articoli di d. Angelo


 

E SE L'ARCIVESCOVO DICESSE: "BASTA!"?

Potrei dedicare questi miei appunti a Cristina, a Isabella. e anche a Magda. Al loro viso sciupato, ma non spento. E al desiderio che mi prendeva di tanto in tanto, fissandole, di accarezzarle, per togliere, se mi fosse stato possibile, un velo di stanchezza dai loro occhi.
Potrei dedicare questi appunti anche alla paura. La paura che sempre più mi sta invadendo di una chiesa che parla e programma, imperterrita, senza indugiare prima in silenzio a osservare i segni dell'umana stanchezza sui volti delle folle, innamorata più dei suoi programmi pastorali che del volto concreto degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Mi prende paura di questo parlare assoluto, un parlare "come se". Come se tu non avessi perduto il bambino che portavi in grembo, come se tu non fossi alla ricerca di una casa, come se tu non fossi con l'acqua alla gola, come se tu domani non avessi un esame.
Le stesse parole, lo stesso tono, la stessa cantilena, la stessa logica concatenazione. Come se fosse ieri o l'altro ieri o tanti anni fa. La processione passa per piazza Fontana, come se nulla fosse accaduto: le stesse parole, gli stessi canti, lo stesso incenso, come se percorressimo viale dei Mille.

LA COMPASSIONE PER L'UMANA STANCHEZZA

Mi affascina il Gesù dei Vangeli, che si accorge della stanchezza della gente: non se ne va imperturbabile nei suoi discorsi.
"Gesù vedendo le folle sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore" (Mt. 9,36). Prima delle parole, prima dell'organizzazione, la compassione per l'umana stanchezza.
Non sarà da ascriversi a un vuoto di compassione il fatto che parole e documenti cadano nella più assoluta indifferenza e insignificanza? Non sarà perché non nascono dalla compassione, sono scritti a tavolino, nei palazzi?
Un conto è abitare il palazzo, un conto è abitare con la gente e guardarla. Guardarla in faccia, negli occhi, ogni giorno. Come faceva Gesù.

PARLIAMO COME SE...

Mai così frequentemente come in questi ultimi anni mi è capitato di commuovermi davanti alla stanchezza. Quasi assistessi, incredulo e smarrito, a un suo disumano crescendo nelle città. Ma è solo nelle città?
Ne teniamo conto? O facciamo "come se"? Come se questa città, questo tempo, non ti spremessero fino allo sfinimento. Quasi prosciugandoti.
A volte parliamo e parliamo, come se la gente avesse a disposizione ore e non minuti. A volte proponiamo e straproponiamo, impietosamente, come se la gente non avesse un lavoro, nè fuori casa nè dentro le case, come se non avesse moglie o marito, non figli e figlie, non amici, come se abitasse conventi e non condomini, come se il mondo fosse ancora il cortile e non la città o le città.

NEGLI OCCHI IMMAGINI E IMMAGINI

Negli occhi mi ripassano immagini e immagini.
Rivedo Isabella, poche parole strappate alla fretta, all'avaro -avarissimo- spazio di un marciapiede urbano, tra lo slalom assurdo di auto in posteggio selvaggio: la fatica di una giornata disegnata su un volto, ma anche l'accendersi di una emozione negli occhi.
Rivedo Anna, che arriva trafelata da Parigi il venerdì sera, per gli incontri dei fidanzati, una corsa dall' aeroporto, per fortuna Linate è vicino. Stanca, ma appassionata, indomita.
Rivedo Luca e ripenso al piatto di riso che Anusc gli ha preparato, consumato in macchina, giusto il tempo di attraversare la città, per venire all'incontro.
Rivedo Ernesto, che, sera dopo sera, ci ricorda gli spostamenti di Silvia, da una città all'altra dell'Australia, un volo dopo l'altro.
Risento le telefonate da Madonna di Campiglio o da Venezia, per dire che stasera non ci sei.
Rivedo il tuo volto smagrito e gli occhi gonfi di pianto, mentre mi parli delle tue giornate, dei due figli ancora piccoli, della madre a cui presti le tue cure, del tuo desiderio negato: desiderio di una lettura o di un incontro in parrocchia o di una preghiera, più lunga del tuo "Padre nostro".
E mentre mi parli vado immaginando la tenerezza di Dio per i suoi figli stanchi e affaticati. Sogno gli occhi di Gesù, mossi a pietà per la stanchezza delle folle: Lui così lontano dall'aggiungere fatica a fatica, peso a peso, prescrizione a prescrizione. Venuto a liberare e non a opprimere.
E mi vado chiedendo come tener conto del mutato contesto sociale: moltiplicando incontri, dilatandone i tempi, dilavandoli fino alla estenuazione oppure accendendo nel breve tempo -il solo che ti è consentito- l'incandescenza del mistero?

