articoli di d. Angelo


 

QUALE BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO?

Forse perché sono un parroco e niente più, innamorato delle storie sfiorate da Dio, le infinite storie che fanno la mia vita quotidiana, un parroco e niente più, anche quando leggo le lettere pastorali dei vescovi, del mio in particolare, oso sperare che qua e là si aprano invisibili fessure, da cui, come da soglia segreta, intravvedere il cuore di chi scrive, la speranza dunque che la dizione "lettera" non sia un modo di dire, come succede, ma vi sia conservata traccia di una confessione.
Anche nell'ultima lettera del Cardinale mi hanno sorpreso le parole che sfiorano la confessione.
All'inizio, quasi il ricordo di un cammino dello spirito e un invito: "Tutta questa lettera pastorale è stata vissuta, prima di essere stata scritta, lasciandomi muovere dallo Spirito, per entrare nel cuore del Figlio e così conoscere il Padre. Non ho altro scopo diffondendola che di aiutare tutti a compiere questo cammino".
E alla fine, quasi un testamento: "A questo sguardo contemplativo dell'amore ho cercato di far tendere il mio servizio episcopale in mezzo a voi, nella convinzione che non c'è dono più grande da accogliere e da trasmettere che quello della gloria di Dio e dello sguardo diventato capace di riconoscerla e di testimoniarla ogni giorno".

Gloria di Dio, bellezza, bellezza di Dio, mistero da contemplare come i discepoli sul santo monte, bellezza da cui lasciarsi avvolgere e trasfigurare, come Mosè su un altro monte, bellezza, per quanto è possibile ai nostri volti, da irradiare.

Chi è attento al vocabolario ecclesiastico patirà una certa sorpresa -un dolce stupore-- nel leggere la parola "bellezza", che fa il titolo della lettera e accompagna senza interruzioni, come la voce del torrente lungo il cammino sui sentieri del monte.
Nel vocabolario ecclesiastico sono altre le parole più usate, quelle con le quali abbiamo maggiore dimestichezza: la parola "verità" per esempio, la parola "bontà". Di verità e bontà sono piene le omelie dei preti e i documenti ecclesiastici. Una cittadinanza minore tocca invece alla parola "bellezza".
Quasi ci incutesse un certo disagio dire "bello", per esempio, in faccia a tutti, come fa il Cantico, il volto di una donna. Un disagio che tempestivamente cerchi di arginare e vaccinare, aggiungendo al sostantivo "bellezza" la specificazione "di Dio": la bellezza di Dio.
Come se le altre bellezze fossero necessariamente spurie o, peggio ancora, sporche, come se la Sua bellezza, dal giorno in cui furono fatte in Cristo tutte le cose, non avesse trovato dimora nella creazione, come se la bellezza di Dio, irradiata sul volto del Cristo crocifisso, splendente nel Cristo Pastore dalle braccia allargate, il più bello tra i figli di donna, non si fosse riverberata sui nostri volti, ora che il suo Spirito "dimora in noi" e "riempie" -ma qualcuno ancora ci crede?- "tutta la terra".

Una bellezza da riproporre urgentemente, perché "una città brutta" -ripeteva frequentemente Padre D. Turoldo- "abbruttisce gli uomini". Forse si può anche dire che una chiesa brutta abbruttisce, impoverisce i credenti.
Ciò che oggi ci occorre è un sussulto, una fascinazione, un innamoramento, l'emozione per "la bellezza racchiusa nel frammento" -direbbe Bruno Forte- finestra aperta verso l'illimitato.
Il pericolo dell'abbruttimento, della negazione della bellezza è reale -dice l'Arcivescovo- e non riguarda solo i non credenti e gli spazi del mondo, riguarda anche i credenti e la vita della chiesa: "Parlo di quella negazione della bellezza che è spesso sottile e pervasiva e abita la vita di credenti e non credenti: è la mediocrità che avanza, il calcolo egoistico che prende il posto della generosità, l'abitudine ripetitiva e vuota che sostituisce la fedeltà, vissuta come continua novità del cuore e della vita".

