articoli di d. Angelo


 

ATTENDIAMO ANCORA IL MESSIA ?

"Ricca e satolla": questa l'immagine dell'Italia, disegnata dall'ultima indagine demoscopica. Come a dire: ricca e senza attese.
E quale l'immagine della Chiesa? I cristiani sono così segnatamente diversi all'interno di una società ricca e satolla?
I volti dei credenti -i nostri volti- appaiono spenti o accesi? Spenti dalle cose -dalle mille cose cui spesso ti costringe anche l'organizzazione ecclesiastica- o accesi nell'attesa, protesi oltre?
E attesa di chi? Attesa del Messia?
Penso di aver stupito, o forse anche scandalizzato qualcuno, l'altra sera, dicendo che ci accomuna -ebrei e cristiani- l'attesa del Messia. Ho visto d'improvviso accendersi i volti, come per una interrogazione.
Ci capita a volte di sfiorare, negli incontri, quasi senza avvedercene, temi affascinanti e immensi.
Anche noi attendiamo il Messia. L'affermazione -anche se provocatoria- deve pur avere una sua plausibilità, se ogni volta che ci raduniamo per la Cena del Signore, il nostro è un celebrare "nell'attesa della sua venuta".

GIÀ, MA NON ANCORA

Molto semplicistico e pericolosamente ambiguo sarebbe porre la distinzione tra ebrei e cristiani sul crinale dell'attesa, quasi che gli ebrei attendessero e i cristiani non attendessero.
Perché se è vero che il Messia è venuto nello "scandalo" della nostra carne, è anche vero che questo dono -che non avrà mai finito di stupirci e di sconvolgere le nostre immagini di Dio- è e rimarrà sempre dono dentro il guscio della nostra umanità: già presente, ma non ancora pienamente liberato dalla nostra pesantezza; già presente, ma ancora velato.
È vero, Cristo è la Parola definitiva, ma una Parola pur sempre rivestita del limite dei nostri involucri umani.
La nostra è una grazia in fragili vasi; la nostra è una fede incerta come quella di Tommaso, rinnegata come quella di Pietro, sfidata dagli eventi della vita come quella dei discepoli di Emmaus.
Il nostro è un vedere, ma come a sprazzi, "come in uno specchio", non ancora nello splendore della gloria che ci è stata rivelata.
Esperienze dunque da cui usciamo non saziati, ma acuiti nell'attesa.
"In un certo senso" -scrive il teologo luigi Sartori- "si dovrebbe dire che l'esperienza del Risorto, donata ai primi discepoli, ha generato piuttosto una crescita di fame e sete di Lui, il Cristo, ha fatto sentire ancor più la distanza dalla meta, ha alimentato l'attesa messsianica".
Siamo anche noi riconoscibili per questa acuita sete, per questa confessata distanza, per questa insonne attesa?
E dove, al contrario, i sintomi di un costume cristiano che ha cancellato o impallidito l'attesa?

INSTALLATI NELL'AMBIGUITÀ

Ci sembra di notarli, per esempio là dove, pur frequentando regolarmente le chiese, non abbiano proprio l'aria di chi è interessato alla città futura, o di chi è proteso verso l'altro Regno, tanto ci siamo solidamente installati negli affari della città terrena, tanto ci siamo compromessi negli intrallazzi e nelle ambiguità dei regni di questo mondo.
Eppure discepoli di uno che senza contorcimenti proclamò: "Il mio Regno non è di questo mondo".
Del regno del Maestro facciamo così raramente la lama di giudizio per mettere in questione il nostro "regno, dominato da ben altre spinte: il denaro, il potere, il successo; e tutto ridotto a Mercato!
Per questo qualcuno comincia a dubitare seriamente circa l'attesa della città futura da parte dei cristiani.
Hanno ancora un senso per noi le parole della lettera a Diogneto?
"Abitano nella loro patria, ma come stranieri. Partecipano a tutto come cittadini e tutto sopportano come forestieri. Ogni terra straniera è loro patria e ogni patria terrena straniera".

L'OSTENTATA SICUREZZA

I sintomi di un cristianesimo che ha cancellato o impallidito l'attesa ci sembra di intravederli anche nella ostentata sicurezza dei credenti -tutto è già compiuto-, nella pretesa di possedere il mistero - "noi vediamo" -, nella presunzione di circoscriverlo nelle nostre chiese o di intrappolarlo nel gelo delle nostre povere definizioni umane.
La sicurezza, il possesso, la definizione denunciano l'ingenua pretesa di sequestrare Dio in una casa, la nostra casa.
Quando avrai costruito una casa, apri la finestra e scruta lontano. E se chiuderai la porta, sta con l'orecchio teso, in silenzio, a decifrare i più piccoli rumori, per aprire, appena arriva e bussa.
Dunque confessare la distanza: sembra fare a pugni con l'attesa del Messia l'aria soddisfatta di chi, in fatto di fede, ritiene che tutto sia scontato, nulla più da esplorare.

LE ORME

Attendere Cristo, avere sete del suo Volto vuol dire anche ricercarlo pazientemente e insonnemente nella Parola, con la consapevolezza d'altro canto che il Messia sarà sempre l'altra riva che non avrai mai raggiunto, terra il cui segreto non ti apparterrà mai totalmente, eppure Terra del mistero da avvicinare, come Mosè, togliendosi i calzari.
Nella ricerca appassionata, paziente, intelligente della Parola di Dio, i credenti danno prova che non è morta nel loro cuore l'attesa del Signore.
Ricordo un'emozione patita il gennaio dello scorso anno, a Bocca di Magra: il sole aveva acceso orme di luce sul mare, e più le orme si inoltravano, più si avvampavano di fuoco, quasi richiamo a un mistero.
Patire la distanza, avvicinarsi, stare sulla soglia.

Il sentiero di luce
acceso nel mare
punta trepido al largo
là dove il sole l'ha destato.

Le orme sull'acqua
gelide e chiare a riva
muoiono lontane
in pozze di fuoco.

Poter venire a te
come Pietro
sulle acque.

don Angelo


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