stare sulla soglia dunque e avere un passo leggero.
"Effatà" è una provocazione. Anche per i parroci. Anche per questo povero parroco. Una provocazione e un dono.

"Effatà" -scrive Silvia Giacomoni su "Repubblica"- "si legge come un saggio scritto da mano sapiente, a tratti elegante, con aperture di sottigliezza psicologica finissima. Vengono i brividi se si pensa alle reazioni che può avere un parroco nel leggerla e scoprire che il suo arcivescovo, anziché aiutarlo con consigli pieni di saggezza su come leggere i giornali, lo incita a osservare se stesso quando parla, a verificare quanto rispetto ha per l'interlocutore e se per caso la sua gran foga comunicativa non nasconda un bisogno di dominio su chi lo sta ad ascoltare.
"Effatà, apriti!" è uno scritto che in molti punti può davvero affascinare. Forse questo è il motivo per cui non sembra un documento programmatico per il governo della diocesi.
Eppure lo è".

don Angelo


torna alla home