articoli di d. Angelo


 

"...E TU AVANZAVI NELLA PEREGRINAZIONE DELLA FEDE"

Le sere si stanno intepidendo, quasi un invito a uscire e a sostare.
E' scritto nell'aria che è maggio. Maggio di un anno che il Papa ha dedicato a Maria, la Madre del Redentore.
Mi viene spontaneo parlarne: povere parole le mie in mezzo a testimonianze tenerissime che ne hanno illuminato lungo i secoli il volto.
Dopo quello del suo amatissimo Figlio, nessun volto fu così intensamente fissato, nessun volto così devotamente vegliato, nelle notti, dal fioco lume di una lucerna.
Non è chiesa e quasi non è casa dove non ti succeda di incrociare una sua immagine.

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E forse più che parlare di lei, vorrei parlare a lei questa sera -parlare o pregare?- nella certezza che anche la mia povera voce sarà custodita nel suo cuore.
La medesima certezza di essere ascoltati riuniva un tempo altri figli nella penombra della vecchia casa, accanto alla brace rossa del camino, dove i vecchi intonavano le "Ave Maria" e i bambini inseguivano con occhi stupiti scintille di fuoco crepitanti lungo la cappa del camino

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A volte mi chiedo che cosa pensi di noi, o Madre. Di noi che non affolliamo più a maggio le chiese e che non abbiamo tempo la sera -troppo ci seduce la televisione!- di mormorare qualche "Ave Maria".
A volte mi chiedo se non preferivi i tempi antichi, quando per le strade uscivi in processione, tra le ghirlande di fiori e nuvole di incenso, il popolo osannante, il manto impreziosito di gioielli e la corona di regina sul capo.
Ora ti è quasi precluso l'accesso sulle grandi vie, dove si corre per cose ben più "grandi" e "importanti". Ti si fa strada al contrario su viuzze più anguste e modeste, dove le case ancora si parlano teneramente l'una all'altra, perchè non disturbate dal rumore.
Neppure tu disturbi, Vergine del silenzio.

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Tu mi perdonerai se oso dirti -come madre già avrai letto i pensieri del cuore- che non soffro, più di tanto, la mancanza delle grandi solenne processioni.
A volte ti osservavo, e mi sembrava che tu dolcemente sorridessi a queste nostre strane manie di vestirsi da regina.
Anzi più di una volta mi è capitato di immaginare che tu nel pensiero riconoscessi le tue povere vesti, vesti di ragazza qualunque di un paese qualunque, così come a Papa Giovanni, seduto "solennemente" sulla sedia gestatoria, il pensiero correva alle spalle robuste di suo padre, quando, la sera, nella gerla portava l'erba falciata e insieme il suo piccolo figlio, di ritorno dai campi.

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A volte capita anche a me di rimanere assorto a contemplarti nelle vesti incantevoli di cui ti hanno ornato gli artisti di ogni terra lungo i secoli.
"Tutte le genti" -avevi cantato- "mi diranno beata".
Ma ti confesso che mai così a lungo e così intensamente ti ho contemplata come nell'incanto povero di un affresco, eroso dal tempo, dove la tua figura spegneva ogni accesso fulgore e parlava ininterrottamente, sommessamente, con l'intensità e il silenzio di un volto.

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È come se mia Madre fosse restituita alla sua casa, alle sue strade, alla sua fontana, al suo frantoio, alla sua anfora, alle sue cose.
Le tue povere umili cose che ancora custodiscono il profumo della vera Nazaret.
Quasi a nulla o poco di te, al contrario, è custodito nella ostentata, mastodontica magnificenza dalla basilica dell'Annunciazione, quasi nulla o così poco della tua umiltà e semplicità.
E così restituita alla verità della tua storia, a una abitazione -la tua- ove il miracolo non era di casa -lo è solo nelle accese fantasie di certi oratori!-, la devozione al tuo nome anziché scolorire, va silenziosamente accendendo significati e profondità nel cuore dei credenti.