TUTTO IL GIORNO IN PARROCCHIA?

"Famiglie: domeniche a tempo pieno": così "Avvenire" del 3 luglio titolava la proposta di una diocesi italiana per la domenica delle famiglie.
Lo schema suggerito prevede che la famiglia intera parta da casa, dopo aver recitato un salmo di "ascensione", e si raccolga per le lodi mattutine in chiesa, prima di preparare l'inizio della messa (accoglienza, canti, ministeri). Una o due famiglie si occupano del servizio liturgico durante la celebrazione, e l'incontro comunitario prosegue fino al pranzo, vissuto in famiglia e preceduto da una preghiera e un segno comune a tutti i partecipanti. Nel pomeriggio, in parrocchia, momento spirituale per gli adulti e gioco educativo per bambini e ragazzi, poi canto dei vespri ed eventuale "agape fraterna", e chiusura della giornata di nuovo in famiglia, con la recita di compieta.
Non vorrei negare la plausibilità e percorribilità di simili proposte da parte di fasce elitarie del popolo di Dio, ma i miei occhi amano indugiare sulla gente comune, intenerirsi per le case comuni, dove capita la domenica di ricuperare il tempo che non hai avuto lungo la settimana, dove desideri finalmente godere di una intimità a lungo negata, dove l'anelito non va a disegnare un tempo, ancora una volta prepotentemente ingabbiato in rigidi orari, ma, se mai, a vivere e godere di un tempo finalmente senza cesure, un tempo ove sostare è senza fine.

A STANCHEZZA NON SI AGGIUNGA STANCHEZZA

E che a stanchezza non si aggiunga stanchezza.
Mi rivedo sul sagrato di una chiesa, alla conclusione di una processione del Corpus Domini: la stanchezza che mi porto dentro non è dovuta -così mi sembra di capire- al caldo e all'afa della città in una sera d'estate, ma al cumulo delle parole: parole su parole, canti su canti, per due ore, ininterrottamente. Invano ho cercato una pausa di silenzio.
Ho sognato, per un attimo, che l'Arcivescovo, lui così vicino all'animo degli uomini di oggi, facesse un cenno e dicesse: "Basta!".
Sembrano a volte così lontani i giorni del Concilio. Ci si sta di nuovo innamorando delle parole e delle vesti liturgiche, della pomposità dei riti, delle coreografie.
Regie impeccabili e volti sempre più impenetrabili: "Invano ho cercato su quei volti un'emozione": così una ragazza, dopo una più che solenne concelebrazione.
Forse ho esagerato. Ma a volte mi chiedo in quale angolo riposto siano finite le pagine del Concilio, dove leggi: "I riti splendano di nobile semplicità, siano chiari nella loro brevità, e senza inutili ripetizioni" (Sacrosanctum Concilium n. 34).
Forse ho esagerato. Ma sento nell'aria il pericolo, il rischio che a stanchezza si aggiunga stanchezza.

don Angelo


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