articoli di d. Angelo


 

SCENDERE A CAFARNAO

La carne di una creatura. Il suo volto, immagine del tormento.
Ho da confessare che per giorni e giorni -sarà segno della mia fragilità e della mia pochezza?- mi sono portato negli occhi , compagno di viaggio inallontanabile e lacerante, la carne di una creatura, il suo volto, immagine del tormento.
Ancora oggi, quando mi riviene al cuore, mi si smorza il sorriso sulle labbra e misuro l'enfasi vuota di tanti nostri problemi: li vedo cedere d'improvviso, denunciando labilità e inconsistenza.
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Sono rimasto per più di un'ora accanto a un letto d'ospedale, a Passirana di Rho, poco fuori Milano.
Mi aveva chiamato con urgenza un'assistente sociale.
E. C. -mi diceva al telefono- voleva vedermi. Ma che facessi presto, fin tanto che le rimaneva la possibilità di parlare. Sedata com'era, di lì a poco le sarebbe stato pressoché impossibile spiccicare parola.

OCCHI ABITATI DALL'ANGOSCIA

Rimanere accanto a un letto per più di un'ora. E, per più di un'ora, sentirti dire implacabilmente: "T'imploro, fa' qualcosa per farmi morire. Tu non mi puoi abbandonare così. Tu non puoi volere che io vada a morire in un ospedale psichiatrico. Mi capisci? Io mi sono buttata dalla finestra perché davanti agli occhi avevo lo spettro del manicomio ed ora mi ritrovo con davanti il manicomio e per di più in carrozzina. Tu non puoi chiamare vita un vivere per essere cateterizzata; piagarmi giorno dopo giorno; giorno dopo giorno essere uccisa dentro, in un manicomio. Tu non puoi permettere che alle persone che amo sia legato questo peso per tutta la vita. Tu non puoi. Tu devi fare qualcosa per farmi morire!".
Rimanere per più di un'ora e sentire questa implorazione sempre uguale, sussurrata lucidamente, struggente e implacabile a un tempo.
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E fissare occhi, abitati un giorno da una luce infinita e ora vederli abitati dal tormento.
E sentire il vuoto delle parole, le nostre, quelle quotidiane; e soffrire la lontananza di altre parole, anche quelle così precise, ma anche così asettiche e gelide -buone per ogni stagione- dei nostri documenti.
Nascere, soffrire e morire oggi. E che cosa dice l'Evangelo?
Che cosa dice l'Evangelo a E., ai suoi occhi abitati dall'incubo e dalla paura?
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Rimanere per ore accanto a un letto e capire che è comodo -troppo comodo- leggere il Vangelo nelle chiese, tanto più se lo si legge al di là di ogni confronto con la durezza del vivere, quasi fosse una parola per le quattro questioni -questioni da poco- che immiseriscono l'orizzonte delle nostre comunità.
Fissare struggentemente, dolcemente gli occhi abitati dal tormento e riandare d'istinto alle parole del nostro Cardinale, nell'ottobre scorso, al VII Simposio dei Vescovi europei.