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Sì, tu, la prima dei credenti, "beata perché hai creduto". Questa e non altra la tua abitudine. Una beatitudine da vivere e da faticare ogni giorno.
Anche tu figlia di Abramo, il padre dei credenti, chiamato ad uscire da una terra di ovvietà.
Certo meno faticoso e meno rischioso sarebbe stato per te avere un figlio o uno sposo come tutti, meno provata quotidianamente la tua fede.
Andare invece come Abramo verso una maternità che sa di terra lontana e credere -come Abramo e Sara, la donna dal grembo vuoto- che in un grembo possa fiorire l'impossibile!

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E quotidianamente reggere, senza venire meno, alle apparenti smentire di quell'incredibile annuncio cui avevi creduto.
E chiamare Figlio dell'Onnipotente un figlio nato in una grotta; chiamare Figlio dell'Altissimo un figlio braccato, cercato a morte e scampato nella notte; e chiamare Verbo di Dio un bimbo che non sa parole se non quelle che tu amorevolmente gli metti sulle labbra.
Sorprendere in quegli occhi una luce che è nuova, ma così difficile da abbracciare nel suo orizzonte ultimo. E anche tu, come Giuseppe, partire la tristezza di non capire un figlio. "Non compresero" -è scritto- "le sue parole" (Lc. 2,50).
E tu, nonostante le apparenti smentite, avanzavi ogni giorno, come scrive il Concilio (L.G. 58), "nella peregrinazione della fede", un cammino così simile, per la difficoltà, il buio e l'angoscia, al nostro. Tu come noi, ma più forte e più beata di noi.

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E salire anche tu a Gerusalemme; anche tu finalmente illuminata circa l'ora del tuo Figlio. A volte te ne parlava: "Donna, non è ancora giunta la mia ora".
E, giunta all'"ora" -come era possibile, eppure ti è riuscito!- resistere a credere che la promessa si stava avverando: "Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine" (Lc. 2,33).
E chiamare quel grumo di sangue Figlio di Dio vivere e chiamare quella croce trono di Davide, chiamare la debolezza e lo svuotamento "potenza e sapienza di Dio".

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Senza manti e senza regali ti sentiamo più vicina alla nostra condizione di pellegrini della fede, più vicina alla fatica e alla gioia di affidarci ogni giorno alla Parola che viene dall'alto, più vicina nelle ore in cui, come ai santi, anche noi sembra di sedere alla mensa dei non credenti.
Più vicina ogni volta che usciamo dalle terre dell'ovvietà per andare nella terra che ancora non ha figura, se non nella luce degli occhi di Dio.
Più vicina al nostro desiderio, oggi così ardente, di uscire dai nostri cenacoli chiusi e di scendere come Filippo sulla strada che sembra deserta e salire, come lui, sul carro da viaggio dei moderni viandanti, nell'ora del giorno più assolata, e insieme leggere il libro- forse quello della vita- e scoprire che si illumina alla Parola del tuo Figlio.

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"Beata te che hai creduto, o Maria".
Sostienici, come Madre, nel nostro avanzare -tra luci e smarrimenti- nella peregrinazione della fede.
Anche la nostra peregrinazione conosce, come la tua, "una particolare fatica del cuore, unita a una sorte di "notte della fede"- per usare le parole di S. Giovanni della Croce -, quasi un "velo" attraverso il quale bisogna accostarsi all'invisibile e vivere nell'intimità col mistero" (Redemptoris Mater, 17).

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Insegnaci il tuo segreto.
Non desistere mai dal ricordarlo instancabilmente alla nostra smemoratezza.
Il segreto registrato nel Vangelo di Luca (2, 19 e 51): "La madre" -è scritto- "conservava tutte queste cose nel suo cuore".
Questo nostro cuore, o Madre, che, come il tuo, deve ritornare ad essere luogo del ricordo e della meditazione, luogo dove prolungare l'eco della parola di Dio e l'eco degli avvenimenti della terra, luogo in cui confrontare pazientemente le esperienze e pazientemente illuminarle, luogo in cui con libertà di spirito discernere nel presente e insieme progettare il futuro, luogo in cui sorprendere la voce del Maestro interiore, quel Figlio amato da cui tu per prima ti lasciasti educare.
Amen.

don Angelo


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