articoli di d. Angelo


 

IL SOLE SUGLI ULIVI

Stiamo rientrando velocemente a Milano. Tra poco sarà notte. Ci hanno accompagnato fin qui sorprendentemente le ultime luci della sera, un giorno che stenta a morire, anche dentro di noi.
D'ora in poi i ricordi si faranno confusi nella mente e l'ingresso in autostrada sarà per me l'ingresso in un prolungato dormiveglia, scortato da angeli custodi, tanto custodi che potrò anche concedermi sprazzi di sonno, dopo una giornata intensa di emozioni.
La giornata -oggi è sabato- è iniziata a Milano: chiazze di azzurro nel cielo di mattino. Nel corridoio filtra dalle prime ore il sole e va risvegliando i colori, anche quelli improbabili dei fiori penduli della tamaja.
È un invito: stasera -mi dico- non ci sarò alla messa vespertina che introduce la festa e potrebbero degnamente sostituirmi questi fiori color salmone.
Il tempo di portarli in chiesa e poi velocemente partiamo.
Emiliano dice che saranno, poco più o poco meno, quattrocento chilometri. Ennio li prende di petto e non scherza.

Ottocento chilometri, avanti e indietro, per un matrimonio: una pazzia secondo alcuni; ma non tutti, per grazia, sono appiattiti sul registro di un arido calcolare.
E poi un matrimonio, se è sincero, non è forse all'insegna della "dismisura"? Al matrimonio di Stefano e Lucia -puoi scommetterlo- saremo in tanti. E nessuno, proprio nessuno, a contar chilometri.
E se tutti -mi chiedo- fossimo un po' meno "misurati" e un po' più pazzi, un po' come Stefano e Lucia, che, pur di avermi al loro matrimonio, erano pronti a prenotarmi un volo domani da Pisa a Milano?
Forse è questo, o anche questo, la passione, la dismisura, che mi fanno amico, forse un po' partigiano, dei ragazzi e delle ragazze nel tempo della loro "dismisura".
"I tuoi fidanzati...": di tanto in tanto mi dice con una punta di sorriso Maria Teresa, quando sull'agenda trova appuntati incontri e incontri un po' dappertutto. È un'amica e sa che per me è come andare a uno "spettacolo".
L'autostrada, essere riconosciuti tra centinaia ad un autogrill, la Cisa, e poi una striscia di mare velato ed eccoci finalmente sulle colline, nei pressi di Monterotondo, sparsi qua e là un casolare, una fattoria, ulivi e vigneti.
La villa che cerchiamo è inconfondibile: le fanno da ingresso pini e pini marittimi a non finire. Qui, all'interno di una piccola chiesa, nel tardo pomeriggio il matrimonio di Stefano e Lucia.
Il tempo di osservare la villa da fuori, mentre qualcuno sta ripulendo dalle foglie l'ingresso.
Ci possiamo concedere qualche ora di riposo: rincorrendo, poco fuori la trattoria, il sibilo di una cicala e sorprendendo tra i rami, invasi dal cinguettio della capinera, gli appostamenti del più piccolo dei suoi nati.

Ritorniamo alla villa. La festa dei preparativi, la festa degli occhi nel rivederci. L'ospitalità: "Al piano superiore, se vuoi, c'è una stanza per te in cui riposare". Ritornano alla mente stanze della Bibbia, stanze al piano superiore, stanze dell'amicizia.
Siamo incuriositi, quasi intrigati, dalla penombra della chiesa nella villa: troppo piccola per contenerci tutti, ma disposta come un abbraccio. Ha lo spazio della sincerità.
Indugiamo a predisporre ritmi, parole e gesti di un rito, che sarà, per una scelta di autenticità, senza Messa ma sacramento e cioè segno e tramite di una presenza, quella di Dio, dentro e non fuori le storie di amore che segnano e illuminano le sue creature.
La tensione a poco a poco si stempera e rimane solo la festa, un'attesa dolce.
Mancano pochi istanti e mi incanto a guardare Otello, il custode della villa, che raddrizza pazientemente con un piccolo sostegno la piantina di oleandro all'ingresso della chiesa: anche lei, è giusto, deve esultare.

