articoli di d. Angelo


 

SALIRE A GERUSALEMME

Forse tutta la vita potrebbe essere disegnata e raccontata come un salire, anche la vita di un discepolo: un "salire a Gerusalemme".
Ai dodici, ma non solo a loro, aveva detto: "Saliamo a Gerusalemme". Come se dicesse: "Là vedrete il segno, là sarà la grande mia ora".
Dunque Gerusalemme è la grande montagna su cui salire. Purtroppo -dobbiamo confessarlo- può succedere anche al discepolo di cambiare, strada facendo, montagna e, anziché salire l'erta di Gerusalemme, affannarsi nella scalata di altre montagne, quasi ci conducesse un altro spirito e non quello di Gesù: lo spirito degli "arrampicatori" di questo mondo.
Non più Gerusalemme la meta del desiderio, ma il proprio successo, il prestigio sociale, la potenza del denaro, il mito del potere. Ebbene non è su queste montagne che si svelerà il Signore: è Gerusalemme.

UNA QUARESIMA CHE CI FACCIA PELLEGRINI

Penso con gratitudine alla Quaresima che ci fa pellegrini verso Gerusalemme, la città della rivelazione, la città del grande segno, là dove negli occhi colmi di luce si rifletterà, come in un riverbero, il nuovo mattino della storia del mondo, la Pasqua del Signore.
La stagione della Quaresima potrebbe dunque essere fissata in questa immagine, l'immagine del "salire".
Forse ciascuno di noi custodisce in un angolo del cuore, quasi lembo di terra purissima, la suggestione di una cima, raggiunta dopo ore di faticoso ma entusiasmante cammino: te ne andavi in silenzio stringendo le labbra, unica compagnia il gorgogliare lontano del torrente e lo zaino, inseparabile amico di ogni ascensione.
Anche se la fatica negli ultimi strappi sembrava avere il sopravvento, pure stringevi le labbra al pensiero che presto, sbucato sulla cima, nell'aria tersa e luminosa ti si sarebbe svelato il miracolo.
Nell'assoluta trasparenza dell'orizzonte infinito le cose, che quaggiù ti andavano soffocando con la loro corposità incombente, là ti sarebbero apparse in un disegno di largo respiro.
Questo potrebbe essere la Quaresima: salire a Gerusalemme e contemplare dall'alto il segno -la Pasqua del Signore- che dà luce e dimensione ad ogni cosa.
Potessimo tutti noi, nei prossimi giorni, subire il fascino di questa terra lontana. È terra alla quale nessuno potrà mai avvicinarsi se non ad alcune condizioni.


IL CORAGGIO DEL DESERTO

Il coraggio innanzitutto di "tirarsi fuori" dall'ossessione convulsa delle cose. Sarebbe infatti illusorio ed ingenuo ritenere che si possa celebrare la Pasqua rimanendo ai piedi del monte.
"Occorre coraggio" -diceva l'Arcivescovo in Duomo lo scorso gennaio- "di ritirarsi, come faceva Gesù, nel deserto, cioè nel silenzio, nella contemplazione.
Il coraggio di alcune pause brevi per evitare di lasciarci macinare dalla ruota delle cose. Esistono già momenti di pausa in una giornata: l'attesa dell'autobus o della metropolitana per esempio, oppure l'attesa di una persona. Altri potrebbero essere utilmente inseriti.
Il coraggio di queste pause brevi aiuta a prendere coraggio per pause più lunghe di preghiera, di meditazione (dieci, quindici minuti, mezz'ora), di lettura del Vangelo, la mattina o la sera".
E non potrebbe essere la Quaresima il tempo del coraggio per pause più lunghe?

IL CORAGGIO DI ABBANDONARE

E con il coraggio del "silenzio" il coraggio di "lasciare": nello zaino non puoi portare tutto, ma solo l'indispensabile, l'acqua e il pane, la Parola e l'Eucaristia.
Dunque tempo di Quaresima come tempo di un altro coraggio, il coraggio di abbandonare ciò che non è indispensabile, ciò che appesantisce il nostro cammino e spegne il nostro volo, ciò che va tristemente offuscando la nostra trasparenza, dietro maschere di vuota fatuità.
Una fatuità così ormai generalizzata da diventare quasi un costume, quasi un rito, da cui ti ritrai -subito dopo averlo celebrato- chiedendoti, per la luce che si è fatta in te, come tu possa aver fatto parte di questa sorta di impazzimento corale.
Un impazzimento che mi è stato con sofferenza e sgomento segnalato da alcuni amici proprio in questi giorni, in alcune espressioni, certo non le uniche, né forse le più inquietanti, ma tali comunque da far pensare.
Mi dicevano dei milioni e milioni di italiani -e noi forse con loro- conquistati e affascinati da quel "rito" non certo esaltante per i suoi contenuti, che si usa chiamare "festival di Sanremo" e non li sfiorava minimamente la tragedia, che pure in quelle ore si consumava, di fratelli e sorelle che nei campi del Libano una disperata fame portava all'amara e assurda ipotesi che in situazioni così allucinanti fosse lecito cibarsi dei cadaveri dei propri morti.
E noi ad inseguire caroselli di fatuità.
Un esempio fra i tanti che rivela lo spreco di tempo, di fantasia, di intelligenza, di immaginazione, dietro immagini vuote, che non hanno altro effetto se non quello di velare e a volte chiudere gli occhi e il cuore.
Chiamati dunque in Quaresima a uscire da questo bagno di fatuità, quasi un lavare occhi e cuore, per poter contemplare, nella sua struggente limpidezza, il segno che ci sarà dato sul monte.

don Angelo


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