Non è forse vero che la stessa verità, senza bellezza, è gelida, è teorema, è assetto dottrinale, non fa trasalire il cuore? Lo fa trasalire il racconto, perché abitato dalla bellezza dei volti e delle storie: forse per questo Gesù non definiva, ma raccontava. E nel frammento della parola si apriva una finestra, da cui contemplare il mistero.
Il bene stesso, la virtù, senza bellezza, diventano pesanti, finiscono per soffocare: è il rimanere nella casa del figlio maggiore della parabola, un rimanere senza brividi, senza trasalimenti, semplicemente per un dovere.
Succede di ascoltare discorsi noiosi, pesanti, asfissianti -si confonde la radicalità del vangelo con la pesantezza- e noiosi, pesanti, soffocanti i cristiani stessi. Il volto non è quello dell'illuminazione del monte, ma quello corrucciato della lamentazione.
La liturgia stessa vive a volte in parole lontane da ogni sussulto di vita e del cuore. Senza bellezza, si riduce a teatro, teatralità vuota, coreografia perfetta ma senz'anima. Parole proclamate, canti urlati, nell'assenza di occhi che scrutano dalla soglia e adorano.
Anche la comunità, se viene meno all'interno la bellezza, diventa nuda organizzazione, apparato senza cuore, registri senza l'emozione dei volti.

Manca -i più lucidi l'avvertono- un'incandescenza, che parli, dai volti, di qualcosa che è accaduto e ti ha acceso il volto, ti ha cambiato faccia. Sul monte Gesù ha cambiato volto, ma forse anche i discepoli, quando dicevano: "è bello rimanere qui!"
È "bello": aggettivo meno usato nelle nostre proposte pastorali. Noi diciamo: è giusto, è vero, è doveroso, è legittimo. Poche volte diciamo "è bello", a segnalare a noi stessi e agli altri la bellezza di ciò che sta sotto i nostri occhi. È bello il vangelo, è bello Gesù, è bello il piccolo seme nascosto nella terra.
Succede che uomini e donne cambino faccia. Li guardi e ti viene spontaneo chiedere loro che cosa sia mai capitato. Succede che ti rispondano che si sono innamorati. Potesse succedere anche ai credenti di essere interrogati per il loro volto, trasfigurato come quello dei discepoli sul monte!

Quando il Cardinale parla di uno sguardo contemplativo disegna quasi una condizione per la soglia della bellezza: avere occhi.
Avere occhi: "Hanno occhi e non vedono". È caratteristica degli idoli vani e vuoti avere occhi e non vedere. Hanno occhi e non vedono accadere la bellezza.
Sono gli uomini e le donne abbagliati dal mito pallido del mercato, una mentalità mercantile che ha come unica aspirazione ciò che è utile, ciò che ha un tornaconto, ciò che rende… e non ciò che è bello. Una simile mentalità non può avere che un effetto, quello dell'accecamento: hanno occhi e non vedono.
La bellezza è per i ricercatori di fessure, di soglie segrete, di fili pressoché invisibili. Soglie non tanto da varcare con animo predatorio, ma su cui sostare, da cui intravvedere e provare emozione, commozione.
La bellezza è per i ricercatori di un oltre, quelli che hanno resistito alla seduzione della quantità, della grandezza esteriore, dell'esibizione.
Avere dunque occhi: "Beati i puri di cuore perché vedranno Dio".
"Beati gli ubriachi" - scrive E. Galeano - "perché vedranno Dio due volte". Parola che in un primo momento risuona quasi dissacrante, ma forse sta a dire che occorre uno sbilanciamento: quello di cui parlava il nostro Arcivescovo nella sua prima lettera pastorale. E così si chiude l'arco e si ritorna all'inizio.
In parrocchie troppo organizzate, troppo programmate, troppo prevedibili … in credenti troppo organizzati, troppo programmati, troppo prevedibili non c'è posto per la fascinazione della bellezza.