Inizia il rito. C'è anche don Rolando, il parroco di queste colline illuminate dagli ulivi.
Il rito è nella sincerità. I gesti e le parole sono quelli, e solo quelli, che vengono dalla vita. Non c'è nulla di forzato.
È il momento della parola: testi bellissimi della Bibbia, che solo una cattiva traduzione ha coperto di stanche incrostazioni. Vanno ripuliti con l'amore e lo stupore di chi, sui muri di una chiesa, va ripulendo antichi affreschi.
Incrocio, per una sorta di complicità, gli occhi luminosi di Stefano, quelli scintillanti di Lucia. Ascolto emozionato questa promessa di custodirsi -così hanno detto- l'un l'altro per tutta la vita.
E Dio li sfiora, l'uno per l'altro segno del suo passaggio. E siate luce: come dice il Vangelo. La luce non grida, non violenta le cose, solo restituisce il colore.
E ora un posto -posto minore- anche per le nostre parole umane, più fragili e incerte della parola di Dio che è roccia. Ascolto la voce di un amico degli sposi, voce profonda, come di un saggio che estrae dal tesoro cose nuove e cose antiche.
C'è spazio per benedire Dio e oggi vorrei benedirlo con le mie parole per l'olio e per il grano, per il cielo e per la terra, per Stefano e per Lucia, per ogni uomo e ogni donna sulla terra.

La chiesa che è un abbraccio ora si scioglie. Ora gli abbracci sono sotto i grandi alberi. Il sole sta tramontando sugli ulivi e li fa scintillanti di argento per tutto il degradare della collina, scintillanti e vivi come gli occhi di Lucia e di Stefano.
Continua il rito, più laico ma non meno intenso fuori la chiesina.
Due ore o quasi a parlare fitto, ora con l'uno ora con l'altro, a parlare -che strana cosa!- di Dio, dello spirito, di riti spenti e di emozioni, di chiese che giudicano, di Dio che salva.
E a sequestrarti -dolce e riposante sequestro- sono coloro che frettolosamente le chiese giudicano lontani dallo spirito.
"Io sono laico, non praticante" -inizia uno- "eppure vorrei un luogo dove anche per noi due si potesse celebrare un passaggio di Dio".
"Mi sono emozionata" -racconta una ragazza- "è stato un momento di intensa spiritualità. Ma per noi? E noi chi siamo per le chiese? Dei reprobi, dei dannati?"
Sotto gli alberi di alto fusto gli amici si incontrano e, più che consumare un rinfresco, consumano parole e pensieri, condividono emozioni e ricerche. E Dio è uscito dalle chiese.
"Tu non mi costruirai" -dice Dio a Davide- "la casa per la mia dimora. Difatti io non ho mai abitato in una casa da quando feci uscire Israele dall'Egitto fino ad oggi. Io passo da una tenda all'altra, da una dimora all'altra" (1 Cr. 17,4-5).
Due ore passate sotto gli alberi di alto fusto. Gli ulivi ora più non scintillano, li vela l'ultima luce della sera.
Possiamo rimetterci in strada. Il cuore è già gonfio abbastanza.

Giunto alla fine -se hai avuto la pazienza di seguirmi fin qui- forse ti chiederai il perché di questo racconto all'inizio di un'estate.
Non ci sono ragioni. O forse solo le ragioni del cuore. Anch'io mi sto interrogando.
Forse è per condividere emozioni e gioie. La vita non è fatta solo di preoccupazioni.
O forse anche perché, a fronte di tante emozioni, a volte soffri l'aridità e la povertà, il vuoto, di tante -troppe!- parole rituali.
È proprio vero che non si può immaginare qualcosa di diverso? Ma gli uomini delle curie -di donne purtroppo a dirigerne gli uffici non ce ne sono- non hanno il tempo di leggere i nostri fogli bizzarri.
O forse il racconto era solo un pretesto? Il pretesto per dire che puoi fare ottocento chilometri e non sentire la stanchezza; ne puoi fare meno, infinitamente meno, e sentirti stanco da morire. E dov'è la differenza?

don Angelo


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