"Che cos'era Nazaret? Una insignificante borgata della Galilea, non nominata dall'Antico Testamento, né da Giuseppe Flavio, né dal Talmud. Essa rappresenta il luogo della tranquillità paesana, delle semplici abitudini contadine, delle piccole gelosie e degli orizzonti ristretti. Al suo confronto, Cafarnao appare come la città aperta, complessa, luogo del lavoro e del commercio, dello scambio e del traffico, città di frontiera, nella Galilea delle genti, sede del presidio romano, luogo di incontro tra diverse culture.
Andare a Cafarnao vuol dire, dunque, per Gesù, uscire dall'abituale, dal previsto, affrontare il cambio, gli incontri, ciò che noi chiamiamo la "modernità", la "complessità", il "pluralismo". Scendere a Cafarnao era affrontare il nuovo modo di vivere, la gente, la quotidianità segnata dal lavoro duro e dalla sofferenza, dal nuovo e dall'insicurezza. Non per niente l'evangelista Marco descrive il primo soggiorno a Cafarnao come un incontro con indemoniati e con tutti i malati (Mc 1, 23.30-32).
Gesù non affronta questo cambio quasi malincuore, restando ancora nostalgicamente nel quadro nazaretano. Egli accetta Cafarnao, tanto che essa verrà detta la "sua città" (Mt 9,1). Questo non gli impedisce di essere libero e critico verso di essa. Non ne tace le colpe, non risparmia le ammonizioni, fino all'invettiva, come si vede in Matteo 11, 23. Ma tutto parte da un intenso amore, da una quotidiana presenza, da un essersi fatto partecipe del destino e delle sofferenze della sua gente".
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Scendere a Cafarnao può allusivamente significare per un credente scendere negli interrogativi di chi soffre e patire il silenzio di Dio.
"Essere dentro la malattia secondo la legge dell'incarnazione" - mi è capitato di scrivere lo scorso anno per la rivista "Servitium" - "significa il più delle volte tacere.
Tacere e condividere nel silenzio l'interrogazione che non ha risposta nell'immediatezza: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". L'interrogazione, patita insieme nei lunghi silenzi con i malati, crea la terra d'incontro, crea profondità di comunione.
Chi sa misurare ciò che nel silenzio è passato dall'uno all'altro in quell'interrogare e rispondere degli occhi, in quello stringersi a non finire delle mani, in quella tenerezza limpida dell'accarezzare un volto?".

L'ICONA DEL CROCIFISSO

Scendere a Cafarnao.
E svelare l'Evangelo, quello custodito più nella carne sofferente di un uomo o di una donna che nella molteplicità asettica delle nostre parole.
"Cristo mediante la sua sofferenza salvifica si trova quanto mai dentro a ogni sofferenza umana e può agire dall'interno di essa con la potenza del suo Spirito di verità, del suo Spirito consolatore" ("Salvifici doloris" n.26).
Tu, E., sei per me il volto sofferente del Signore; sei, nonostante tutto, limmagine di una fede che è perseverare nel Signore, anche nei giorni della fatica e dell'angoscia.
Tu, con la tua carne, limpida contestazione di una società che va censurando il morire e il soffrire, seducendoci ininterrottamente con il mito dell'uomo forte, potente, sicuro di sé, brillante, dominatore.
Tu, limpida contestazione di ogni cristianesimo e di ogni grazia di basso profilo: cristianesimo e grazia a basso prezzo.
Tu, come ogni malato e ogni sofferente, limpida contestazione al nostro ecclesiastico parlare "dall'alto" e "dal di fuori".
Unica parola a rimanere, nell'inconsistenza delle parole umane, quella della Croce, unica luce accesa nella casa del dolore, unica parola che non offende, ma redime, perché scritta non al di fuori, ma al di dentro dell'umano soffrire.

E LEGGERE UN SEGNO

Rimanere accanto a un letto, ascoltare un'implorazione di morte e capire lucidamente che le nostre parole, quelle più sacre, quelle della fede, quelle che affidano alle mani di Dio -non alle nostre-, al disegno di Dio -e non al nostro- il soffio della nostra vita, diventerebbero parole dimezzate, frammenti incomprensibili, se abbandonassimo chi soffre alla solitudine di un tunnel buio e raggelante, se non disegnassimo spazi dove l'umanità di una creatura è accolta, stimata, amata.
Penso alle strutture ospedaliere o alle nostre stesse case, dove l'attesa di un malato non può essere letta semplicemente come attesa di essere curati meglio, ma come attesa di essere riconosciuti, visti, visitati.
Scendere a Cafarnao è anche rimanere accanto a un letto e leggere il segno negli occhi abitati dalla paura.
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Gli occhi di E. evocavano, nonostante tutto, squarci di una storia, che non potevo dire irrimediabilmente perduta. Forse è solo da disseppellire.
Storia di un liceo dove mi era toccata anni fa l'avventura di insegnare religione nei giorni della contestazione.
E quell'ora diventata spazio di ricerca, di confronto a tutto campo, di dialogo appassionato.
E lei, E., credente, a tessere con la sua sensibilità spazi di amicizia e di comunicazione.
Il liceo, la laurea in medicina, il matrimonio… poi la depressione.
Abitava i suoi occhi una tenerezza infinita. Non è spenta. Ha bisogno di mani e di cuore per essere risuscitata.
Ha bisogno di qualcuno che scenda a Cafarnao.

don Angelo


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