La bellezza, nella sua totalità ultima, è quella evocata dall'Arcivescovo, la bellezza della Trinità, sorpresa non nel balletto gelido dei numeri, ma nella sua danza imprevedibile e stupefacente: nel suo donarsi all'umanità e alla terra.
La bellezza -ricorderà il Cardinale nella lettera- trova il suo luogo più emozionante nell'amore del Crocifisso, in quel suo consegnarsi senza condizioni a noi, e non perché siamo puri, ma perché siamo amati.
"Il cristianesimo" -scrive Bruno Forte- "confessa che l'evento della bellezza si è compiuto una volta per sempre nel giardino fuori Gerusalemme. Sulla roccia del Calvario sta la Croce della Bellezza".
Il vero Giubileo è arrivare a questo giardino e contemplare dall'esile fessura il pastore bello, il pastore che si consegna.

Ma la bellezza -l'Arcivescovo ce lo ricorda con forza- non è un possesso. Non sopporta atteggiamenti predatori. Ogni volta che la bellezza, qualsiasi bellezza -quella di un bambino, quella di una donna, quella di un monte, quella di Dio- è avvicinata con atteggiamenti predatori si intristisce e inaridisce tra le mani.
La bellezza disegna un oltre, è fessura aperta: la discesa dal monte dei discepoli, l'invito a tacere è ammonimento a tutti oggi e in particolare alle chiese. Decisivo non è il parlare, ma avere il volto trasfigurato.

Non c'è un luogo esclusivo della bellezza: circoscriverla ad un luogo è fare azione predatoria. Ci sono soglie, le più disparate. Beati gli occhi che vedono.
Penso alla soglia di due cari amici non credenti. In una conversazione sulla bellezza li ho sentiti citare con emozione i versi di Borges:

un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire
chi ringrazia che sulla terra esista la musica,
chi scopre con piacere un'etimologia,
due impiegati in un caffè del Sud giocano in silenzio a scacchi,
il ceramista che intuisce un colore ed una forma,
il tipografo che compone questa pagina che forse non gli piace,
una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto,
chi accarezza un animale addormentato,
chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto,
chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson,
chi preferisce che abbiano ragione gli altri,
queste persone che si ignorano, stanno salvando il mondo.

Soglia della bellezza può essere, se hai occhi, la mamma che quest'estate in alta montagna leggeva nel sole, sulla sdraio, un libro, nel passeggino accanto un bambino mongoloide tenerissimo riposava. Gli occhi sembravano guardare dentro, a solcare il mistero.

Non va ricercata la bellezza lungo i sentieri della ricercatezza e nemmeno dietro quelli dell'imponenza.
Un libro, uscito in questi anni negli Stati Uniti, a coloro che sono in ricerca e provano disagio in solenni liturgie, case vuote disabitate, dà un consiglio: "Prova questa variante: va a Messa durante un giorno feriale. C'è un'atmosfera diversa, più intima, con poca gente. La cripta di un convento, la piccola cappella in una città e anche la tua stessa parrocchia, la messa si rivela spesso in modo inaspettato. Potresti chiudere gli occhi ed immaginare l'ultima cena. E tu sei là, intorno alla tavola. E hai proprio ragione… Tu sei là".

Soglia della bellezza può essere in un mattino d'estate il volto della creatura che ami, la donna che Dio ti ha portato un giorno nel sonno e che ora, finalmente e dopo tanto correre hai il dono di contemplare. Quasi una soglia di Cristo, della sua bellezza.
Ho letto con emozione quest'estate in un biglietto di un amico: "Anche oggi, come ventisette anni fa, in tempi di contestazione, hai chiesto di rispondere alla domanda: 'Chi dici che io sia?'. Mi appiglio al presente. Anna che guarda e sorride e poi cammina alla messa. Il suo sorriso, il suo vestito leggero di seta a fiori. È troppo facile ripeterti così. È così. Ma come posso rispondere oltre i suoi occhi, oltre il suo sguardo, il suo sorriso, la sua bocca? La sua grazia. Silenziosa e morbida. Così. Foglie morbide, morbide e rosa, onde".

La bellezza nel frammento. Anche la bellezza di Dio sulla croce si è ristretta nel frammento. Avere occhi per contemplare. Scendere dal monte non significa abbassare la poesia. Ma portare nella carne la gloria.

don Angelo


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