articoli di d. Angelo


 

LA LUNA, GLI ALBERI E L'ABBRACCIO

Sere fa, in un ritaglio, piccolo fotogramma di un servizio televisivo, mi colpì un'immagine.
Veniva dall'Iraq ed erano i giorni della paura: la paura di una guerra. Immagini da lontano. Ma "vicino" e "lontano" ai nostri giorni si sono fatti relativi.
Un paesaggio notturno e uno spicchio, spicchio esile, quasi un'unghia di luna al suo struggimento. Immagine stregata, da mozzafiato, tanta era la sua bellezza.
Le parole a commento non erano queste -non le ho registrate- ma suonavano pressapoco così: "Gli Stati Uniti sono in attesa che la luna cali pienamente sull'Iraq. Nel buio assoluto sarà più efficace l'attacco dei bombardieri in attesa".

Mi sembrò una profanazione vergognosa. Tu dirai: usata da secoli. Ma, così esibita, mi appariva come una sconsacrazione.
Usare della natura, dei suoi simboli intrisi di poesia e di bellezza, a fini di morte.
La luna degli innamorati, la luna compagna e guida alle trasmigrazioni dei beduini nel deserto, la luna in ascolto delle interrogazioni angosciate del pastore errante per le steppe dell'Asia, la luna... suggeritrice, con il suo venire e scomparire, di mosse di morte!
Legare alla luna la morte, quando la storia, la storia religiosa, vi ha legato da sempre simboli di vita, riti di rinascita.

E così il pensiero andava alla pasqua dei nomadi, loro che alla luna hanno legato, e anche oggi legano, una festa di vita.
Loro ancora oggi a scrutare i cieli. E che sia plenilunio di primavera per celebrare la stagione nuova, un inizio, l'inizio di un nuovo anno, verso nuovi pascoli. Un inizio di vita, santificato da riti, da canti, da danze, tant'è che alcuni fanno risalire al "saltellare" dei nomadi il nome stesso della Pasqua.

Alla luna, al suo apparire e scomparire è legata anche la Pasqua dei nostri padri, gli ebrei, festa che evocava non immagini di paura ma di gioia, non parole di distruzione ma di liberazione, evocava l'uscita dall'Egitto.
Alla luna, al suo apparire e scomparire è legata anche la Pasqua dei cristiani, festa delle vita. Non vince la morte, ma la vita: questa è la Parola scritta nella Pasqua, il grande passaggio di Gesù di Nazareth, passaggio dalla morte alla vita.

Mi chiedo se non è ora che ci si rifaccia incantati alla poeticità della creazione e leggere, leggere instancabilmente i segni che sono racchiusi nel creato, segni che custodiscono impronte.
Che strano -mi dico- che sia stato proprio l'occidente, l'occidente cristiano, il più grande depredatore della creazione. Depredavano e nelle chiese leggevano il prologo del Vangelo di Giovanni: leggevano che tutte le cose -tutte!- sono state fatte per mezzo di lui, il Verbo di Dio.
Salvare la creazione, questo doveva essere il mandato, la passione irrinunciabile, l'impegno incontenibile.

E di rimando, un'altra immagine nel cuore, meno triste dell'immagine di una luna spiata, quella che mi confidò anni fa in una confessione pasquale un parrocchiano di origini emiliane.
Mi ricordava la gioia dei ragazzi del suo paese, appesi alle funi della campane, nel vecchio campanile all'ora della veglia pasquale, a contagiare i cieli della festa della risurrezione.
E, insieme, ricordava la corsa frenetica dei ragazzi, che, abbandonate le funi, volavano, fuori dal campanile, ad abbracciare gli alberi dei campi. Risurrezione, festa e gioia dovevano essere per tutti.
Irradiazione della forza della risurrezione che pervade la storia e la creazione. Lásciati abbracciare!
O anche riconoscimento? Riconoscimento dei segni del Verbo disseminati nella natura. Abbraccio ancora oggi significativo dopo avventure di stupri e di violenze al creato.

La Pasqua di Cristo ci restituisce occhi nuovi. E con occhi nuovi ci sia concesso contemplare il sigillo di Dio nelle cose.
Il Patriarca Ignazio IV di Antiochia, in un suo scritto, scrive:
"Guardare un albero, come ingigantisce contro la gravità, unendo con un asse vivente la terra e il cielo. Sradicato, spogliato del fogliame mortale, ripiantato sul monte del Cranio -il cranio in attesa del primo Adamo stando ad una vecchia tradizione- esso diventa la croce vivificante, l'albero di vita nel cuore della città cubica di cui parla l'Apocalisse. La terra si fa focolaio, si fa preghiera nella montagna, diventa cuore pacificato, specchio del cielo in un lago" (Salvare la creazione, pag.26, ed.Ancora).

Non mi lascia l'immagine dei ragazzi appesi alle funi e abbracciati agli alberi.
Mi vado chiedendo se questa non possa essere la consegna dopo aver celebrato la Pasqua nella chiese: "Va ad abbracciare!".
Ma che non sia -diciamocelo- un abbraccio formale, spento, senza emozioni e trasalimenti, come spesso avviene nelle nostre liturgie allo scambio della pace.
Corri ad abbracciare tutti e tutto. E sia abbraccio tenero, fiducioso, perché il grande abbraccio della Croce ha mutato la morte in vita.

Così p. David Turoldo cantava per un mattino di Pasqua:

Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Non credo più neppure alle mie lacrime,
e queste gioie sono tutte povere:
metterò un garofano rosso sul balcone
canterò una canzone
tutta per lui solo.
Andrò nel bosco questa notte
e abbraccerò gli alberi
e starò in ascolto dell'usignolo,
quell'usignolo che canta sempre solo
da mezzanotte all'alba.
E poi andrò a lavarmi nel fiume
e all'alba passerò sulle porte
di tutti i miei fratelli
e dirò a ogni casa: "pace!"
e poi cospargerò la terra
d'acqua benedetta in direzione
dei quattro punti dell'universo,
poi non lascerò mai morire
la lampada dell' altare
e ogni domenica mi vestirò di bianco.

Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
E non piangerò più
non piangerò più inutilmente;
dirò solo: avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso
poi non dirò più niente.

don Angelo


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